La Psicologia non è il figliol prodigo, non ha peccato. Freud non è il giovane figlio ingrato che prende la parte di eredità della Medicina che gli interessa e se ne va per il mondo a dilapidare il patrimonio di famiglia.
La Psicologia nasce con una bella fetta di eredità della famiglia di origine certo, ma non abbandona il padre per sperperare e sprecare, si prende quello che serve e costruisce nuove ricchezze di sapere e conoscenza. Perché le regole del padre, il linguaggio di famiglia, il modello, il metodo, il paradigma della medicina non era quello che serviva alla Psicologia per costruire “altro”. Freud non avrebbe avuto nessun bisogno di “altre parole per dirlo” se gli fossero bastate quelle della medicina. Perché dovremo averne bisogno noi, dopo più di cento anni? Per sentirci come? Per essere cosa?
In più la Psicologia non è ridotta dalla fame, non è così tanto disperata da voler tornare alla casa del padre e infatti non lo vorrebbe neanche fare, si direbbe che sia il padre a pretenderlo. Sembra sia la medicina, il padre, a decidere che è giunto il tempo di riportare a casa il figlio scapestrato. E sembra totalmente disinteressato al parere del figlio, molto più focalizzato a fregiarsi di competenze che non ha e che vorrebbe pretendere solo accorpando il nome del figlio – Psicologia – a quello del padre – Medicina.
E infatti i colleghi psicologi iscritti all’Ordine Psicologi Lazio non sono neppure stati informati della riorganizzazione in essere, né da Università, né dall’Ordine stesso. Ovvero di quello che pensa il figlio, adulto, emancipato e legittimo, non sembra importare niente a nessuno. Mi dispiace ammetterlo ma questo “sistema” non sembra affatto “sano” e se il padre vuole “farci la festa” io preferirei non sedermi a quel banchetto.
Chiariamoci su questo punto, per evitare ridicoli richiami al ritorno alla casa madre e soprattutto inconcepibili dichiarazioni di “analfabetismo” medico, perché mai dovremo essere preoccupati di non conoscere la clinica dal punto di vista organico? Abbiamo formazione sufficiente per sapere che qualsiasi altra patologia di natura organica deve essere esclusa prima di formulare la nostra ipotesi psicodiagnostica, quindi nella normale prassi clinica se non sono già stati fatti tutti gli accertamenti utili a escludere altre patologie organiche che giustificherebbero i sintomi che il paziente ci porta, non dovremo neanche iniziare una terapia. Perché dovremo avere noi competenze che spettano a loro, o sono loro che vorrebbero forse pretendere le nostre?
La Psicologia ha un’ottica distinta dalla psichiatria. Siamo due discipline diverse, possiamo per comodità usare lo stesso linguaggio, ma il modo in cui il medico/psichiatra parla di Disturbo di Personalità è molto diverso da come ne parliamo noi, usiamo un paio di occhiali diversi. L’etichetta diagnostica è condivisa, non certo la matrice biologica della lettura del disturbo. Che poi la medicina di eziopatogenesi psicopatologica non ha mai detto nulla, al massimo è in grado di riconoscere e valutare le alterazioni biochimiche del cervello e prescrivere psicofarmaci sintomatici. Vero è però che neanche quelli che gli psicofarmaci li costruiscono sanno come e perché certi farmaci funzionano. Uno per tutti, il bugiardino del Ritalin: leggere e riflettere.
La versione del “bugiardino” originale non è proprio come quella in italiano, per amore di sintesi diciamo solo che nella parte che riguarda le considerazioni particolari sulla diagnosi del ADHD in inglese è chiaramente scritto che l’eziologia della sindrome è sconosciuta e non c’è un singolo test diagnostico. La diagnosi richiede risorse non solo mediche ma psicologiche, educazionali e sociali. In italiano si taglia la testa al toro con una traduzione che la dice lunga: “dovranno essere presi in considerazione criteri medici, neuropsicologici, pedagogici e sociali.”
La differenza è culturalmente marcata, in altri mondi, evidentemente, certi approcci mantengono la loro definizione, rispettano i confini, non confondono i ruoli. Potremo immaginare, allo stato attuale, che nel bugiardino di uno psicofarmaco distribuito in Italia ci sia scritto, come per altri paesi, che la diagnosi non può essere solo medica ma deve essere anche psicologica? Noi sappiamo che sono due cose diverse. Lo sappiamo vero?
