Sentenza Trieste, BrainFactor intervista Pietro Pietrini
Martedì 17 Novembre 2009 Marco Mozzoni
Pietro Pietrini è Professore Ordinario di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Pisa. Dopo la laurea in Medicina e il Perfezionamento in Neuroscienze presso la Scuola Superiore “Sant’Anna” di Pisa e la Specializzazione in Clinica Psichiatrica ha lavorato per dieci anni presso i National Institutes of Health (NIH) di Bethesda negli USA dove si è dedicato allo studio in vivo delle basi cerebrali delle funzioni cognitive e del comportamento nell’uomo in condizioni fisiologiche ed in presenza di disturbi mentali. Nel 2007 è stato eletto Chairman del Comitato Scientifico della Organization for Human Brain Mapping, la principale organizzazione internazionale che si occupa dello studio delle basi cerebrali delle funzioni mentali. E’ autore di oltre 130 pubblicazioni scientifiche in questo campo. E’ Editor-in-Chief di Archives Italiennes de Biologie – a Journal of Neuroscience, una delle più antiche riviste scientifiche del mondo. E’ membro dell’editorial board di NeuroImage, Experimental Biology and Medicine e editore associato di Brain Research Bulletin. Dal 2007 dirige il Dipartimento di Medicina di Laboratorio e Diagnostica Molecolare dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana.
Marco Mozzoni l’ha intervistato sui contenuti della perizia che ha portato alla “storica” sentenza di Trieste.
Professore, “è la prima volta che in Europa a un condannato per omicidio, come ha sottolineato recentemente anche Nature. Lei che è stato uno degli estensori della perizia, insieme al prof. Giuseppe Sartori dell’Università di Padova, ci può spiegare quale è stato – a suo giudizio – il “peso” reale del fattore genetico nelle decisioni della Corte d’Assise d’Appello di Trieste?
Come ha già spiegato il Prof. Sartori, per la nostra perizia abbiamo utilizzato una serie di strumenti, a partire dalla raccolta dei dati anamnestici e l’esame clinico, il colloquio psichiatrico, la somministrazione di test cognitivi e di personalità, l’esame di risonanza magnetica strutturale e funzionale del cervello e, infine, gli esami genetici per verificare la presenza di varianti polimorfiche che in letteratura sono state riscontrate essere significativamente associate con un aumentato rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e antisociale. Le conclusioni alle quali il Prof. Sartori ed io siamo giunti nella nostra relazione peritale sono basate sull’insieme dei risultati ottenuti nei vari esami sopradescritti, compresi in primo luogo le valutazioni “classiche” e certamente non solo nè principalmente sui dati dello studio genetico. Per essere chiari, come si legge nella perizia depositata dal giudice, nel caso in questione ci siamo trovati di fronte ad un imputato con abnorme sviluppo cognitivo (con un quoziente di intelligenza al di sotto della soglia di normalità), affetto da molti anni da un disturbo psicotico con idee di riferimento e di persecuzione per il quale era stato ospedalizzato e sottoposto a trattamento psicofarmacologico, trattamento peraltro interrotto dal paziente alcuni mesi prima del crimine. A questo va aggiunto che l’imputato è cresciuto in un ambiente familiare e sociale relativamente povero di affetti e di cure, che ha avuto sempre difficoltà di relazione ed integrazione sociale fin dai tempi della scuola nel proprio Paese come pure in seguito in Italia. Basti pensare che non ha mai avuto alcuna relazione sentimentale in vita sua. In aggiunta alla perizia “classica”, abbiamo condotto studi di esplorazione funzionale del cervello con risonanza magnetica funzionale e studi genetici. Gli studi funzionali cerebrali, come già ricordato dal Prof. Sartori, hanno rivelato un pattern di attivazione cerebrale in risposta a compiti di di inibizione e controllo degli impulsi per molti aspetti diverso da quello dei soggetti di controllo. Infine, per quanto riguarda in particolare lo studio del profilo genetico, è stata riscontrata la presenza di molteplici alleli che, sulla base delle evidenze scientifiche riportate in letteratura, rappresentano fattori di rischio per lo sviluppo di comportamento impulsivo, violento e antisociale, soprattutto in individui che siano cresciuti in ambienti non protettivi e che si trovino in condizioni di relativa esclusione sociale, quale è appunto il caso dell’imputato in questione. Ritengo pertanto che il giudice e la corte si siano convinti che l’imputato aveva una capacità di intendere e di volere grandemente scemata sulla base dei risultati della perizia nel suo complesso. I fattori genetici hanno rappresentato un ulteriore tassello che può aver contribuito ad illustrare il complesso mosaico della personalità e del profilo psicopatologico dell’imputato. Ma da soli certamente sarebbero rimasti solamente un frammento del mosaico e basta.
