La chiusura degli OPG, a distanza di 140 anni dall’apertura del primo ad Aversa, è un risultato “storico” ormai prossimo. Scopo di questo breve contributo è fare il punto sulla strategia seguita fino ad ora e vedere se e come può funzionare il nuovo sistema dando per scontato che non vi saranno riforme del codice penale (c.p.) relative ad imputabilità, pericolosità sociale, misure di sicurezza anche se un’azione legislativa per rendere coerente la normativa sarebbe assai utile. La chiusura degli OPG si è realizzata mediante l’applicazione delle leggi n.9/2012 e n. 81/2014 e quindi con la dimissione dall’OPG e la collocazione negli ordinari contesti di cura dei Dipartimenti di salute mentale dei pazienti con misura di sicurezza non detentiva e in modo residuale attraverso le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS) o, come nell’esperienza del Friuli, con posti dedicati in ordinarie strutture (Residenze o Centri Diurni) per i soggetti con misura di sicurezza detentiva.
A parte è rimasta e resta la questione della riconversione in un sistema modulare di REMS dell’OPG di Castiglione delle Stiviere.
A 18 mesi dal 1 aprile 2015, chiusura formale degli OPG, a fronte di un risultato veramente importante, da più parti ci si interroga come il nuovo sistema possa funzionare a fronte di comportamenti molto variabili della magistratura di cognizione e di sorveglianza, di una certa riluttanza di molti DSM e degli operatori ad occuparsi del problema, di un relativo disinteresse della politica e dell’opinione pubblica.
La gestione sanitaria delle REMS e più in generale tutta l’applicazione della legge 81/2014 fanno sì che il mandato di cura debba essere non solo fortemente difeso ma valorizzato al massimo. La misura di sicurezza in sé ha una prospettiva di senso assai limitato e quindi risulta necessaria un’ottica diversa in base alla quale le attività terapeutico-riabilitative, insieme alla promozione dei diritti, del senso di responsabilità e l’attivazione dei contesti risultano fondamentali.
Se questo è il percorso, il superamento di prassi consolidatesi in un ambito più penitenziario che sanitario, l’OPG, è uno degli passi essenziali. Come procedere?
a) Una grande azione preventiva In primo luogo occorre operare in senso preventivo dando piena applicazione alla legge 81/2014 e questo non può realizzarsi senza una forte collaborazione fra magistrati e psichiatri. Sono questi ultimi, nella loro attività peritale o operativa nell’ambito dei DSM, che possono fornire alla magistratura le necessarie informazioni per realizzare cure adeguate applicando la misura di sicurezza non detentiva della libertà vigilata. La misura di sicurezza detentiva del ricovero in OPG deve essere assolutamente residuale. Per dare piena applicazione alla legge, la magistratura deve disporre i provvedimenti di sua competenza, dopo avere acquisito tutti gli elementi di tipo sanitario e non solo quelli relativi alla pericolosità sociale e di questo deve essere data evidenza. Questo è ineludibile anche ai sensi della sentenza n.253/2003 la quale afferma che le misure di sicurezza “rispondono contemporaneamente ad entrambe le finalità, collegate e non scindibili” ed aggiunge: “le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da recare danno anziché vantaggio, alla salute del paziente” e “ove in concreto la misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario si rilevasse tale da arrecare presumibilmente danno alla salute psichica dell’infermo, non la si potrebbe considerare giustificata in nome di tali esigenze”. In altre parole le cure adeguate sono una componente essenziale del provvedimento e pertanto nel caso in cui la misura del ricovero in OPG comporti danno alla salute psichica dell’infermo, la misura stessa non si può considerare giustificata. Questo non solo nella circostanza per la quale la misura del ricovero sia effettivamente svolta in OPG ma fa pensare che si possa riferire anche alle REMS: anche in queste strutture, la misura di sicurezza del ricovero in OPG (e la sua gestione) può arrecare