Martedì 7 maggio 2024 si è svolto il Convegno “Franco Basaglia. La libertà è terapeutica” nell’Aula Magna del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, in occasione del centenario della nascita di Franco Basaglia. Un luogo significativo, quello  del Dipartimento di Lettere e Filosofia, in cui ieri si è parlato di diritti, di cura e di libertà. 

Il professore Alessandro Zuccari, protettore del patrimonio artistico storico culturale, ha aperto il convegno rammentando che parlare di Franco Basaglia e dell’opera di Riforma è importante, poiché significa accogliere un impegno culturale, sociale e politico dando seguito all’art. 3 della Costituzione. Zuccari cita una delle frasi più note di Basaglia, sottolineando come la vulnerabilità appartenga alla condizione umana, e come la cura necessaria per ogni persona.

La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. (Franco Basaglia)

L’evento è proseguito con la proiezione del documentario “E tu slegalo” (50 min) del regista Maurizio Sciarra. “Le persone devono sapere cos’è la malattia mentale”, la voce di Basaglia irrompe nell’Aula Magna. Una proiezione toccante che dà voce ai molteplici protagonisti e testimoni della lunga opera di deistituzionalizzazione, a partire dagli utenti dei servizi, fino ad arrivare agli infermieri e agli psichiatri, e alla voce dello stesso Basaglia e di sua moglie Franca Ongaro che più volte tornano a sottolineare l’importanza dell’impegno per la difesa dei diritti delle persone. 

La storia del manicomio non deve essere dimenticata, così come la storia dell’opera che ha restituito i diritti alle persone [legge 180/1978]. Si tratta di una storia che ha inizio nel 1961 con l’arrivo di Basaglia a Gorizia, dove ci sono 650 internati. Franca Ongaro, nel documentario, spiega come all’epoca del manicomio la legge del 1904 fosse una legge di ordine pubblico, e che per lavorare in manicomio non si doveva essere uno psichiatra. Il manicomio non si conosceva, era un luogo chiuso. 

Malati degradati con la bava, sporchi e svestiti chiusi nei cameroni.  (Michele Zanetti, presidente della provincia a Trieste dal 1970 al 1977)

Chi è stato in manicomio ricorda l’odore di morte: qualcosa da distruggere, come afferma Basaglia al primo convegno di Psichiatria Sociale nel 1964.

Il manicomio non si conosceva, c’era un odore terribile e dava la percezione di assoluta mancanza di speranza, luoghi che non si potevano attraversare. L’idea che si dovesse distruggere il manicomio fu la reazione a qualcosa di inaccettabile. (Roberto Mezzina, psichiatra)

Le testimonianze delle persone che hanno vissuto l’esperienza del disagio, sono li a rappresentare il riscatto e l’efficacia delle buone pratiche, con le loro vite che, grazie alla legge 180, e al lavoro di molti ha messo fine alla reclusione, all’isolamento e all’oppressione, e all’utilizzo di strumenti di tortura come l’elettroshock e la lobotomia. L’assenza di relazione annienta la vita, e fa morire la speranza, così come lo stigma della diagnosi. 

Quando ho letto schizofrenia, ho detto basta ho finito di vivere. (Elena Cerkvenič, utente dei servizi)

Il professore Renato Foschi, ordinario di Storia delle scienze psicologiche e Storia e metodi dell’intervento clinico, ricorda come per legge il “folle” perdesse tutti i diritti, e come sia importante sottolineare questo fatto affinché sia data continuazione alla battaglia culturale e non si corra il rischio di tornare indietro.

Dice di non essere pazza. (da una cartella clinica dell’archivio del San Giovanni a Trieste)

Il ritorno della psichiatria odierna all’idea di utilizzare nuovamente l’elettroshock è un fatto grave che deve farci riflettere sulla criticità della nostra contemporaneità e del sistema di cura.

Il tema della cura torna nella mattinata e si presta a molti spunti di riflessione sulle necessità odierne e sull’urgenza di tornare ad una formazione etica degli operatori, oggi “educati alla distanza”, dice Peppe Dell’Acqua. 

La cura consiste nella relazione, nella possibilità di avere una casa, e un lavoro. (Massimo Magnano, comunità Sant’Egidio)

Tante le voci nel documentario e nella mattinata che riportano la platea alla necessità di riflettere sulle questioni ancora oggi insuperate, come quella del tecnicismo e della mancanza di relazione, come afferma Peppe Dell’Acqua, collaboratore di Basaglia e già direttore dell’ex Ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste, che narra la sua esperienza dell’opera di decostruzione del manicomio, raccontando di quei giorni, della difficoltà ma anche dell’importanza di “costruire spazi di libertà e di responsabilità”. 

Rimettere in circolo le parole della cura, l’importanza della relazione, dell’incontro, lasciando meno spazio alla diagnosi è l’invito di Dell’Acqua, guardando all’efficacia di quanto è stato fatto. Un invito che è anche una denuncia verso quella parte della politica che a Trieste, e non solo a Trieste, sta distruggendo quanto fatto in 50 lunghi anni. “Ci vuole molto tempo a costruire e poco tempo per distruggere”. Gli operatori cercano di resistere, ma non è facile oggi.

Il convegno si chiude con una proposta di impegno: Peppe Dell’Acqua parla della campagna #180benecomune, pensata insieme al Forum Salute Mentale APS, per rilanciare i valori della Riforma e per mettere in dialogo operatori e operatrici, volontari e volontarie, familiari e associazioni per costruire buone pratiche.

Della 180 non si sa molto, chiude Maurizio Sciarra, fondamentale divulgarne il valore.

Il convegno si chiude con la promessa che l’evento di oggi sia solo un inizio, e con la volontà di trovarci a Roma in un convegno, verso l’autunno, i cui trovarci numerosi, soprattutto con i giovani studenti, studentesse, e operatori e operatrici che in questo convegno hanno fatto sentire la loro assenza. Un fatto questo che dimostra la necessità di tornare a parlare di Basaglia e di cura, affinché vi sia ancora un futuro per la cura..