E’ noto che, nel caso dei “tratti complessi” come il comportamento e le patologie psichiatriche, perché il fenotipo si esprima devono essere presenti più geni predisponenti e più fattori ambientali e deve verificarsi un particolare modello di interazione gene – ambiente. Nel caso in questione, quali sono stati i geni predisponenti, i fattori ambientali e il modello di interazione individuato considerato nella vostra perizia?
Abbiamo studiato cinque varianti alleliche di geni implicati nel metabolismo e meccanismo di azione dei principali neurotrasmettitori cerebrali, quali la noradrenalina, la dopamina e la serotonina. Per ciascuna di queste varianti esiste una notevole letteratura scientifica che mostra una relazione statisticamente significativa con un aumentato rischio di comportamento aggressivo e violento, in particolare negli individui che siano stati cresciuti in contesti sfavorevoli. Ad esempio, per quanto riguarda la variante Low dell’enzima monoaminoossidasi A (L-MAOA), sulla quale si è centrata l’attenzione di Nature e della stampa non specialistica, si è visto che i maschi che posseggono tale variante e sono cresciuti in un ambiente sfavorevole hanno un rischio molto maggiore degli individui con la variante High parimenti cresciuti in ambiente sfavorevole. Insomma, gli individui L-MAOA sono maggiormente vulnerabili agli effetti degli eventi ambientali subiti in età infantile. Si pensi che una qualche forma di comportamento antisociale è stata riscontrata in ben l’85% degli individui L-MAO che erano cresciuti in situazioni di grave maltrattamento (vedasi Caspi et al., Science 2002). Il peso del rischio legato a possedere l’allele per L-MAOA è paragonabile a quello dei maggiori fattori (diabete, ipertensione, obesità) di rischio per le malattie cardiovascolari (Caspi et al., Science 2002).
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Che risultati ha prodotto l’analisi genetica da voi condotta?
Per tutti i geni esaminati, l’imputato da noi periziato possedeva almeno uno se non entrambi gli alleli nella variante “sfavorevole”, cioè quella riscontrata significativamente associata con un maggior rischio di comportamento antisociale, impulsivo e violento.
Alcuni suoi colleghi interpellati da Nature metterebbero in discussione “l’evidenza scientifica a supporto delle conclusioni del rapporto presentato al giudice Reinotti”: il prof. Giuseppe Novelli dell’Università di Roma Tor Vergata in particolare argomenta che “non conosciamo ancora come funziona l’intero genoma” e che “test per singoli geni quali quello delle monoaminossidasi A (MAOA) sono inutili e costosi”. Che cosa vuole rispondere?
Il fatto che non conosciamo ancora l’intero genoma – o meglio, quale ruolo giocano i singoli geni e le loro varianti – è vero, ma questo non significa affatto che dobbiamo ignorare ciò che già sappiamo. In alcuni settori della medicina, quali l’oncologia, ad esempio, lo studio del profilo genetico del paziente viene già utilizzato per decidere quale terapia adottare. Alcuni studi, infatti, hanno dimostrato che pazienti con un determinato profilo genetico hanno maggiori probabilità di rispondere positivamente ad una certa terapia piuttosto che ad un’altra (vedasi review di Huang e Ratain, CA Cancer J Clin 59: 42-55, 2009). Lo studio dei polimorfismi genetici sta prendendo piede praticamente in tutte le branche della medicina e si comincia a comprendere quali fattori genetici possono renderci più vulnerabili a certe patologie o diversamente suscettibili a specifici trattamenti. Oggi siamo poco più che agli inizi, ma la ricerca procede con una rapidità superiore a quella che si possa persino immaginare. Basti pensare che quando venne inaugurato il Progetto Genoma nel 1990, le previsioni più rosee erano che avremmo decifrato il genoma umano non prima del 2025. Invece l’intera sequenza fu completata nel 2003! Per quanto riguarda i costi, per un laboratorio di biologia molecolare moderno e attrezzato e con esperienza nel settore questi esami non sono affatto costosi. Tutti gli esami genetici della perizia in questione sono costati meno di duecento euro.
