Illustration by Abbey Lossing
Detenuti, vecchi, immigrati
Di Agnese Baini
In questo mese di quarantena ci sono state diverse situazioni che mi hanno fatto arrabbiare. E quando mi arrabbio, scrivo. Questo testo è frutto di questa rabbia, mi sembra una sincera premessa da fare a chi mi leggerà. Volevo dimostrare come carceri e cpr non fossero così diversi dalle residenze per gli anziani: sono istituzioni totali dove le persone sono lasciate dentro, in assembramenti che fuori sono vietati, a morire contagiate. Si può fare a meno di queste istituzioni totali – indipendentemente dal virus – e, come mi ha detto ieri un caro amico, con il virus diventano doppiamente nocive: si muore di istituzioni e si muore di covid-19.
«In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa»
Italo Calvino
[Si può ascoltare l’articolo qua]
Il nove marzo sono iniziate le rivolte nelle carceri, dopo che l’ultimo decreto aveva vietato tutti i colloqui e tutte le uscite. Sembra un bollettino di guerra: tre morti soltanto nella prima notte che diventano, dopo appena due giorni, tredici; per overdose, dicono. L’ultima morte, o la prima per coronavirus, è arrivata tre giorni fa a Bologna: un uomo di 76 anni. Il garante dei diritti dei detenuti parla di ventuno contagi nelle duecento strutture carcerarie in Italia; numeri ancora «ridotti». Le celle di isolamento vengono riciclate come spazi isolati dove lasciare le persone in quarantena. C’è un report dell’OMS che consiglia il ricorso a misure non detentive, ma le detenute e i detenuti rimangono in carcere, l’idea di concedere un’amnistia sembra non balenare e, con le predisposizioni delle ultime circolari, sembra che potranno andare ai domiciliari solo poche centinaia di persone. Poche centinaia di persone su sessantamila detenuti, con posti “solo” per quarantasettemila. Ma il sovraffollamento non è l’unico problema: metà delle celle non ha acqua calda e docce e solo sedici strutture garantiscono tre metri quadri di spazio a detenuto. Numerini su cui soffermarsi a pensare mentre ci crogioliamo con #iorestoacasa e #andràtuttobene.
Nelle residenze per anziani sono state vietate le visite quasi subito, ma il virus ormai era entrato. Oggi si legge sui quotidiani locali e nazionali come stia avvenendo una vera strage al loro interno. In Friuli-Venezia Giulia, tredici case di riposo su settantaquattro hanno persone contagiate dal Covid-19. E proprio in una casa di riposo è avvenuta la prima morte della regione per questo virus, una signora di ottantasette anni. In Lombardia, viene oggi denunciato che è già morto un ospite su dieci – ma probabilmente i numeri sono maggiori (dato che solo ora si inizia a fare i tamponi e a conoscere quindi la causa). La stessa Lombardia in cui una delibera regionale chiedeva alle aziende sanitarie di individuare case di riposo dove poter inserire dei pazienti Covid-19 non gravi.
Il 19 marzo una persona è stata trasferita da Cremona – uno degli epicentri del contagio – a Gradisca d’Isonzo, da un carcere a un centro di permanenza per il rimpatrio (CPR). Una settimana dopo questa persona risulta essere positiva al Covid-19: viene messa in isolamento all’interno della struttura ma le condizioni si aggravano e il giorno dopo viene portata in ospedale. Nei giorni prima alcuni reclusi avevano iniziato a protestare per la mancanza di misure di prevenzione contro il contagio. Anche nel CPR di Ponte Galeria a Roma ci sono state delle proteste: non c’è nessuna regola di prevenzione e nessun controllo, né per chi è rinchiuso né per chi ci lavora. L’assurdità, se tutto questo già non bastasse, è che mentre i “rimpatri” sono bloccati a causa di questa pandemia, le persone continuano a essere portate dentro ai centri. Situazioni analoghe negli altri centri per persone straniere: nei CARA le restrizioni sulle limitazioni delle uscite hanno trasformato la vita in una detenzione.
Cosa sta accadendo in questi luoghi?
