L’ex primario di psichiatria di Merano Toresini sulla contenzione, la filosofia che non guasta, l’elettroshock, la derivazione culturale e la storia di un ex nazista.
Ideatore e sostenitore del progetto di Casa Basaglia, seguendo pedissequamente la lezione del padre della legge 180 di porre i due poli dell’istituzione, ovvero il personale medico e i pazienti, sullo stesso piano dialettico, Lorenzo Toresini, già primario di psichiatria di Merano (in pensione dal 2013), è stato tirato in causa più volte, esplicitamente o meno, nelle ultime settimane. E cioè da quando sul tavolo anatomico del dibattito sono tornati argomenti quali i diversi approcci psichiatrici, fra posizioni monolitiche e altre più concilianti; e l’utilizzo di alcune pratiche come la contenzione, il Tso (trattamento sanitario obbligatorio) e l’elettroshock.
“Quando il primario di psichiatria di Brunico Roger Pycha dice che sono un filosofo più che un medico non lo ritengo solo un danno di immagine nei miei confronti, ma soprattutto un affronto al lavoro fatto in 14 anni a Merano e in tutte quelle strutture in Italia che hanno deciso di non ricorrere più alla contenzione fisica. Intendiamoci, il fatto che la psichiatria non sia solo figlia della biologia ma anche della filosofia è un dato di fatto anche se non accettato da molti medici; è più comodo avallare un approccio esclusivamente organicista alla malattia, e la contenzione, questa misura draconiana e disumana, rappresenta perfettamente la concezione del paziente-oggetto”, spiega Toresini. La chiusura dei manicomi, del resto, è stato solo il primo atto della deistituzionalizzazione, il lavoro successivo, meticoloso, è quello di individuare le modalità di prendersi cura del paziente, attraverso un dialogo costante con i pazienti stessi e i loro famigliari. “Pycha – prosegue Toresini – insinua che a Merano si facesse solo finta di non legare i pazienti ma questa è una falsità, posso garantire che quando ero a capo del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC) nessuno è stato mai contenuto fisicamente e tutt’oggi, come mi è stato confermato da un mio ex collaboratore, Giorgio Vallazza, è ancora così, perché il fatto di non ricorrere a questa tortura è una medaglia ideale che si appuntano tutti sul petto, dagli infermieri ai medici”.
“Quando il primario di psichiatria di Brunico Roger Pycha dice che sono un filosofo più che un medico non lo ritengo solo un danno di immagine nei miei confronti, ma soprattutto un affronto al lavoro fatto in 14 anni a Merano e in tutte quelle strutture in Italia che hanno deciso di non ricorrere più alla contenzione fisica”
Slegalo subito
La prima cosa che fa lo psichiatra di turno quando si reca in pronto soccorso a fornire la sua consulenza e si trova di fronte un paziente legato è quella di liberarlo e poi portarlo eventualmente nel reparto psichiatrico. “A Brunico – afferma il medico – esiste un reparto di secondo livello, dove vengono trattati i pazienti meno gravi, che mi risulta essere aperto, ma la struttura che accoglie i casi più difficili è, per ammissione collettiva, sempre chiusa, così come accade a Bolzano e Bressanone. A Merano l’SPDC, quando la situazione è particolarmente complicata, a volte si chiude per pochi minuti o poche ore, qualche rarissima volta per un paio di giorni, ma è l’eccezione che conferma la regola, perché il reparto è di norma aperto”. E questo cosa significa? “Che se un paziente vuole uscire c’è sempre qualcuno che cerca immediatamente di stabilire un dialogo, che inizia un negoziato, il quale è esso stesso terapeutico. I pazienti non sono degli animali che rispondono solo alla chimica e lo dico partendo dal presupposto che non sono contrario alla psicofarmacologia, ma occorre riflettere su quello che facciamo. Anche il consenso del paziente – precisa Toresini – si costruisce, si conquista nell’instaurazione di una relazione di fiducia di e rassicurazione, così si curano le persone”.
