[articolo pubblicato su il manifesto]
Torna per Einaudi Il comportamento in pubblico di Erving Goffman, un classico della sociologia che fu commentato da Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia. Un’analisi delle relazioni sociali tracciata negli Usa degli anni Sessanta che interroga il mondo dei social e della Rete. L’attualità del testo, che non stabilisce incongrui paralleli tra mondi diversi, sta nell’indicare la strada per un superamento di una lettura “naturalistica” dello stare in società
Operazione editoriale preziosa, questa ristampa del saggio di Erving Goffman sul Il comportamento in pubblico (Einaudi, pp. 296, euro 22) introdotta dall’utile testo di Adriano Zamperini sui tempi e la ricezione dell’opera quando fu pubblicata negli Stati Uniti e nella prima traduzione italiana letta e commentata da Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia.
Il saggio di Goffman può essere sicuramente considerato come espressione di uno spirito del tempo, dove le relazioni sociali erano scandite da un rigido galateo e da una differenza di classe che contemplava dunque modalità relazionali differenziate a seconda dei contesti. Un mondo alle nostre spalle sostituito da altre relazioni sociali che non cancellano certo le differenze di classe e da galatei sicuramente meno prescrittivi di quello evocati più volte da Goffman. E tuttavia le ricerche, l’ambito professionale di questo sociologo appassionato della psichiatria e dell’analisi delle istituzioni totali può essere considerato sì alla stregua di una archeologia dei comportamenti in pubblico, pur mantenendo però la capacità di aprire finestre sul mondo delle relazioni mordi e fuggi dei social network, dell’ostentazione narcisistica dei selfie, dove la messa in scena di sé è sempre propedeutica all’invenzione di identità posticce assemblate attraverso i vari brandelli di esperienza maturati nella partecipazione alle diverse scene pubbliche alle quali si accede tanto fugacemente quanto se ne esce rapidamente.
Erving Goffman ha acquisito una grande notorietà per aver posto – nei primi anni Sessanta del Novecento – al centro del dibattito il tema di come il singolo, quando si trova in pubblico, è portato a una rappresentazione di sé come se fosse a teatro. È cioè un attore che indossa una maschera e che recita a soggetto non però per celare l’identità, come veniva stabilito dalla psicoanalisi e da tanta letteratura ma per meglio esprimerla. È questa messa in scena per meglio rappresentare il sé che favorisce meccanismi di integrazione sociale; o, all’opposto, di stigma e di esclusione sociale.
Tutti elementi messi in evidenza proprio da Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, che invitavano alla lettura del libro di Goffman, ritenendolo essenziale per comprendere le dinamiche sociali della vita quotidiana come rappresentazione (il titolo della sua prima opera), ma nel quale l’assenza del parametro delle asimmetrie del potere ne limitavano la capacità di comprendere appieno il funzionamento della scena pubblica nel definire meccanismi di integrazione o di esclusione di singoli o gruppi sociali. Per i grandi vecchi dell’antipsichiatria italiana, Goffman imboccava sì la strada maestra della critica delle istituzioni totali, ma ne smarriva la direzione rimuovendo la tematica del potere. Critica condivisibile, anche se questo libro offre comunque spunti di riflessione. Prendiamo la malattia, elemento ricorrente nei case studies presentati.
Il malato è guardato sempre con un surplus di attenzione. Lo sguardo può essere di empatia, pietà, ribrezzo, in un alternarsi di condivisione e di emarginazione. C’è dunque ambivalenza, ma è proprio in questo contesto che matura lo stigma (titolo di un altro libro di Goffman, proposto meritoriamente da ombre corte nel 2003) dell’istituzione e dei rapporti sociali dominanti.
L’esclusione è dunque una pratica istituzionale che calibra le colpe e i premi stabiliti dal potere sociale dominante. Merito di Goffman è segnalare il fatto che le asimmetrie di potere sono però naturalizzate dentro i comportamenti individuali e collettivi in pubblico. Sono cioè ridotte a processi, flussi di informazioni. Di dati, per quanto riguarda, ad esempio, la Rete. Quel che Goffman stila sono delle bozze delle mappe del potere informale perché naturalizzato dalle istituzioni totali.
