La scienza è rozza e la vita è sottile, diceva Roland Barthres. Non ci sarebbe niente da aggiungere per commentare questa tre giorni triestina, seconda edizione dell’ incontro delle associazioni di persone con l’esperienza del disagio mentale, che porta un titolo quanto mai eloquente, Impazzire si può, viaggio nelle possibilità della guarigione. Perché qui è stato proprio lo scarto tra i due aggettivi , “rozzo” e “sottile” a prendere la scena, la distanza che separa la vita dalla scienza quando questa pretende di ridurla al suo discorso, al suo grottesco e feroce assopimento. Qui, sono state le narrazioni ad avere il sopravvento, le storie che si possono riscrivere, i finali che si possono cambiare, le voci di chi ha deciso di revocare quella delega forzata, e troppo spesso senza via di scampo, che assegna alla scienza l’ultima parola sulla follia e sulla vita chi vi passa attraverso.
Torno da Trieste con uno sparuto gruppo di veneziani venuto a vedere il miracolo di quella rivoluzione di cui, in questo Veneto che ha paura della luce e porta soltanto occhiali scuri, non si dice affatto o si dice a denti stretti che forse quel nome e quella fama continuano ad essere usurpati. Eppure, la rivoluzione, quella che ha rovesciato manicomi, psichiatrie e medicine “schiave per pazienti schiavi”, la si incontra in queste persone venute da ogni parte d’Italia, nei luoghi e nei modi di questi servizi, nei linguaggi che da qui hanno preso le mosse. Insomma, la si incontra carne ed ossa, ed è impossibile girarle le spalle. Ti viene addosso, ti contagia. Ci sentiamo così, contagiati da una strana eccitazione che ci fa ripetere, ciascuno a modo proprio, le storie della rimonta, del protagonismo, del senso dei diritti che, lo abbiamo capito, suonano proprio in altro modo se a raccontarle è chi ha davvero attraversato la sofferenza mentale rifiutandosi di essere ridotto a questa sofferenza. Sono queste persone, che hanno il talento del racconto e la poesia della testimonianza, a dire di come sia difficile narrarsi, , misurarsi con lo stigma di sé e l’autocommiserazione che travolge chi apprende, suo malgrado, a vedersi e a raccontarsi con le parole di una normalità cupa e analfabeta, stordita dalla diversità e dal dolore. Quella “ normalità” che è” formalità”, come dice Claudio, aggiungendo poi, “ siamo tutti degli attori, qualcuno senza morale” . Queste persone, che di morale s’intendono bene, narrano di “un borbottio corporeo” che prende il largo nei racconti, dell’uscita dal silenzio, del metter fuori come un modo di riprendersi lo spazio comune negato. E in questo “fuori” , del giocarsi il diritto a stabilire dei confini, una misura di quello che si vuole dire di sé. Anche chiedendo silenzio. Sono queste voci a porre le questioni cruciali , a denunciare le contraddizioni e a dar lezione su quello che occorre. I diritti e le risorse, le cure e la bellezza, le opportunità e l’ascolto. La cittadinanza e le appartenenze. Il lavoro, non quello finto che intrattiene per assistere, ma quello vero capace di fare, di inventare, di andare nel mondo a testa alta. Vestiti, pentole, serre, ceramiche che siano. La capacità di intendere e volere, il diritto ad essere criminali se si commette un crimine, attori se si è capaci di recitare, musicisti se si è capaci di suonare. “Sono sempre stato io” dice Davide, anche prima quando nessuno poteva riconoscermi. Perché c’è un nesso tra l’idea che la sofferenza psichica sia minorità mentale, perdita di responsabilità e credibilità, annientamento di sé e tutte quelle pratiche che cancellano i soggetti , tutti quei discorsi che invocano tutele e non diritti, luoghi speciali, comunità al posto di case, ospedali psichiatrici giudiziari al posto di carceri, laboratori protetti al posto di officine, cooperative assistite al posto di imprese sociali.
