Leros vergogna delle psichiatrie e scuola di libertà
di Peppe Dell’Acqua.
“Un lettino di ferro con le sbarre bianche e un corpo nudo, quello di una bambina tra i sette e i dieci anni. Che è una femmina, si capisce solo dal taglio tra le gambe unite e tenute ferme da una cinghia di contenzione. (…) Quello che so è che questa fotografia fu scattata nella seconda metà degli anni ’60 dentro il Centro medico-psicopedagogico Villa Azzurra dell’Ospedale Psichiatrico di Grugliasco, in provincia di Torino, e venne pubblicata sul paginone centrale della rivista «L’Espresso» il 26 Luglio 1970 (…)”. Così si apre La prima verità (Simona Vinci, Einaudi Stile Libero, 2016). Intorno a questa immagine trovata per caso, che l’autrice conserva gelosamente per anni, si intessono le diverse narrazioni che il romanzo tiene insieme.
Per Simona Vinci ogni storia è una storia di fantasmi e anche quelle che racconta non saranno da meno. Fantasmi, apparizioni. Così appare Leros, la piccola isola del Dodecanneso che fu teatro di memorabili battaglie nella storia del nostro paese. Dal 1912 alla fine della II guerra mondiale è stata colonia italiana. Perduta la guerra, i 7000 militari presenti nelle caserme tornano in patria. Gli edifici vengono abbandonati, tutta l’isola s’impoverisce. Le caserme vuote offrirono l’opportunità di sgravare gli affollati manicomi del paese. Nasce la cosiddetta “colonia di Leros per psicopatici”, con il compito di provvedere ai rifiuti di tutti gli istituti psichiatrici greci. Leros diviene il luogo della deportazione. Più tardi, negli anni ’60, con i colonnelli, sull’isola vengono deportati i dissidenti, i comunisti, gli anarchici, gli irregolari. Stefanos, il poeta, con altri intellettuali è prigioniero sull’isola. La sua poesia, forse quella di Ghiannis Ritsos, attraversa le pagine del romanzo. Un filo spinato dividerà gli “ineducabili psichiatrici” dagli “ineducabili politici”.
Il romanzo comincia con l’avvio nel manicomio di Leros di un progetto della Comunità economica europea. La Grecia sta per entrare in Europa, siamo tra gli anni ’80 e ’90 e il manicomio di Leros è uno scandalo inaccettabile per le democrazie occidentali. Il Dipartimento di Trieste partecipa alla “spedizione” insieme a un gruppo di olandesi e irlandesi. Lavorano per tre anni con il forte appoggio di Bruxelles. Devono trasformare e chiudere il grande manicomio. Una missione impossibile.
Sento nel racconto di Simona Vinci lo stupore, l’orrore e la caparbietà dei miei amici triestini che hanno lavorato sull’isola, Chiara Strutti, che lo scorso anno ci ha lasciato, Pietro Specia, Sabina Rauber, Carlotta Baldi, Maurizio Costantino, Cesare Zago, Isabel Marin e Irini Karavalaki, cretese che si unì ai triestini per continuare a lavorare poi nella nostra città. A Leros non ho mai messo piede, ma ho visto e commentato con gli studenti il film-documento di Gabriele Palmieri, “Leros, il sole e la luna” e ho partecipato alla formazione di un gruppo di circa 20 ragazzi e ragazze del Servizio per le dipendenze che sono andati volontari a Leros. Il progetto si chiamava “L’Eros laboratorio di libertà”.
Antonella Pizzamiglio, fotografa, si era introdotta clandestina nel manicomio e aveva denunciato lo scandalo. Anche Angela, la protagonista del romanzo, giovanissima arriva sull’isola con i volontari, si spinge a scoprire, di nascosto, la verità di quegli orrori. Deve superare la ripugnanza dei corpi nudi e ammassati per trovare la disposizione ad avvicinarsi, a sostenere lo sguardo. Resistere alla tentazione di fuggire. Soggetti inesistenti, ormai resi oggetti dalle pratiche di annichilimento istituzionale, occupano l’insensatezza di quegli spazi e vivono senza tempo. La fissità dei corpi lascia solo percepire una tale estrema condizione, per noi inimmaginabile. Con cura e con tenerezza l’autrice narra nei particolari delle persone, ridotte a prodotto/oggetto/scarto dell’istituzione, svuotate di ogni dignità: non c’è più differenza tra un tavolino arrugginito e una persona; la presenza degli oggetti sembra prevalere sull’insignificanza dei corpi.
Non possiamo non essere straziati di fronte alla scoperta di quanto lontano può spingersi la violenza umana nella la brutalità delle istituzioni.