grave danno alla salute psichica della persona ospite. Un dato assolutamente noto in psichiatria dove da molto tempo viene riconosciuto il possibile effetto iatrogeno del ricovero, della prolungata istituzionalizzazione, della privazione della libertà. Quindi in tutti gli atti occorre sia data evidenza di una corretta applicazione della legge il che non può avvenire senza un grande lavoro di aggiornamento di tutti gli attori, giudici, periti, avvocati, psichiatri, assistenti sociali ecc.. in quanto la legge è assai poco conosciuta, i servizi per la salute mentale lo stesso mentre la REMS è ben visibile. Una grande azione culturale e di formazione che va inserita in un insieme di protocolli tra le istituzioni al fine di evitare ogni logica di tipo penitenziario (quindi abolendo immatricolazioni se la persona resta solo nel circuito sanitario ecc.) e di internamento. Questa è la prima risposta che deve essere data al fine di prevenire gli ingressi in REMS, evitare liste di attesa, le misure di sicurezza non eseguite per mancanza di posti (circa 200) e per contrastare uno stile operativo che è emerso in questi mesi: la magistratura, che prima aveva remore verso la collocazione in OPG, oggi sembra non averne per il ricovero in REMS. Va assolutamente evitato che le REMS diventino sede di “scarico” delle povertà, dei migranti e senza fissa dimora ma anche una soluzione per i casi psichiatrici difficili da trattare (pazienti con disturbi resistenti, disturbi antisociali) nei servizi territoriali. Con adeguate risorse va sostenuta e potenziata la rete ordinaria dei servizi sanitari e sociali per assistere, talora per lunghi periodi, le persone nel territorio. Vanno affrontati i problemi delle persone che avendo commesso reati gravi si trovano a rischio di “ergastoli in REMS”. Va riformata la sanità negli Istituti di Pena, utilizzando al massimo grado tutte le misure alternative, prevenendo l’ingresso in carcere dei soggetti dipendenti da sostanze e trovando alternative al carcere attraverso l’ordinaria rete dei servizi le soluzioni di cura per le persone con disturbi mentali insorti nel corso della detenzione, per coloro ai quali sono applicate le misure di sicurezza provvisorie. Questi soggetti di norma non sono da inviare in REMS che altrimenti diverrebbero un appendice del sistema penitenziario. Diverse azioni che richiedono a tutti di fare la propria parte evitando la situazione per la quale, iniziato il percorso, vengono lasciati soli gli attori sul campo, utenti, magistrati e psichiatri.
b) REMS: quale futuro? La seconda questione riguarda la qualità della cura assicurata nelle REMS. Dai report di Stopopg emerge un quadro molto preoccupante. Le funzioni di custodia sono talora fortemente presenti e contrastano fino a soffocare quelle di cura. Questa ha bisogno di respiro, consenso, libertà o una prospettiva di libertà. Le persone devono potere uscire regolarmente dalla REMS, avere relazioni, opportunità ecc. La REMS ha senso solo se c’è una dimensione temporale (un prima e un dopo) e una spaziale cioè uno stabile collegamento con la rete delle altre strutture e il territorio. In molte REMS sono carenti i programmi, le uscite, i progetti di cura, formazione lavoro, ecc..orientati alla recovery, mancano i PTRI dei dipartimenti di salute mentale. Molti pazienti possono essere dimessi dalle REMS e di questo devono farsi carico in modo responsabile e attivo tutti i DSM. Rendere più efficiente il sistema forse non basta. Serve una riflessione più profonda in quanto le REMS, in troppi casi, sono figlie dell’OPG e ne hanno ereditato diversi aspetti, a partire da un’ispirazione normativa all’ordinamento penitenziario (OP), facendo propria una visione sicuritaria e custodialistica estranea al mondo sanitario arrivando a praticare una sorta di “psichiatria dell’obbedienza giudiziaria” dove le 3 condizioni della cura sono totalmente subordinate alle esigenze della giustizia. Non mi sto riferendo solo ai singoli progetti delle persone che hanno una misura di sicurezza e al fatto che questa possa diventare