A Impazzire si può, l’intervento di Roberto Morsucci. Il punto di vista di un familiare.
Comincio parlando della recente riforma della sanità introdotta nella nostra regione dalla giunta Tondo. Molti altri interverranno su questa questione e con maggiore competenza della mia. Voglio analizzare una sola questione: nel documento che presenta il provvedimento legislativo troviamo, al primo posto fra le sue finalità, la seguente argomentazione: “la centralità del cittadino, la sua partecipazione e libertà di scelta, la parità tra pubblico e privato attraverso le modalità dell’accreditamento e nell’ambito della programmazione regionale;”.
La centralità del cittadino è una cosa talmente banale da risultare un po’ ridicola ma le banalità spesso si usano per introdurre concetti che banali non lo sono affatto; libertà e partecipazione è il parto di qualche funzionario che voleva orecchiare Gaber ma, chissà perché, quando certi politici parlano di libertà, io comincio a preoccuparmi: per loro libertà e liberismo sono spesso sinonimi.
Infine finalmente viene spiegato con chiarezza il punto cardine: l’introduzione di soggetti privati nell’ambito della salute. La gestione privata della salute, laddove è presente, genera sempre scandali, come quelli più recenti che stanno emergendo in Lombardia.
Nell’ambito della salute mentale i danni introdotti dalla presenza di strutture private è incalcolabile.
Io vengo da Roma. Nel Lazio oltre il 60% del budget per la salute mentale viene assorbito da soggetti privati. Questo, oltre a significare che alle strutture pubbliche rimane meno del 40% dello stanziamento, troppo poco per garantire servizi di qualità, ha un’ulteriore nefasta conseguenza: la reintroduzione dei manicomi, per di più con un’offerta qualitativa molto scarsa. Non dimentichiamo che per un privato l’obiettivo principale è quello della massimizzazione dei profitti e non certo la guarigione dei clienti che la sanità pubblica affida loro.
Di manicomi si tratta: io ci sono stato, come semplice accompagnatore, ma posso assicurare che oltre ad una visitina sbrigativa (sui dieci minuti) di uno psichiatra che spesso fa il doppio lavoro per arrotondare e la somministrazione della terapia non c’è null’altro. Tra l’altro io sono stato in uno dei migliori di Roma, con un bel giardino nel quale ci si può muovere esattamente come gli animali nelle gabbie dello zoo, e una bella camera con un bel balcone al quale non si può accedere perché impediti da sbarre inamovibili.
Già perché in quei luoghi c’è l’ossessione della sicurezza. Peccato che nel secondo giorno di permanenza, un ragazzo si sia ucciso impiccandosi con un lenzuolo, perché se uno la vuol far finita, il modo lo trova.
In questi luoghi non si può stare per più di tre mesi. Ma, fatta la legge trovato l’inganno, per cui le persone stanno tre mesi in questi piccoli manicomi di bassa qualità, poi tornano per dieci giorni a casa e, infine, riparte un altro periodo di ricovero di altri tre mesi. E così via.
Nessuno però si chiede il perché di tutti questi ricoveri. Per altro le liste di attesa, soprattutto per quelli effettuati in convenzione sono lunghissime, quindi la domanda è più alta dell’offerta. Perché?
Ma la domanda più esatta è: “chi decide il ricovero?”. Non certo il paziente. Talvolta c’è una piccola o grande spinta del medico curante ma in fondo chi decide il ricovero sono i suoi familiari.
Purtroppo devo dire delle cose che alcuni potrebbero non condividere, cose brutte ma purtroppo vere.
Perché in fondo ad ogni genitore, fratello o figlio di una persona che sta attraversando un periodo di sofferenza psichica, in qualche parte magari inconscia della sua mente c’è un bisogno inconfessabile: la voglia di toglierselo dalle scatole.
E’ terribile quello che ho detto ma è la verità. Certo questo bisogno convive con altri sentimenti positivi: in primo luogo un affetto forse più forte nei confronti del figlio più debole ma che si porta appresso sensi di colpa più o meno palesi e preoccupazioni spesso esagerate.
Naturalmente c’è una spiegazione più che evidente al bisogno di cui parlavo prima, perché convivere con una persona che sta attraversando un periodo di sofferenza psichica è un cosa terribile, faticosa, totalizzante, fonte di ansie e continue preoccupazioni quando non anche di violenze fisiche e psichiche.
Certo, ognuno è un caso a sé, ma alcune preoccupazioni sono comuni a tutti: prende le medicine? Troverà lavoro? Riuscirà a mantenerselo? Riuscirà ad avere una vita sociale e sentimentale soddisfacente? E, soprattutto, chi penserà a lui quando non ci saremo più?
Non è facile la vita di noi genitori, ma l’influenza sulla salute dei nostri cari è fondamentale, questo è indubitabile.
Ci vuole molta pazienza anche con noi, la stessa che voi usate con i nostri cari, perché possiamo non capire (o anche non voler capire), possiamo non avere gli strumenti culturali adatti per comprendere ed allora ce li dovete fornire, possiamo, infine, avere dentro di noi gli stessi luoghi comuni che generano stigma e allora dovete aiutarci a capire dove sbagliamo. Non solo a livello collettivo, cosa che qui a Trieste è svolta in modo esemplare, ma anche con colloqui individuali dove necessario e, in particolare, nei casi più difficili, quelli dove la resistenza al cambiamento è più forte.
Del resto tutti voi operatori conoscete l’importanza della famiglia, perché può diventare un elemento terapeutico fondamentale oppure essere di ostacolo a qualsiasi percorso di guarigione. Se non altro perché viviamo a contatto con i nostri cari 24 ore su 24.
Lo dico a tutti gli operatori presenti: aiutateci con pazienza e ostinazione perché noi abbiamo bisogno del vostro aiuto e i nostri cari hanno bisogno del nostro.