Di Amedeo Gagliardi, Associazione San Marcellino, Genova
È arrivata la sentenza. E insieme ancora polemiche. Dopo 15 mesi dal giorno che ha visto la fine della giovane vita di Jefferson Garcia Tomala, c’è stata l’assoluzione per l’agente di polizia Luca Pedemonte, che la sera della domenica del 10 giugno dello scorso anno lo aveva colpito a morte. Ripercorriamo brevemente i fatti: Jefferson dopo una lite con la sua fidanzata, madre del loro bimbo di due mesi, si era barricato nella sua stanza, in casa di sua madre, minacciando di togliersi la vita. La madre preoccupata per la sua incolumità chiamava il 112. Insieme agli altri familiari non riuscivano a calmarlo. In casa arrivavano i militi della Croce Verde, due pattuglie delle volanti e successivamente altre due. Dopo un’ora circa di tentativi di mediazione, gli agenti decidono di intervenire. Entrano nella cameretta spruzzando uno spray al peperoncino, questo provoca una reazione del ragazzo e una conseguente colluttazione con gli agenti: un agente viene colpito dalla lama del coltello che Jefferson brandiva. A questo punto l’agente Luca Pedemonte, intervenendo in difesa del collega, rispondeva con sei colpi ravvicinati all’addome mettendo fine alla vita del ragazzo.
La sentenza accende gli animi in modo opposto: mentre da una parte vi è soddisfazione, dall’altra gli amici del ragazzo organizzano una fiaccolata di protesta e la madre, attraverso un disperato grido, chiede giustizia. Per lei è incomprensibile e inaccettabile l’intera vicenda. Ancor di più l’assoluzione dell’agente. Anche il Procuratore Cozzi si esprime a riguardo: «È una tragedia umana. Una persona è morta, ma anche l’agente ha vissuto il suo dramma».
Ma al di là della vicenda giudiziaria e delle conseguenti polemiche, che sono sempre e solo orientate alla propaganda attorno al mito della sicurezza, vorrei qui tentare un ragionamento che provi ad andare oltre l’individuazione dei buoni e dei cattivi, dove poi spesso i cattivi sono sempre gli altri.
Credo sia utile tentare di partecipare a queste vicende con maggiore comprensione per quello che realmente succede; in questo caso mi sembra sia mancata la partecipazione al dolore di una madre che, avendo chiesto aiuto perché preoccupata per l’incolumità del figlio, dopo un’ora se lo ritrovava steso, senza vita, nella cameretta di casa sua. Questo tentativo dovrebbe e potrebbe condurci altrove, lontano dall’ossessiva divisione in buoni e cattivi, alla ricerca di un colpevole, provando a dare spazio ad una riflessione sul come mai certi eventi accadono, per poter imparare, apprendere, progredire collettivamente. Un’operazione non facile visti i tempi ed un humus culturale che ha ristretto gli spazi per questo atteggiamento. Ricordo come la politica e purtroppo anche le Istituzioni, nella persona dell’allora Ministro dell’Interno Salvini, venuto a Genova a far visita al poliziotto ferito lo scorso anno, affermava: «È fondamentale che chiunque indossi la divisa sappia che il Paese è con lui. Se devo scegliere io so da che parte stare, da quella della divisa».
Questa vicenda fa emergere alcuni interrogativi che dovremmo provare ad esplorare, se siamo interessati a capire come abitiamo oggi la città, non solo quella di Genova, a giudicare dalla violenza che quotidianamente emerge dai fatti di cronaca. Dovremmo chiederci in che contesto questa violenza si manifesta, quali sono le condizioni socio-ambientali dove diventa tragedia, comprendere se questa storia avrebbe avuto lo stesso sviluppo in un luogo diverso dalla periferia urbana, per una famiglia di diverso ceto sociale, capace di accedere ai servizi e di chiedere aiuto in modo diverso. Capire se i servizi alla persona, forze dell’ordine comprese, sono preparati oggi per accogliere ed agire in queste nuove situazioni di sofferenza, in contesti familiari dove spesso vengono percepiti più come minaccia esterna, che come possibile aiuto.
Ed anche nell’ineluttabilità di una tragedia come quella che si è consumata, la comunità cittadina avrebbe potuto mostrare un diverso segno di attenzione e di solidarietà nei confronti di una famiglia, di una madre, rimasta sola con il dolore per la perdita di un figlio: sola e con un enorme senso di inadeguatezza per non aver saputo fare la cosa giusta per aiutarlo.
Interrogativi difficili, risposte che ci fanno sbandare, facendoci perdere l’equilibrio. Ma è proprio questo il punto del ragionamento: siamo ancora disponibili collettivamente ad ascoltare domande che non hanno risposte facili, siamo ancora disponibili all’incertezza del non so, al frustrante spaesamento di quando ci si sente impotenti, incapaci di spiegare ciò che succede? Temo di no, sembra ormai che la narrazione del mondo abbia preso una piega “totalitaria”. Sembra si debba ossessivamente e rapidamente chiudere le domande con una risposta, una spiegazione. Una prospettiva che determina una perdita nella capacità di pensiero, nella profondità di analisi, nell’impossibilità di accesso ad un piano di consapevolezza, ad un dialogo interiore che genera paura, distacco, indifferenza, negazione.
Questa incapacità attiva circuiti viziosi, privandoci dell’umanità necessaria a ristabilire una connessione con quello che ci circonda, aumentando le difese nei confronti di ciò che accade intorno a noi, impedendoci di prendere parte ad una dinamica sociale che osserviamo sempre più da distante, nel timore di poterne essere in qualche modo coinvolti.
Tentare l’esercizio della coscienza, provare a diventare consapevoli di ciò che ci circonda, sentirsi parte della stessa città diventa essenziale per non spegnere la cultura e la pratica dell’aiuto, pratica tipicamente umana, che permette di avvicinarci e rimanere accanto all’altro, accanto al dolore dell’altro, nell’interesse generale di costruire la migliore convivenza civile possibile. Esperienza capace di aprire crepe nei muri che ci separano dagli altri e che rischia, soprattutto nelle tragedie, di spegnersi. Muri che chiudono in se stesse le famiglie che hanno mezzi culturali diversi, e che per questo si sentono più sole e sempre più spinte al margine nella dinamica sociale. Una dinamica sociale che si fa violenta attraverso il non riconoscimento e la stigmatizzazione delle differenze, differenze di cui ognuno, in misura diversa, è portatore. Una violenza che in queste condizioni ambientali temo continuerà a farsi sempre più strada.
Qualcuno, fuori o dentro le Istituzioni, troverà la forza per tentare un movimento contrario in grado di riprendere un dialogo con questa famiglia, per restituire speranza, per continuare ancora a credere in una convivenza possibile?