un ostacolo alla cura ma alla condizione ben più grave che la misura di sicurezza finisca per riguardare in primis la REMS e gli operatori nel loro mandato di cura complessivo. In altre parole siano spinti o abbiano assunto un ruolo non loro. Il disagio degli operatori spesso riferito alla sicurezza e alle condizioni di lavoro va compreso ed elaborato. Sono loro che restano a lungo con gli ospiti e rischiano di essere individuati come i responsabili non solo delle attività sanitarie ma anche di quelle di tipo giudiziario (concessione di permessi, licenze, dimissioni, ecc) anche per il ruolo di “mediazione” con la magistratura. Un punto questo che va affrontato con la magistratura ma anche con il pieno recupero dell’autonomia del mandato terapeutico nel rispetto ma senza forme di sudditanza o posizioni ancillari e senza assunzioni di responsabilità estranee al mandato di cura e tipiche della direzione di un istituto di pena. Come sanitari dobbiamo porre la massima attenzione alle condizioni della cura e a non rendere antiterapeutiche le REMS o peggio luoghi di segregazione e degrado, dei mini OPG e vanno abolite totalmente contenzioni e ogni forma di restrizione, mentre deve essere favorita la partecipazione responsabile, il protagonismo degli utenti e l’automutuoaiuto, il volontariato e l’inclusione sociale. In questo quadro vanno riviste le questioni dei regolamenti delle REMS, gli inutili e dannosi tentativi di applicare nelle REMS l’ordinamento ed il regolamento penitenziaro, ma anche la funzione degli apparati installati (sbarre, recinzioni, telecamere ecc.) che non siano utili/necessari alla cura. In altre parole la persona con misura di sicurezza detentiva deve trovare un ambiente e condizioni funzionali a questo e la REMS deve assicurare a tutti gli ospiti le condizioni minime essenziali, di base per realizzare il programma di cura e di queste devono fare parte integrante uscite magari accompagnate, visite, attività. Un insieme di condizione date ex ante, non negoziabili, essenziali, come è, per il chirurgo, il “campo sterile” per poter operare. Con rigore dobbiamo affermare quindi il setting terapeutico e riabilitativo contro ogni tendenza alla determinazione dall’esterno delle condizioni e dei contenuti dei programmi di cura. Questo non annulla affatto tutte le difficoltà: la terapia e la riabilitazione delle persone con disturbi mentali è in sé e in ogni caso, un compito molto difficile, complesso, incerto, fragile. Se in parte la libertà deve essere limitata per ragioni giudiziarie e questo va accettato in primis dall’utente con un atto di atto di responsabilità e autocontrollo e non tanto in ragione di misure di controllo esterno o coercizioni (un concetto questo che è presente anche nella c.d. sorveglianza “dinamica”, “attenuata”), una quota di libertà e autodeterminazione deve restare sempre presente per assicurare la possibilità di cura. Una potenziale contraddizione che va risolta facendo sì che la magistratura si occupi solo delle decisioni più rilevanti (modifiche della misura giudiziaria) lasciando ogni altra attività quotidiana ai clinici si base del programma terapeutico riabilitativo, compresa l’utilizzo delle sedi più idonee per la sua effettuazione. Un modello di REMS temporaneo ad alta valenza terapeutica, umana, gestita e organizzata dai sanitari assicurando un setting di base terapeutico- riabilitativo, collegata con il territorio, sulla quale la magistratura interviene per la sola funzione di sorveglianza e per l’applicazione della misura giudiziaria alla persona che mai deve essere in contrasto con le esigenze della cura, può forse ancora essere utile. A questo nuovo modello bisogna giungere in fretta perché le prassi si consolidano rapidamente, i poteri forti tendono ad imporsi su quelli più deboli. Un forte cambiamento delle REMS, ma potrà bastare a scongiurare il pericolo che diventino mini OPG? Va detto con chiarezza: se serve un prevalente o esclusivo mandato di controllo e custodia ad altri, che non siano i sanitari, va affidata la gestione delle persone.