Grazie alle evidenze che oggi le neuroscienze consentono, la letteratura ha confermato che la psicoterapia al pari della terapia farmacologica produce modificazioni a livello neurocerebrale, dunque abbiamo efficacia dimostrata e pari dignità. Il dato clinico condiviso internazionalmente è che la migliore terapia è quella integrata “ farmaco e psicoterapia”, proprio perché la medicina e la psicologia hanno diverse competenze, metodologie e strategie. Nell’integrazione di due competenze ha un senso la diversità, il valore aggiunto è determinato dalla propria definita e legittimata diversità. Nessuna integrazione è possibile se una delle due parti è inferiore, si sente inferiore o è considerata inferiore, in quel caso si parla di “assimilazione”. E’ questo che vogliamo?
Permettetemi poi di ricordare che lo psicologo si occupa di relazione e significati, non di malattia, anche quando lavora esclusivamente in ambito clinico. Noi abbiamo modelli di riferimento diagnostici diversi dalla psichiatria, la diagnosi psichiatrica è diagnosi nosografica-categoriale, noi psicologi la condividiamo in termini di linguaggio (DSM) ma non ci serve a niente in termini di eziopatogenesi e quindi di coerente risposta terapeutica. Noi abbiamo una nostra prospettiva assolutamente diversa da quella medica. Alla medicina il fatto che l’ambiente/contesto produca una risposta X (sintomo) interessa fino a un certo punto, a noi moltissimo perché ci occupiamo di come l’esperienza del paziente viene processata all’interno di una coerenza di significati dell’individuo. E del suo mondo. Noi infatti ci occupiamo anche del processo inverso: del significato che quella risposta produce nell’ambiente/contesto e del significato che assume nella trama narrativa del paziente stesso. Qual è il vantaggio del sintomo?
Da un punto di vista epistemologico noi psicologi quando ci occupiamo di psicopatologia abbiamo alcune priorità che la medicina esclude, a meno che non opti per un intervento psicoterapeutico, cioè non entri in un territorio comune agli psicologi:
- la stretta reciprocità relazionale individuo/ambiente = per noi il paziente sarebbe incomprensibile senza guardarlo all’interno della sua rete relazionale e ambientale e della sua storia personale. Allo sguardo medico non interessano i contesti del paziente in termini di “cura”, specialmente farmacologica.
- noi diamo un peso importantissimo ad ogni minimo dettaglio della nostra relazione con il paziente
- il valore del setting come spazio di significato della relazione (il significato dello spazio relazionale)
- “last but not least”: noi favoriamo il “cambiamento” che è cosa lontanissima dall’idea di “cura” che ha l’approccio medico. Per noi psicologi la trasformazione delle relazioni di significato di sé e dell’altro da sé, dei comportamenti-relazionali più funzionali alla qualità e al contesto di vita del paziente è il vero obiettivo.
Non dimentichiamo che il DSM avrà pure reso possibile una lettura “attendibile” della diagnosi ma non l’ha affatto resa “valida” e questo lo sanno anche i medici. Perché dovremo fingere di non saperlo noi? Perché fingiamo vero? Non è che non lo sappiamo, no?
Non ultimo, vorrei ricordare a tutti un simpatico dettaglio che ci aiuta a capire quanto sia importante che la psicologia si definisca e legittimi (quanto volte lo ripetiamo ai pazienti?!). Sicuramente conoscete i prestigiosi premi che Harvard rilascia in occasione delle premiazioni dei NOBEL in Europa, ecco loro organizzano gli IG-Nobel: i premi per le ricerche che (parodiando il principio galileiano) non possono o non dovrebbero essere riprodotte. Siamo riusciti in Italia, paese notoriamente povero in termini di risorse economiche per la ricerca a vincerne uno nel 2000, il riconoscimento per la chimica è andato a Donatella Marazziti, Alessandra Rossi del gruppo di Giovanni Cassano dell’Università di Pisa. Con il collega Hagop S. Akiskal dell’Università della California hanno scoperto che, dal punto di vista biochimico, l’innamoramento è identico ai disordini compulsivo-ossessivi.
Interessante vero? Ma da un punto di vista psicologico a noi che importa? E a loro, da un punto di vista medico? Tanto ancora non sanno né come né perché gli uni e gli altri, ossessivi-compulsivi o innamorati, dal punto di vista biochimico abbiano le stesse reazioni . Non sanno né come succede né perché. Lo hanno solo misurato e al massimo possono generosamente prescrivere farmaci agli uni e agli altri, posto che gli innamorati vogliano smettere di esserlo. Ovvero “spegnere il sintomo” cioè la reazione biochimica, quel sintomo che però, per noi, è prezioso portatore di significato. Non ci saremo dimenticati di quanto è importante dal punto di vista psicologico cogliere il significato del sintomo?