Un’altra obiezione di Nature è che, alla luce della differenza di effetto del gene per le MAOA riscontrata nei differenti gruppi etinici, la debolezza della perizia starebbe anche nel non avere preso in adeguata considerazione il “fattore etnico” nella valutazione dell’imputato…
L’interesse per il gene MAOA in relazione al comportamento umano si è accentuato da quando si è riscontrato che nei maschi di una famiglia olandese con una pesantissima storia di comportamento antisociale vi era un allele nullo per il gene MAOA. Poichè questo gene è presente sul cromosoma X che, come noto, è presente in singola copia nel maschio, coloro che avevano questa mutazione non producevano alcun enzima MAOA, praticamente l’equivalente umano di un knock-out animale (Brunner et al., Science, 262: 578, 1993). E infatti, proprio come il topo transgenico knock-out per il gene MAOA, gli individui affetti erano estremamente aggressivi e violenti. Questa mutazione così grave è fortunatamente estremamente rara, ma ha aperto la strada allo studio del significato funzionale dei polimorfismi di questo gene. Non mi risulta che qualcuno abbia dimostrato che la variante polimorfica L-MAOA abbia effetti diversi in gruppi etnici diversi. Per contro, l’associazione tra L-MAOA, maltrattamento e rischio di comportamento antisociale, per prima riportata da Caspi et. nel lavoro di Science del 2002, è stata replicata in numerosi studi indipendenti. I soli due studi che non hanno replicato tale associazione presentavano gravi limitazioni metodologiche, tali da non permettere di trarre alcuna conclusione (vedasi discussione in Bernet et al., J Forensic Sci, November 2007). Vorrei poi ricordare che nella nostra perizia abbiamo esaminato anche altri geni oltre a quello per le MAO. Le altre varianti alleliche da noi riscontrate nell’imputato sono state trovate associate con maggior predisposizione al comportamento impulsivo in popolazioni di soggetti esaminati in studi indipendenti.
Nita Farahany della Vanderbilt University – sempre interpellata da Nature – sostiene che “con la genetica comportamentale non possiamo ancora spiegare il comportamento individuale, ma solo ampie popolazioni statistiche”…
Questo vale per qualsiasi parametro nelle scienze biomediche. Mi spiego meglio. Lo studio dei fattori di rischio cardiovascolari, ad esempio, ha dimostrato che avere il colesterolo elevato o la pressione alta aumenta il rischio di infarto, ma questo è vero solo se si esaminano ampie popolazioni statistiche. Nessuno potrà mai dire con certezza se quel determinato singolo individuo avrà o meno un infarto sulla base della sua colesterolemia o della sua pressione ematica. Tuttavia, chiunque abbia il colesterolo elevato o la pressione alta (o, peggio ancora, entrambe le cose) si sente raccomandare dal medico una terapia per riportare questi parametri entro o vicino ai limiti della norma, limiti peraltro stabiliti in maniera statistica e che in nessun caso consentono di ottenere una specificità e una sensibilità del 100%.