c) Misure giudiziarie innovative? Come si curano le persone con disturbi mentali compete alla psichiatria e vi è una notevole differenza fra un programma “rieducativo” ed uno “terapeutico”, e in ambito psichiatrico fra il trattare un disturbo ad esempio in carcere (una terapia) e fare un “Programma Terapeutico Riabilitativo Individualizzato”. Personalmente 4 sono contrario a misure giudiziarie che oltre che sulla libertà, obblighino alle cure in quanto queste si basano su presupposti diversi e, in medicina non c’è terapia e riabilitazione che possa prescindere dal consenso e dalla collaborazione della persona ammalata. Quindi misure giudiziare con una loro autonoma definizione (al di fuori della c.d. “giustizia terapeutica”), in grado di accompagnare e sostenere il percorso di cura. Va visto il rapporto tra misure giudiziarie e cura. Questa, eccettuata l’eccezionalità del TSO, si sviluppa solo nella libertà e sulla base del consenso in diversi ambiti, territoriale, semiresidenziale, residenziale o ospedaliero. Ma il focus non deve essere sul luogo, il contenitore, il posto letto ma sulla persona, sul suo programma di cura nell’ambito di un più ampio progetto di vita. Quali debbano essere le misure giudiziare esula dalle mie competenze. Credo sia osservazione comune quella che ritiene superate e troppo rigide le misure di sicurezza attualmente previste (non detentive e detentive) e che il presupposto della pericolosità sociale sia un concetto ambiguo e poco scientifico. Ritengo sia necessario che la misura di sicurezza del ricovero in OPG, essendo stato chiuso l’OPG, si possa realizzare oltre che nelle REMS anche in tutti i luoghi ove ha senso realizzare il programma di cura, togliendo così ogni automatismo tra misura di sicurezza detentiva del ricovero in OPG o in Casa di cura e custodia e la collocazione in REMS. Un chiarimento, una norma, un emendamento alla legge in questo senso sarebbe assai utile.
Servono altri strumenti giuridici?
Esula dalle mie competenze ma ribadisco che uno sforzo per andare ad una diversa e più articolata definizione delle misure giudiziarie sarebbe necessaria. Non vi è spazio per entrare nei dettagli ma, ad esempio, prendendo a riferimento la legge 67/2014 si può vedere che tra le misure detentive è prevista la detenzione domiciliare o presso strutture o l’arresto presso l’abitazione o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza o accoglienza (“domicilio”). Prevede anche la detenzione oraria che può avere durata continuativa o per singoli giorni della settimana o fasce orarie e l’utilizzo del braccialetto elettronico; tra le misure non detentive vi sono la messa alla prova e i lavori socialmente utili. Un insieme di misure che senza invadere il campo e le prerogative della cura permettano un controllo volto a sviluppare collaborazione e responsabilità e permettano di gestire situazioni a lungo termine.
Recentemente il Tribunale di Milano (Trib. Milano 19-4-2016, est. Dott. Roia), per problematiche ascrivibili ai disturbi mentali, ha applicato le misure di prevenzione, in particolare quella della “sorveglianza speciale di Pubblica Sicurezza” ai sensi della legge n. 1423/1956 , per far fronte al pericolo di recidiva per reati a sfondo sessuale di un soggetto che scontata la pena, presentava ancora aspetti patologici. Questo al fine di aiutare il soggetto a seguire un trattamento adeguato alle sue condizioni cliniche e ciò è stato possibile anche grazie al consenso del destinatario stesso della misura. Una situazione nella quale la misura giudiziaria “sostiene” un programma di cura che non può che basarsi sulla volontarietà
Queste sperimentazioni non sono possibili per i soggetti prosciolti?
Con decisione occorre abbandonare il modello custodialistico, progressivamente “smontare” le REMS così come le abbiamo avute in questi primi 18 mesi e lavorare per la loro effettiva temporaneità, in una prospettiva di chiusura, costruendo percorsi personalizzati di cura, i Programmi Terapeutici Riabilitativi Individualizzati da sostenere anche mediante il Budget di salute laddove è più utile per il paziente con una misura giudiziaria anche detentiva.
(*) Pietro Pellegrini, Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale dipendenze Patologiche – Ausl di Parma