Per la Psicologia è importantissimo, anzi di più, il sintomo è quello che ci consente di comprendere, capire quella persona, la sua storia individuale, il suo mondo relazionale, il modo in cui descrive la sua esperienza, il suo malessere, come nella sua trama narrativa quel sintomo è spiegato, negato, rifiutato. A cosa mi serve spegnerlo con un farmaco? Attenzione non sto contestando né la medicina né i farmaci, che sono preziosi e sono stati la “magia” grazie alla quale abbiamo potuto cancellare le istituzioni manicomiali. Ma per uno psicologo il sintomo è anche la chiave, è il filo conduttore, l’indicazione più esplicita per il progetto terapeutico, perché dovremo accettare l’ottica medica che vede nel sintomo solo qualcosa da “curare” cioè eliminare?
E perché dovremo diventare più “hard” noi psicologi con questa ottica? Più “hard” in cosa?
La psicologia utilizza altri occhiali, altre prospettive, altre letture eziologiche dei disturbi, certo condividiamo il linguaggio della medicina nella psicopatologia ma non abbiamo nessuna necessità di “consegnare” il disagio psichico al modello biologico-medico. Ne abbiamo tanti di modelli noi in psicologia, abbiamo davvero bisogno di quello medico per sentirci più competenti?
Sicuri di comprendere appieno di cosa stiamo parlando?
E la psicologia dello sport, dell’invecchiamento, delle organizzazioni, dell’emergenza, del lavoro, ma che “c’azzecca” con i medici? Davvero io non posso credere che soffriamo tutti di sindrome del brutto anatroccolo e che temiamo di non avere competenze di ben altro tipo e assolutamente legittime e distinte da quelle mediche.
Non credo che definirsi e legittimarsi debba corrispondere ad un conflitto che ci veda per forza “contro” qualcuno o qualcosa, sicuramente però dobbiamo immaginare un conflitto, anche forte, determinato, per muovere “verso”, per portare le nostre competenze dove invece stanno entrando strane figure di ogni tipo: counselor, coach, personal trainer, maghi, ciarlatani, estetiste, psicosofi e chi più ne ha più ne metta.
Io non vorrei diventare “medico”, vorrei restare nel mio territorio, un territorio che è anche “fuori” dalle cliniche, fuori dagli ospedali, fuori dagli ambulatori, vorrei occuparmi di quello che è il mio territorio e collaborare con i territori limitrofi: medicina, neurologia, pediatria, psichiatria, sport, lavoro, pubblica amministrazione, scuola, famiglia, città, economia, sviluppo, turismo, disabilità, comunicazione, economia.
Vorrei essere “psicologo” ed essere riconosciuto, come avviene nel resto del mondo.
Infine, un dettaglio. Il nostro Ateneo a Roma, Sapienza, avrebbe potuto avere 12 facoltà, ne ha tirate fuori dal cilindro solo 11. Domanda: perché non accorpare Psicologia 1 e 2 totalizzare 12 facoltà come era possibile? Che problemi avevano a Medicina? Dovevano accorpare per forza Medicina 2 con qualcuno? Non potevano sopravvivere due facoltà di medicina? Non potevano accorparle e farne una sola? Come mai l’ateneo romano ha dovuto fare tutto così di corsa, visto che il decreto Gelmini, il famoso DdL n.1905/2009, sarà discusso e votato rispettivamente il18 novembre 2010 e il 25 novembre 2010 mentre la riforma alla Sapienza è in vigore dal 1 novembre 2010.
Mi auguro che i colleghi dell’Ordine Nazionale e degli Ordini Regionali prendano una posizione sulla questione. Non solo quella Universitaria, proprio su quella del futuro del nostro paese in tema di salute mentale. Perché perdere il nostro status di disciplina autonoma? Dobbiamo davvero consegnarci a medicina? Possiamo davvero accettare che un medico-odontoiatra possa qualificarsi e operare come “psicologo di base”?
Siamo davvero così incapaci di definirci? Non possiamo davvero trovare “le nostre parole per dirlo” e “i nostri spazi per farlo”?