Gli internati sono arrivati sull’isola con un certificato medico, con una diagnosi psichiatrica. I dissidenti con un’ordinanza di un Tribunale speciale. La psichiatria definisce e riconosce l’incontenibile, l’intrattabile, l’incurabile e, forte del suo potere “scientifico”, condanna alla deportazione, senz’appello. Il dissidente, l’ineducabile con la prepotenza di un rapporto della polizia segreta si ritrova dannato a Leros, senz’appello.
Gli internati giungono sull’isola ammassati nelle navi militari, di notte, con un numero segnato su uno straccio di divisa che corrisponde a una miserabile cartella clinica. Tutti sono ormai senza storia. Non hanno più legami con il mondo dei vivi. Sull’isola perderanno gli ultimi consunti segni di una possibilità di narrazione. Angela, di nascosto di notte, cerca tracce tra faldoni abbandonati e rinchiusi nelle cantine del manicomio per ritrovare le persone nei corpi che incontrano il suo sguardo. Ricostruire la storia delle persone nel manicomio è stato, ed è sempre, un’azione eversiva, rivoluzionaria: scopre i soggetti e mina dalle radici le istituzioni totali. le istituzioni non tollerano la presenza degli individui. Con cura Simona Vinci racconta le storie dei “fantasmi” che di notte balzano fuori dai faldoni polverosi.
Angela e i volontari giungono sull’isola entusiasti, curiosi, disposti a mettersi in gioco. Li vediamo desiderosi di cogliere il senso etico, politico e umano di quanto si accingono a fare. La direttrice del manicomio, alla cena di ricevimento, di fronte allo sbalordimento, risponde risentita, e con malcelata vergogna. Si lascia andare. Dice che è facile parlare. Vorrà rivederli tra qualche settimana, questi volontari, quando tutti si saranno adattati – ne è certa – a quella condizione. Non posso non pensare a quanto accade oggi ai tanti giovani operatori che entrano in miseri servizi psichiatrici nel nostro paese: di fronte all’insopportabile disorientamento sono tentati di fuggire. Possono restare solo a costo di perdere la luce dei loro sguardi, diventare sordi. Per sopravvivere, sono costretti a prendere distanza. L’inferno che si presenta quotidianamente ai loro occhi diventerà invisibile. Non si può sopportare di stare in quella scena se non c’è un povero diavolo che condivide con noi quel dolore, quella fatica, che ci aiuti a continuare.
Angela, di fronte all’immutabilità del quotidiano e all’urgenza del cambiamento, perde tutte le difese e la fragilità che sopravviene la espone al bisogno estremo dell’altro. È così che nascono amori inaspettati, passioni che si fa fatica a contenere. In quei luoghi il bisogno dell’altro si fa assoluto.
Quando Leros si apre ai volontari, il professor Stefanis, accademico ateniese, diventa presidente dell’associazione mondiale degli psichiatri. Franco Rotelli, all’epoca direttore del Dipartimento di salute mentale triestino, con Agostino Pirella e Mario Tommasini, scrive una lettera aperta all’Europa per indicare con chiarezza le gravissime responsabilità degli psichiatri greci e più in generale di tutta la corporazione. Ricorda che a Kos, l’isola che fu di Ippocrate e di Esculapio, è nata la medicina occidentale. Sotto un grande platano, Ippocrate insegnava che in medicina tutto è frutto di un triangolo: il malato, il medico, la malattia. Di tutti e tre questi elementi occorre discutere. La malattia del 2000 sembra si sia dimenticata dei primi due punti. A Leros, scrive, domina incontrastata la psichiatria. I lager avevano una logica: lo sterminio degli Ebrei e dei nemici del Reich. Conseguenti le regole. Ma qual è la logica? Che cosa conduce a creare mucchi umani in luride tane? Che cosa a imporre la paura totale, il silenzio assoluto? E centottanta bambini a crescere deformi per le fasce di contenzione tra gli escrementi sulla riva del mare, a cento metri dalle spiagge? Chi li ha mandati a Leros? Ognuno ha il certificato di uno psichiatra.”
Il libro di Simona Vinci, ci costringe a riparlare di tutto questo, dalla Grecia all’Europa, ai manicomi che fanno fatica a scomparire, alla bambina di Grugliasco del 1970, a Francesco Mastrogiovanni, il maestro morto legato in un letto di contenzione nell’ospedale di Vallo della Lucania nel 2009, di Giuseppe Casu morto sotto la stessa tortura a Cagliari qualche anno prima e della campagna “..e tu slegalo subito” per la soppressione della contenzione nel nostro paese. Ci obbliga a ripensarci come cittadini d’Europa a Leros per decidere quale Europa volere: mai più lager riuscirono a dire e a fare i volontari della giovane Europa in quella impossibile missione.
E intanto gli spazi intorno alle vecchie caserme ora di nuovo vuote si popolano di “stranieri” che vengono dal mare e di container e di baracche. Il filo spinato di nuovo rinchiude altri uomini e altre donne, senza appello.
(da “il Piccolo” del 28 aprile 2016)