Il reparto di Merano è stato aperto nel 2001, Toresini si trovava a capo della struttura da 2 anni. Il primo paziente ricoverato fu un ex nazista di 80 anni che aveva deciso di togliersi la vita, si sparò un colpo ma sbagliò il tiro e sopravvisse, seppure indementito. L’uomo fu dichiarato pericoloso per se stesso. Una volta uscito dalla rianimazione venne mandato in psichiatria. Siccome tendeva a cadere del letto gli infermieri “che erano nuovi e non avevano esperienza in ambito psichiatrico lo legarono – riferisce l’ex primario -. Dissi che non si poteva fare, che bisognava trovare altre soluzioni, mettere due letti uno vicino all’altro, per esempio, un materasso per terra, un operatore fisso che stesse vicino al paziente, mi offrii anch’io di sorvegliarlo – quando Pycha dice che non ho seguito le persone forse dimentica che io, come primario, ero responsabile di tutti i pazienti nell’SPDC -, per dimostrare che non legare era possibile. Fu una lezione che nessuno dimenticò. Ho cominciato a praticare l’anti-contenzione con un ex nazista. Nessuno tocchi Caino, come si suol dire”.
“Queste persone reagiscono interiorizzando la violenza subita, ed è il peggior danno che possano autoinfliggersi”
Anni fa, precisamente nel 2006, venne fondato, allo scopo di mettere in rete diverse realtà sul territorio, il club SPDC No Restraint che ogni anno organizza un convegno in una città italiana a cui partecipa il “popolo dei non legatori” per provare che si possono trattare le persone anche senza mai contenerle. “Sempre più città vogliono entrare nel club, perché la verità è che l’etica, la passione, l’entusiasmo prevalgono sulla routine negativa”, attesta Toresini. Resta tuttavia difficile trovare qualcuno che testimoni il “sopruso della contenzione”. Il motivo? “Queste persone reagiscono interiorizzando la violenza subita, ‘perché – dicono – se lo Stato e i medici ritengono che io debba essere legato evidentemente hanno ragione loro, ed è il peggior danno che possano autoinfliggersi”, glossa lo psichiatra secondo cui è fondamentale sollecitare a denunciare, non tanto sul piano penale quanto su quello civile, il danno esistenziale derivante da questa vessazione. “Sono convinto che se l’Azienda sanitaria locale dovesse iniziare a rimborsare i pazienti allora i primari che usano ancora la contenzione verrebbero finalmente richiamati all’ordine. E non illudiamoci: le linee guida provinciali non sono che una legittimazione di questa violenza. Senza dimenticare che qualcuno di questi pazienti ogni tanto ci lascia anche la pelle, a parte un paio di casi illustri chissà quanti altri ce ne sono. Ricordo ancora un episodio accaduto in una casa di riposo altoatesina, una paziente morì legata, tentando di divincolarsi si strangolò poiché nessuno le aveva badato”.
“Non ho dubbi che in diverse occasioni la Tec (terapia elettroconvulsivante, ndr) possa avere successo, ma cosa significa questo, in fondo? Il punto è che c’è chi usa la corrente elettrica per far ‘dimenticare la depressione’ e chi sceglie di parlare delle motivazioni, di comprenderle, di combattere i momenti bui”. È chiara la risposta di Toresini alle affermazioni del collega Pycha in merito all’uso di tale terapia. Racconta l’ex primario che una volta esisteva un intervento chirurgico cerebrale chiamato leucotomia, una tecnica che divenne meno invasiva rispetto alla lobotomia; anziché asportare il lobo frontale si recidevano le connessioni della corteccia prefrontale dell’encefalo, un’operazione che peraltro subì la sorella di John Fitzgerald Kennedy, Rosemary, e che la lasciò in stato vegetativo per il resto della sua vita. Si tratta di un tipo di intervento a cui si è ricorso fino agli anni ’60 in Italia e che in seguito scomparve. Nel Massachussets (USA) sembra che si stia tornando ad applicarlo, utilizzando il laser al posto del bisturi. “Parlare di elettroshock è sbagliato, sostiene Pycha, bisogna chiamarla terapia elettroconvulsiva perché è tutta un’altra cosa, ma è come dire che la leucotomia è una cosa diversa dalla lobotomia, eppure gli effetti sono quelli”, sottolinea Toresini. E ancora: “Il collega di Brunico afferma inoltre che la corrente elettrica stimola le cellule nervose ad autoriprodursi, ma è una sua ipotesi, una sua tesi ideologica perché nessuno è in grado di verificarlo. In ogni casoil superamento dell’elettroshock rientra nella battaglia per la chiusura dei manicomi, nel cambio di paradigma scientifico-mentale e dunque come si può essere d’accordo solo con una delle due cose?”.