Luana de Vita, Psicologa e Psicoterapeuta
7 Comments
Stimata collega, ho letto con interesse il tuo articolo che tratta di una tematica sicuramente attuale ma che affonda le sue radici in tempi memorabili, ovvero l’identità chiara e forte della psicologia e….degli psicologi, nettamente scissa da quella del medico. Chiudi il tutto con degli interrogativi che ritrascrivo (parole tue):”Siamo davvero così incapaci di definirci? Non possiamo davvero trovare “le nostre parole per dirlo” e “i nostri spazi per farlo”?”.Non so da quali dubbi provengono questi interrogativi, ma ti rispondo cosa ne penso io. Credo, dopo più di 20 anni di questo mestiere (psicologo, psicoterapeuta), che allo stato attuale noi psicologi siamo degli “incapaci”, soprattutto per quanto riguarda l’autodefinizione della nostra professione/professionalità (tralascio il resto per motivi di spazio che richiederebbero commenti anche di natura politica e sindacale). E’ questo a mia avviso lo zoccolo duro del “problema psicologi”. Il figliolo si è allontanato dal padre, ma ha dimostrato in tutti questi anni di non essere capace di un forte senso di identità perchè a mio parere lo stesso è contaminato da una forte incertezza di fondo. Ovvero la reale incisività, potenzialità ed efficacia della propria professione…che nel migliore dei casi dovrebbero favorire un ritorno in termini di apprezzamenti, valorizzazione, stima. E’ così che si costruisce un forte senso di identità. Come un figlio veramente amato dai genitori, che costruisce la certezza della sua esistenza ed identità per l’apprezzamento e l’amore da questi ultimi mostrato. Ma così non è a mio avviso. Gli psicologi, per lomeno una buona parte, continuano a fare proposte non degne di apprezzamento e stima da parte della collettività/utenza. Chiediamoci perchè. Durante tutti questi anni ho notato le reali difficoltà pratiche di molti colleghi che non sapevano fare nulla (anche colleghi diciamo anziani e con tanto di curriculum rispettabili) se non fare danno (incapacità a relazionarsi con le istituzioni, follie psicoterapeutiche, stranezze comportamentali, disagio psichico personale ecc.). Il tutto contrapposto alla autoreferianzalità di molti accademici e formatori che continuano a spillarci un mucchio di soldi per raccontare “frottole” (avete mai visto dal vivo un loro successo terapeutico?) specialmente ai giovani ed ingenui colleghi che dopo la laurea e una specializzazione quadriennale,e decine di ore di terapia personale non sanno neanche dove stanno di casa. Da tempo faccio il tutor per allievi laureandi e specializzandi e raccolgo tutte le loro perplessità ed insicurezze (e sono fortunati, perchè io le cosiddette “sicurezze”, se così le posso definire, me le sono dovute conquistare da solo, perchè ai miei tempi non c’èra neanche un cane disposto a mostrarmi come si lavorava!Ma credo che per una buona parte sia così anche oggi!). In sintesi…La formazione fa acqua da tutte le parti…prevale la logica del profitto e della “irreggimentazione” degli allievi, così come la presunta professionalità che è solo dichiarata, ma che nei fatti crolla con enormi brutte figure e danno all’immagine della categoria, e non solo…aggiungiamoci inoltre le difficoltà tipiche della nostra “scienza”, ovvero quesiti sulla reale efficacia, sui tempi, sulla velocità della risposta per così dire terapeutica, il tutto inserito in un contesto storico culturale ed economico narcisisto e follemente materialista, dove la velocità conta più di tutto.
Risultato? Si prendono pesci in faccia, altro che apprezzamento e stima…e l’identità resta una chimera
Rimedi? Un serio ed autentico dibattito interno alla nostra disciplina…ma non ho grandi speranze…la vita è illusione, maya, come la descrivono le filosofie orientali, ognuno faccia il suo gioco, reciti la sua parte, facendo finta che tutto vada bene, propagandando follie, svolazzi, volteggi e voli pindarici con sapiente uso del carisma sapientemente costruito ad arte a danno degli ingenui e speranzosi…e gran parte dei nostri colleghi noti e meno noti non sono esenti da questa immensa opera teatrale!
Cordiali Saluti
Salvo Migliore
Ti ringrazio per l’attenzione. In parte quanto dici è condivisibile ma vorrei aggiungere che, da questo punto di vista, potremo cucire la tua descrizione addosso anche a moltissimi psichiatri :”le reali difficoltà pratiche di molti che non sanno fare nulla (anche diciamo anziani e con tanto di curriculum rispettabili) se non fare danno (incapacità a relazionarsi con le istituzioni, follie psicoterapeutiche, stranezze comportamentali, disagio psichico personale e aggiungerei prescrizioni psicofarmacologiche da delirio – del medico- non del paziente, ecc.).