L’incontro è organizzato in assemblee: parola desueta e un po’ malinconica, circoscritta a pochi luoghi, di rado davvero decisivi. Assemblea non è convegno. Anche qui c’è un palco (anche se è basso e la gente ci si siede intorno e sotto) ma la sala che ci ospita- che prevede solo un certo numero di presenze, non riesce a chiudersi perché il pericolo non c’è anche se le regole così vorrebbero.
Non c’è pericolo, non c’è contesa, non c’è fastidio. Assemblea è questo starsi a sentire, interessarsi, guardarsi in faccia, senza formalità. Riconoscersi dentro una storia comune. La salute mentale, come l’acqua, è un bene comune, dice qualcuno. Ed è la comunanza, quella diversa dall’omologazione, che crea beni, produce risorse. Allora dobbiamo scambiarci le parti, scambiarci i saperi, farli circolare. Sembra questa la cifra del discorso di Jenkins, molte altre volte presente in occasioni di ritrovo qui a Trieste, ma mai chiaro ed incisivo come adesso, quando racconta di come devono essere i servizi centrati sulla guarigione, di come devono essere le pratiche e delle architravi comunitarie di un’architettura che produce salute. Quando racconta dell Icra Whole life, l’università gratuita nata per la promozione di una cultura della recovery e del ruolo che assume in questa costruzione chi ha vissuto l’esperienza . Lo ricordano i membri della commissione d’inchiesta sul sistema sanitario nazionale, la senatrice radicale Donatella Poretti il senatore del Pdl, Michele Saccomanno, che viene qui a dirci, non ci credevo, ma avevate ragione. Su Trieste, sugli Opg, c’è un’evidenza che non ha bisogno di parametri formali per legittimarsi. Non ha bisogno di prove ulteriori. E poi i libri sulla cooperazione sociale, il lavoro dei giornalisti (pronti a fare inchieste, a raccontare la propria storia familiare o trasferirsi in un paesino remoto della Francia per capire perché i pazzi avessero un cimitero solo per sé, cosa significasse questo e perché qualcuno avesse deciso di cancellarlo per farne un parcheggio) . E la voce rapace di Ida de Benedetti che rianima Marco Cavallo parlando agli internati di Montelupo fiorentino,le voci delle innumerevoli emittenti radiofoniche che si sono costituite in moltissimi luoghi in Italia e, talvolta anche solo come sezioni di radio locali, portano qui la loro storia; le voci dell’assemblea che danno corpo alla Carta di Trieste e al suo glossario sul potere delle parole e sulle ragioni per cui non possiamo farne a meno. Infine il video, introvabile e miracolosamente ritrovato, girato nel 68 a Gorizia da una giornalista di origine finlandese, potentissimo, commuovente, esemplare testimonianza di come, dall’inizio, la vera scommessa di questa battaglia di civiltà sia stata quella del protagonismo che, per esser tale, deve riguardare tutti, nessuno escluso. E’ in gioco, di nuovo, la triade “ libertà, fraternità e uguaglianza”, avverte Rotelli, la necessità di ricostituirla perché quando viene fatta a pezzi rovescia la libertà in usurpazione, la fraternità in pietismo, l’uguaglianza in omologazione e pensiero unico. E di questo gioco, senza dircelo, tutti ci sentiamo parte. Così quando d’improvviso un “colpo al cuore” interrompe bruscamente l’appassionato intervento Peppe, capiamo quel “si può morire in vita” di cui parlava il primo giorno Novella. E capiamo, ancor meglio, che ci si è gelato il sangue fino a che non abbiamo sentito che il suo non smetteva di scorrere. Così anche il nostro, lo stesso sangue.
Nonostante la scienza. Che è rozza, si sa, mentre la vita è sottile.
2 Comments
come si può commentare in queste condizioni?
matteo
Senza fiducia, senza aneliti alla liberazione, si sbaglia strada, s’incontrano labirinti dell’anima. Si esce alla luce sperando e amando.
Quando ti allontani e vai
parlando al vento
come l’animale rimango
in bianco e nero a vedere
la sera che sale
l’ombra delle tue piccole spalle.
E appunto io ho bisogno di fiducia e speranza per le piccole spalle della mia fanciulla, io madre,lei figlia in quella femminile andatura che racconta la fatica e la passione e restituisce la pienezza senza tempo che continua nella speranza di salvarci