«Appartenere ad una istituzione totale significa essere in balia del controllo, del giudizio e dei progetti altrui, senza che chi vi è soggetto possa intervenire a modificarne l’andamento e il significato», scrive Franca Ongaro Basaglia nel 1968. Ma appartenere a un’istituzione durante una pandemia, cosa significa? Significa violenza, significa chiusura, significa abbandono. Le istituzioni totali sono state chiuse con le persone dimenticate dentro. Dimenticando che dentro, tutte queste persone si stanno ammalando, stanno morendo e continueranno a morire.
Il concetto di istituzione totale nasce con il sociologo Erving Goffman, il concetto non le istituzioni. Si tratta di spazi visibilmente chiusi (porte, mura, cancelli), gestiti da un’autorità inglobante e penetrante, dove si annulla la distinzione del tempo che passa (del dormire, del lavorare, del divertirsi), dove un gruppo di persone è obbligato a fare le stesse cose nello stesso tempo. In particolare, Goffman scrive che le istituzioni totali sono quei «luoghi in cui si forzano alcune persone a diventare diverse».
Questi luoghi, durante questa pandemia, stanno mostrando tutte le loro contraddizioni. Luoghi in cui rinchiudere quelle persone la cui vita conta di meno: perché criminali, perché anziani, perché immigrati. Sono vittime sacrificali di questa pandemia, a cui non sono permesse misure adeguate a prevenire e limitare il contagio. Anzi, la segregazione cui stiamo assistendo si sbilancia proprio verso il contrario, verso una diffusione tragica. E l’istituzione totale si rivela così per quello che è: un deposito, dove accumulare persone che non hanno il diritto di essere considerate tali. Sole, abbandonate.
L’istituzione totale «si fonda sempre sul fatto che l’escluso/integrato nell’istituzione sia morto: cioè, ciò che l’istituzione garantisce è sempre il contenimento di un morto, perché contiene la morte della contraddizione»[1]. Direi che sono rivelatrici queste parole di Franca Ongaro Basaglia, scritte dieci anni dopo le altre, nel 1978. Abbiamo già accettato il destino di queste persone nel momento in cui accettiamo l’esistenza di un’istituzione totale. Come un carcere. Come un Centro di permanenza per il rimpatrio. E sì, come una casa di riposo, che già dal nome dice tutto. Spazi dove la libertà sparisce e dove il controllo regna: telecamere in ogni angolo, regole precise di comportamento, diversi motivi per l’entrata e per l’uscita (da una di queste istituzioni si esce solo da morti), orari e programmi della giornata, sempre che ci siano, stabiliti dall’alto (ricordo ancora il rosario in filodiffusione alle ore 18 di ogni giornata).
Carceri, residenze per anziani, centri di detenzione per persone straniere e chissà quali altre istituzioni sono state chiuse, sbarrate con le persone dentro. E non sono state garantite minime condizioni di sicurezza. Perché? Com’è possibile che accettiamo questa cosa? Che un virus, che si sta diffondendo in tutto il mondo, lasciando morti ovunque, possa entrare in luoghi così vulnerabili? Magari da questa pandemia possiamo imparare qualche elemento di critica alle istituzioni perché proprio qua a Trieste, da dove scrivo, si è dimostrato che l’impossibile diventa possibile e sono stati chiusi i manicomi, per sempre, creando una rete che mette al centro la libertà e i bisogni delle persone. E vorrei credere in questo possibile dove le carceri sono abolite, dove le case di riposo vengono chiuse e dove i centri per migranti non esistono proprio. Perché proprio qua a Trieste, la psichiatria ha dimostrato che non c’è bisogno di istituzioni totali, non c’è bisogno di creare assembramenti di diversi: i matti insieme ai matti, i criminali insieme ai criminali, i vecchi insieme ai vecchi, gli immigrati insieme agli immigrati.
E chissà se per tutte queste persone che stanno morendo in questi giorni si discuterà prima o poi se sono morte di o per Covid-19, di o per l’istituzione in cui erano rinchiuse.
[1] Franca Ongaro Basaglia, voce “Esclusione/integrazione” dell’Enciclopedia Einaudi (Torino 1978), ripubblicato in Salute/Malattia (Merano 2012)
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