“Le terapie organiche drastiche possono anche funzionare ma a quale prezzo? Dove sta l’umanità?”
Nel 1977 Toresini, insieme a un collega, condusse un colloquio con una giovane donna 27enne, madre di un bambino di 4 anni, che affermò di aver subito la leucotomia in Svizzera. La donna, schiava di gravi ossessioni, 3 giorni dopo il colloquio con i due medici, uccise il figlio annegandolo nella vasca da bagno. La Procura della Repubblica inscenò un processo contro Toresini e il suo collega che furono poi assolti. La vicenda è documentata nel libro “La testa tagliata” edito da Alpha Beta e Toresini racconta che durante la stesura del volume fece diverse interviste. Una di queste con il celebre neurologo Hrayr Terzian, il quale affermò che la donna era stata sicuramente influenzata nel passaggio all’atto concreto dal fatto che aveva subito una lobotomia. Con l’ansia, in sostanza, aveva perso anche l’autocontrollo. Morale, “le terapie organiche drastiche possono anche funzionare ma a quale prezzo? Dove sta l’umanità?”.
L’Italia, con poche eccezioni, fra cui Brunico, ha smesso di ricorrere all’elettroshock. Ma perché il modello di psichiatria che si richiama alla scuola austro-tedesca non contempla l’esperienza basagliana? “Si tratta in questo caso di derivazione culturale”, spiega Toresini. “Nel 1984 feci una conferenza a Innsbruck sulla chiusura dei manicomi e la legge 180. Un signore, che era seduto in prima fila, si alzò e disse che la 180 era una legge sbagliata, piena di lacune. Quel signore era Hartmann Hinterhuber, titolare della cattedra di psichiatria dell’università di Innsbruck, di origine sudtirolese. Risposi che era difficile che una riforma così complessa, a sei anni di distanza dalla legge, potesse essere realizzata a dovere in tutta Italia, ci vollero molti anni per chiudere i manicomi, e ancora non era finita, la riforma doveva andare avanti. Ebbene, ottenni più applausi del professore che giocava in casa. I 3 colleghi primari che operano in Alto Adige, il dottor Pycha a Brunico, il dottor Schwitzer a Bressanone, e il dottor Conca di Bolzano, furono tutti allievi di Hinterhuber”.
“Con la chiusura dei manicomi abbiamo fatto una rivoluzione copernicana, dimostrato che i pazienti si curano meglio fuori dagli ospedali psichiatrici e questa è una conquista scientifica, non ideologica”
L’Aktion T4 è il nome in codice del programma nazista di eutanasia dei pazienti psichiatrici che venne avviato, per ordine di Hitler, nel 1939. L’edificio dove si pianificò e organizzò questa operazione si trovava a Berlino, al numero 4 di Tiergartenstraße, da qui il nome del progetto, che durò un anno. Nel 1940, infatti, il vescovo di Münster Clemens August Von Galen insorse e coagulò tutte le forze cattoliche e protestanti in Germania. In seguito alle crescenti proteste il Führer fu costretto a cedere e dichiarare sospeso il programma. “C’era questa mentalità delle vite non degne di essere vissute, e un piccolo ramo di quel pensiero è ancora vivo. Mi spiego: se una persona conduce una vita di pensiero non degna di essere vissuta questa va cancellata, ma il pensiero è sempre degno di essere vissuto. Con la chiusura dei manicomi abbiamo fatto una rivoluzione copernicana, dimostrato che i pazienti si curano meglio fuori dagli ospedali psichiatrici e questa è una conquista scientifica, non ideologica. Allora come oggi questa rivoluzione ha anche un significato politico, la raison ha bisogno della déraison per essere legittimata come raison. E dunque occorrevano i muri che contenessero la déraison cosicché quelli ‘fuori dal recinto’ potessero dire ‘siamo noi i ragionevoli. Il dottor Pycha direbbe che parlo da filosofo, ma io credo fermamente di essere soprattutto un medico”.
(Da: https://www.salto.bz/it/article/13072017/luomo-che-sussurrava-ai-pazienti)