A proposito del “determinismo genetico” che potrebbe prendere piede nei Tribunali a seguito di questo precedente, Steve Jones dell’University College di Londra (UCL) ha detto provocatoriamente a Nature: “anch’io ho bassi livelli di attività delle monoaminossidasi A, ma certo non vado in giro ad aggredire la gente”…
Voglio pensare che questa affermazione sia solo parte di un ragionamento più articolato e sia stata riportata in maniera parziale dal giornalista di Nature, perchè così come è appare poco sensata e priva di logica, in generale come pure nel contesto specifico. In generale, perchè il fatto che un singolo individuo abbia una certa caratteristica ma questa non si traduca in un certo fenotipo non significa dimostrare che tra quella caratteristica e quel fenotipo non esiste alcuna relazione significativa. Sarebbe come se un fumatore incallito negasse la relazione tra fumo e rischio di tumore al polmone solo perchè a lui il tumore non è (ancora) venuto. In particolare, nel caso specifico della relazione tra fattori genetici, L-MAOA in primis, e comportamento antisociale, in nessun modo, esplicito od implicito, quanto da noi riportato nella perizia sostiene l’esistenza di alcun determinismo tra fattore genetico e comportamento. Quello che alcune testate giornalistiche hanno scritto, “Non è colpa mia, è colpa dei miei geni” non trova riscontro nè nelle conclusioni della nostra perizia nè nella letteratura scientifica esistente. Questo è un punto molto delicato e sul quale è bene essere assolutamente chiari. Allo stato attuale delle conoscenze non esiste alcuna variante genetica che sia stata messa in relazione causale con il comportamento aggressivo o antisociale, cioè NON esiste alcuna variante genetica che DETERMINI in maniera assoluta la presenza di un certo comportamento. Quello che gli studi scientifici indicano è che possedere una o più delle varianti alleliche discusse sopra si associa ad un rischio statisticamente maggiore di manifestare comportamento aggressivo, impulsivo o antisociale, soprattutto in coloro che sono cresciuti in ambienti non protettivi durante l’infanzia rispetto a coloro che non hanno le suddette varianti alleliche. In altre parole, possedere una o più di queste varianti genetiche non è condizione necessaria nè sufficiente perchè l’individuo manifesti un comportamento antisociale, ma rappresenta un fattore di maggior rischio che ciò possa avvenire. Dallo studio di Caspi et al. del 2002 si evince che i soggetti con L-MAOA esposti a maltrattamenti in età infantile hanno un rischio 3 volte maggiore dei soggetti H-MAOA esposti anch’essi a maltrattamenti e quasi 5 volte maggiore degli H-MAOA non maltrattati di sviluppare comportamento antisociale.
A parte il dibattito stimolato da Nature: più in generale, anche solo considerare la “vulnerabilità” genetica di un individuo a particolari stressors ambientali nella determinazione della pena nelle aule dei Tribunali, non può secondo Lei portare i criminali a una strumentale deresponsabilizzazione di fronte agli atti criminosi compiuti o – peggio – di quelli in via di compimento?
No, non certo sulla base dei risultati delle ricerche scientifiche di cui ho parlato. Come ho già detto sopra, infatti, non esiste una netta relazione causale tra avere una certa variante allelica e il mettere in atto un certo comportamento. NON c’è alcun DETERMINISMO. Il cardine su cui si basa l’intero ordinamento penale nel nostro come pure in tutti gli altri Paesi democratici è il Libero Arbitrio, vale a dire la capacità di scegliere, la capacità di decidere di fare altrimenti. Perchè un individuo possa esercitare il Libero Arbitrio deve avere piena capacità di intendere e di volere. Il nostro ordinamento riconosce che vi possano essere condizioni per le quali la capacità di intendere e di volere, e pertanto la possibilità di scegliere di fare altrimenti, è venuta meno in tutto o in parte. Come è noto, l’essere cresciuto in un contesto familiare e sociale deprivato viene contemplato dal codice come condizione che può limitare la capacità di fare altrimenti dell’individuo e come tale viene preso in considerazione nel calcolo della pena. Questo deriva dall’osservazione che la probabilità di diventare un criminale è maggiore tra coloro che sono cresciuti in ambienti malsani rispetto a coloro che sono stati allevati in un ambiente familiare e sociale positivo e protettivo. Anche in questo caso non esiste alcun netto determinismo, nel senso che non tutti coloro che sono cresciuti in un ambiente malsano diventano necessariamente criminali nè per contro non tutti coloro che sono cresciuti in un ambiente favorevole diventano persone per bene. In altri termini, l’ambiente malsano non è condizione nè necessaria nè sufficiente per diventare criminale, ma ne aumenta significativamente il rischio. Questa constatazione è ben presente nel nostro ordinamento penale e ben condivisa dalla comunità. Quello che gli sviluppi delle neuroscienze, sia degli studi di esplorazione funzionale del cervello, sia di genetica molecolare, ci permettono di fare è di spostare la nostra capacità di osservazione ad un livello diverso, andando oltre a quello che è possibile vedere ad occhio nudo, analogalmente a quanto sta accadendo nella medicina. Questo ci permetterà di comprendere sempre meglio i meccanismi molecolari che dalla complessa interazione tra geni e ambiente portano al fenotipo comportamentale. I dati sono dati. Sta alla giurisprudenza chiedersi cosa e quanto delle nuove conoscenze abbia implicazioni per il suo ordinamento, non alle neuroscienze.
Intervista realizzata da Marco Mozzoni il 16/11/2009 (C) BRAINFACTOR Cervello e Neuroscienze http://brainfactor.it