Non è certo questo il punto che, perdonami, coinvolge allo stato attuale la maggior parte delle istituzioni e delle professionalità (penso ai docenti, ai giornalisti, ai politici…) italiane. E’ che viviamo proprio tempi di degrado culturale.
In verità questo articolo nasce come commento nel blog di Nicola Piccinini che denunciava la scomparsa delle due facoltà di psicologia a Roma “accorpate” nella facoltà di Medicina. Molti colleghi parlavano di ritorno alle origini, di lacune della preparazione professionale, di necessità di avere una maggior competenza medica…etc.etc.
Io credo che il problema sia in realtà proprio questo, occuparsi sempre e solo di “malattia” e mai di salute mentale, rincorrendo il modello medico che vedi contrapporsi la malattia alla cura, per noi la linea di continuum dovrebbe essere altra, tra funzionalità e disfunzionalità della persona nel suo contesto unico, irripetibile di vita e di storia individuale. Ora io credo, e questo volevo significare, che noi psicologi abbiamo una visione completamente diversa della “qualità della vita”, abbiamo occhiali per vedere con estrema naturalezza le risorse prima ancora che i disagi, abbiamo una visione allargata dell’individuo, allargata alla sua rete sociale, famigliare.
Il nostro è uno sguardo che cerca relazioni e significati, che legge la storia personale e guarda al “sintomo” come qualcosa di “prezioso” perché costituisce l’unica risposta possibile in quella trama narrativa. Ecco perché noi parliamo di “cambiamento” e non di cura. E queste sono parole della psicologia, non della medicina. La trasformazione, il cambiamento si collocano all’interno di processi di costruzione dell’esperienza, della coerenza dell’identità dell’individuo, non è malattia prima e non è cura dopo.
Ma io dovrei avere la possibilità , per esempio, di considerare un momento di autonomia abitativa, per un giovane con qualche deficit emotivo o comportamentale che gli impedisce di uscire a 30 anni dalla casa dei genitori. Dovrei pensare che sia possibile avviarlo in un qualche progetto di lavoro “protetto” e di attività di socializzazione che gli consentano di misurarsi con gli altri all’interno di relazioni non solo ludiche ma anche progettuali.
Questa dovrebbe essere anche la radiosa idea di “territorio”, la salute è possibile solo in un contesto che la favorisca.
Io credo che il vero limite, l’unico, di noi psicologi e psicoterapeuti è che lavoriamo in studi privati, accessibili solo a chi ha risorse economiche, siamo praticamente inesistenti nelle realtà pubbliche (io vivo e lavoro a Roma) e viviamo di parcelle. In queste condizioni io posso solo vedere quel paziente, che non fa niente da mattina a sera, chiuso e isolato nella sua casa con mamma e papà, un’ora a settimana…per fare cosa? Quale “psicoterapia” dovrebbe restituirgli una qualche decente forma di partecipazione alla vita? Questo secondo me rende noi così deboli e incapaci di “partecipare” alla costruzione di un’identità professionale e arranchiamo intorno a gerarchie accademiche di potere o razzoliamo briciole rincorrendo la psichiatria e la medicina. Negli ospedali,nelle università, nelle cliniche, negli ambulatori e negli studi privati. Ma è fuori, che dovremo incontrarci, con la gente, con le istituzioni, con i colleghi.
Da psichiatra, chiamato in causa dai colleghi psicologi, ammetto che mi fa piacere che ci sia dibattito. Vi leggo pero’ con atteggiamento di sostanziale stupore. Penso infatti che sia impossibile tornare indietro. Chi poteva si é già sistemato per competenza (pochi) per conoscenza politica o per meriti acquisiti attraverso matrimoni o fidanzamenti eccellenti (tipica la coppia direttore DSM psicologa). Gli altri si arrangiano nel privato, molti non hanno un reale bisogno di lavorare in quanto sfruttano i sensi di colpa di ricchi genitori assenti durante l’infanzia e successivamente generosi finanziatori dei figli. In Italia esiste una pletora di psicoogi che in effetti non solo non hanno identità precisa e spendibile, ma che spesso mettono in ridicolo la categoria con comportamenti al limite della decenza (per sentito dire molte escort, concorrenti di concorsi di bellezza, accompagnatrici e proprietari di agenzie matrimonali sono laureati in psicologia). Lo psichiatra in quanto medico conserva un senso della professione e di appartenenza anche se poi spesso mostra i propri limiti sia personali che professionali. E poi in un epoca in cui i giudici declinano termini come posizione di garanzia lo psicologo in quanto professionista che non prende in carico il paziente ma si limita ad interventi in appoggio allo psichiatra, che alla fine é il solo vero responsabile della presa in carico del paziente, sarà sempre meno utile. Quindi avere un’identità vuol dire anche dimostrare la propria indispensabilità sia nel pubblico che nel privato. Auguri!