Goffman non nega le differenze di classe. Sa che il galateo della working class è radicalmente altro da quello della borghesia, che impone il suo come modo di essere dominante, ma è però interessato al comportamento pubblico della classe media, espressione che negli Stati Uniti indica i comportamenti socialmente condivisi e necessari alla riproduzione di una società di massa. Non è cioè interessato a una analisi dell’ideologia dominante, né ai processi di formazione delle soggettività, bensì a quel che accade appunto quando si è in pubblico, vale a dire quando si formano gruppi occasionali e legati alla contingenza di singoli che si incontrano, parlano, scambiano informazioni su argomenti più o meno futili ma comunque importanti nella propria quotidianità; coltivano amicizia, flirt sentimentali, incontri sessuali occasionali; oppure cercano conferma alle scelte di vita compiute in passato attraverso, appunto, la messa in scena del sé attuale. Tutto ha il carattere dell’occasionalità, del fortuito, dell’effimero.
In questo risiede l’attualità del libro nell’epoca dell’ostentazione in pubblico del proprio privato. I social network, l’uso intensivo e spasmodico della comunicazione sincopata degli sms o dei messaggi vocali, video o testuali di WhatsApp o di uno dei tanti servizi di messaggistica; l’essere connessi sempre alla Rete, volutamente strutturata come un ibrido di pubblico e privato come sono gli ambiti studiati da Goffman: i gruppi occasionali dei party, degli incontri al caffè, allo stadio, cioè le poche forme di socialità degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta statunitensi.
Le tassonomie da lui stilate per indicare le diverse modalità di comportamento pubblico – i raggruppamenti, le occasioni sociali, gli incontri, l’essere fuori luogo a causa di un comportamento inappropriato come l’essere ubriachi, le regole situazionali implicite e quelle esplicitate per la contingenza, il coinvolgimento dominante e quello subordinato – definiscono vere e proprie regole di ingaggio per lo stare in società alla luce di reazioni più volte qualificate come precognitive, cioè interiorizzate nei processi di socializzazione dell’infanzia e della prima adolescenza. Sono forme che si ritrovano anche nello stare in Rete, in una dinamica tuttavia amplificata come è potenzialmente amplificato il pubblico della messa in scena on line.
Molto importante è questo elemento della dimensione precognitiva, interiorizzata. Nell’esperienza della Rete significa che c’è amplificazione del già noto, cioè delle regole di ingaggio sociali implicite ed esplicite dello stare sul palco della vita. L’esplosione del narcisismo, l’ostentazione del sé, l’indifferenza verso le ragioni degli altri, i sottili meccanismi ipocriti di accoglienza uniti ai feroci meccanismi di esclusione sociale sono, senza incorrere in anatemi, degli a priori del comportamento pubblico. La Rete li radicalizza, li mette a nudo e li rende costantemente operativi.
Nel libro di Goffman c’è, va ripetuto, un costante riferimento al galateo, cioè a regole che ogni uomo e donna e ogni gruppo sociale doveva rispettare. In Rete il riferimento a un qualche galateo è il panno caldo che si invita ad usare per lenire il dolore, per evitare i flame, gli insulti, la logica del branco che porta gli haters della tastiera a colpire e a trovare inaspettate complicità. Si potrebbe dire che in Rete non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Sono comportamenti, modi di essere che il sociologo di origine canadese aveva analizzato sin dagli anni Cinquanta. Con una sostanziale differenza, che come è noto quando supera una certa quantità influenza molto la qualità. Il mondo sociale di Goffman era circoscritto da confini precisi e rigidamente delimitati dalle differenze sociali e di classe. Su Internet tutto diventa più fluido, più dinamico. La logica prevalente è quella dei flussi, che non annullano differenze di classe, sessuali, etniche, di razza, ma le articolano in maniera tale che sono interscambiabili e tendenzialmente fusionali. Ovvio quindi che tutto è amplificato, radicalizzato nelle sue manifestazioni. Stare in pubblico è come stare in teatro, scriveva Goffman: in Rete è come stare sempre on line e in video, dato che non c’è pubblico senza essere visti. Da qui il predominio del visuale rispetto al testuale. Da qui la sistematica violazione delle regole situazionali che procede di pari passo con l’invito a ripristinarle in una dinamica di superfetazione di etiquette che lascia sempre il tempo che trova.
L’attualità del libro di Goffman sta dunque nella capacità dei suoi studi non di stabilire omologazioni fuori dal tempo storico o paralleli tra mondi diversi, bensì di stabilire la strada per un superamento di una lettura naturalistca dello stare in società, lettura per altro non assente neppure nelle tesi dello stesso studioso. Il comportamento pubblico non ha dunque bisogno di galateo, ma di una solida teoria del potere costituito. E di quel potere costituente che può imbrigliarlo e superarlo. Erving Goffman può cioè diventare quello che non avrebbe mai pensato di poter essere: un compagno di strada di una attitudine radicale, di critica e superamento dei rapporti di potere e di classe vigenti.