di Pier Aldo Rovatti
Da “Il Piccolo”
Siamo alle soglie del centenario della nascita di Franco Basaglia. Ci saranno tante iniziative pubbliche e nuovi libri da leggere: i problemi da lui sollevati continuano a premere, come ben sappiamo. Prima di lasciarci, a soli 56 anni, aveva varato la legge 180, ancora oggi al centro dell’attenzione. Nel 1979 aveva tenuto le sue ben note Conferenze brasiliane e in una di queste troviamo un’affermazione, per lui quasi scontata ma per noi molto inquietante, al punto che tendiamo tutti a dimenticarla.
Eccone uno stralcio: “Ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società accetta la follia come parte della ragione, e quindi la fa diventare ragione attraverso una scienza che si incarica di eliminarla”.
Osservare che queste parole avvicinano parecchio il pensiero di Basaglia a quello che troviamo in Michel Foucault a partire dalla sua Storia della follia, ci permette forse di allargare lo sguardo ma ciò che conta davvero è interrogarci su quello che dice qui Basaglia, senza mettersi subito in sintonia con le cecità del nostro presente.
Sembra proprio che oggi non disponiamo né di orecchie né di occhi per cogliere il punto dove Basaglia si colloca di traverso rispetto alle narrazioni dominanti: infatti, esse ci raccontano soltanto di salute e di malattia, anche quando risultano critiche e combattive. Basaglia adopera il tradizionale binomio razionale/irrazionale, che è tuttora pienamente condivisibile sempre che ci accorgiamo che la cosiddetta “razionalità” è ormai diventata la regola e il potere che determina o vorrebbe determinare ogni aspetto del comportamento quotidiano.
Il termine “irrazionalità” ci sembra adesso lontano, troppo vago per caratterizzare la follia, ma non è una buona ragione per chiudere la partita rimuovendo la parola “follia” dalla normale vita quotidiana. I “folli”, se volessimo continuare a chiamarli così, sono ormai dei “malati di mente” di cui la psichiatria si prende carico per distinguerli dai “sani”, cioè da quei normali che crediamo o che pretendiamo di essere.
Che in ciascuno di noi abiti una dimensione di follia (di irrazionalità, come si diceva) è qualcosa che rifiutiamo anche culturalmente. La nostra cultura, ormai accettata da tutti, è infatti una cultura della salute che combatte ogni malattia, comprese quelle della mente, e che fa del sano il valore assoluto. La frase di Basaglia, che ho appena ricordato, o non la prendiamo neppure in considerazione o ci fa sorridere.
La conseguenza è la seguente: se anche in alcuni luoghi del mondo attuale sono stati chiusi i manicomi, al contempo si sono moltiplicati i “muri” che separano i sani di mente dai malati di mente, muri tanto più difficili da abbattere quanto più siamo convinti che la follia o sta là dietro oppure non esiste ed è solo una parola vuota.
Tra i tanti problemi che vengono sollevati da questa specie di rimozione e che abbandoniamo come se fossero questioni senza importanza, ce n’è uno che potrebbe capovolgersi e diventare da negativo, come comunemente lo consideriamo, a paradossalmente positivo. Mi limito qui a indicarlo, partendo da qualcosa che mi pare implicito nelle stesse parole di Basaglia. Mi riferisco al fatto che non solo è civile quella società che riconosce e ospita in sé la follia, ma che tale supposta “civiltà” che vorremmo riuscire a rappresentare si nutra essa stessa di una simile ospitalità.
Anziché rimuovere in fretta la parola “follia”, nascondendola opportunamente sotto il tappeto delle buone maniere, non sarebbe meglio lasciarla allo scoperto tentando di capire che ruolo può giocare nelle nostre pratiche abituali: le trattiene limitandole o fornisce loro elementi per sviluppare un più di creatività? Questa difficile e assai poco praticata consapevolezza, un tentativo di essere davvero presenti a noi stessi, ci penalizza o ci permette di capire chi siamo e che cosa vorremmo essere?
In realtà, nessuno di noi riesce o solo vorrebbe rispondere a simili domande, e così – nella nostra normalità – passiamo dalla sobrietà alla violenza del parlare (e poi anche dell’agire) accettando la zona buia di tale irrazionalità, senza volerne sapere o magari temendo di venirne a sapere qualcosa.