Da psicologa, caro AP, io un’identità ce l’ho e ho anche un nome e un cognome, come il collega Salvatore Migliore.
A lei resta l’anonimato che molto ci racconta del senso di responsabilità di cui può essere capace chi, come lei medico e psichiatra, dovrebbe farsi carico di un paziente e assumersi la responsabilità del “suo fare” e non riesce a farsi carico, assumendosene la responsabilità, neanche delle proprie opinioni mettendoci la sua firma.
Sì direi che il suo intervento definisce molto bene lei e una certa modalità di essere medico e psichiatra. Congratulazioni!
Cara LDV mille ragioni mi spingono a non scrivere il mio nome e cognome, in primis non voglio ferire colleghi psicologi che stimo e che potrebbero pensare che le mie siano considerazioni riferite a loro. Non credo di doverle delle spiegazioni approfondite. Inoltre le mie sono solo piccole provocazioni che speravo potessero aiutarvi a riflettere un po. Se non le interessavano i commenti anche provocatori perché pubblicare quel sermone? Le mie opinioni piu strutturate le esprimo in altre sedi. In quanto al mio modo di essere medico e psichiatra non si preoccupi non avrà mai per sua fortuna a che fare con me. Frequento altri lidi….
Cara AP, sulla psichiatria, si potrebbero scrivere pagine e pagine in negativo, Basti pensare l’assurdità ed il business, nel dare gli psicofarmaci ai bambini molto piccoli, con la scusa del disturbo iperattivo, ai manicomi…
Ma lo psicofarmaco funziona realmente? È difficile dare una risposta univoca, visto che uno studio di un paio d’anni fa, affermava che il prozac nel 50%dei casi funzionasse come un placebo; http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/scienza/grubrica.asp?ID_blog=38&ID_articolo=607&ID_sezione=243&sezione=Newsma.
È l’assunto stesso della psichiatria che è fallace, il pensare che basti la pillolina per stare bene… è una scorciatoia (che il più delle volte neanche funziona), ad un serio lavoro su se stessi.
E poi d’altronde gli stessi psicologi della scuola di Palo Alto negli anni 70, riuscirono ad ingannare gli psichiatri, i quali pur essendo sani, furono scambiati per pazzi; dimostrando che anche il DSM e tute le categorie diagnostiche, non siano altro che una costruzione della realtà!
Saluti
Cara collega LDV, avevo compreso che il tuo era un articolo in risposta a quello di Nicola Piccinini, che ho anche letto. Condivido integralmente le tue opinioni ma…credo che esse conducano sempre a quello che io definisco il punto di partenza..ovvero la reale capacità degli psicologi di dimostrare essere per così dire “indispensabili”, tanto per citare il nostro “famigerato amico psichiatra” AP…. indispensabili lo intendo come psicologi ovviamente, non come servi….Vero, infatti, che la nostra visione della professione è centrata sul cambiamento e non sulla malattia, che il nostro operare è sostanzialmente diverso da quello della psichiatria, ma occorre confrontarsi con i limiti del nostro operare, che io ho parzialmente descritto nel mio precedente intervento. La visione diversa della qualità della vita di cui tu parli e di cui la nostra categoria dovrebbe essere portatrice, perchè nei fatti non si riesce a farla emergere come figura ben distinta rispetto a una coltre immensa di terapie mediche e di folli pseudo terapie?
Esaminare il problema argomentando soltanto sulle basi teoriche ed epistemologiche della nostra disciplina può aiutare a comprendere e/o ricordarci la nostra diversità ma non ci aiuta, credo, a superare le reali difficoltà che, ripeto, sono dovute ad una enorme insicurezza di fondo ed un senso di identità (intesa come categoria) molto fragile.
Non basta scomodare i tempi critici per tutte le professioni o criticare i medici, ogni categoria professionale deve fare riflessione a casa propria e noi dovremmo seriamente farla senza ipocrisia e/o resistenze a casa nostra.