di Nico Pitrelli
Si è chiusa un paio di settimane fa la prima edizione del Festival dei Matti. L’evento, svoltosi al Teatro Goldoni di Venezia il 9 e il 10 ottobre scorsi, è stata un’occasione inedita di incontri e iniziative pubbliche sulla follia e sulla salute mentale. Abbiamo incontrato Anna Poma, una delle promotrici e organizzatrici del Festival, che insieme a Laura Barozzi e Alessia Vergolani hanno dato vita, con non poche fatiche, a un avvenimento unico nel pur variegato panorama di manifestazioni che si svolgono in tutta la penisola sugli argomenti più disparati. Con Anna abbiamo deciso di restituire, a beneficio dei lettori del forum non presenti all’evento, non tanto – o non solo – il “sapore” delle due giornate veneziane, ma le ragioni profonde dell’iniziativa, anche per capire se e quanto il modello del Festival è esportabile in altre città.
La manifestazione in termini di partecipazione è stato un successo indiscutibile. Un risultato niente affatto scontato. Quando si parla di follia e di salute mentale la reazione del pubblico generico non è sempre così generosa.
“In passato”, ci spiega Anna, “abbiamo organizzato altre iniziative per fare promozione culturale su questi temi, ma non abbiamo mai avuto un riscontro così positivo. È difficile trovare una formula che, da una parte, non respinga chi crede di essere lontano questi argomenti, dall’altra, non attiri esclusivamente un pubblico “esperto”, attrezzato di un presunto apparato di cognizioni tecniche e conoscenze specifiche. Evidentemente col Festival siamo riusciti a produrre un effetto molto diverso. Abbiamo creato un clima favorevole a svelare che la maggior parte di noi nell’arco della vita è inciampata in una crisi dell’esistere, un male di vivere, o qualcosa che può essere catalogato come tale. Di solito non siamo pronti a farne una riflessione condivisa perché temiamo lo sguardo oggettivante dei tecnici, che sequestrano questi discorsi, si mettono in cattedra e tracciano dei confini molto netti tra cosa si può dire e cosa non si può dire, stabiliscono chi è legittimato a prendere la parola sulla follia, la psichiatria, la salute mentale”.
Mentre i contorni non sono così definiti. O mi sbaglio?
Smontare la convinzione che soltanto linee di demarcazione rigide ci portino a trovare delle soluzioni è uno degli obiettivi del Festival dei Matti. Certo, stando attenti agli sbandamenti. A noi interessa creare situazioni in cui si possano riformulare delle traiettorie attraverso l’incontro tra esperienze e punti di vista di persone che di solito non sono messe nelle condizioni di parlarsi.
Nei dibattiti volevamo ad esempio che emergessero i più tipici luoghi comuni sul disturbo mentale. Si partiva dai preconcetti espressi senza timore di censura e ci accorgevamo poi, nel corso delle discussioni, di quanto i mattoni che formano le solide mura dello stigma provengano in realtà dalla psichiatria.
La psichiatria alimenta quello che dice di voler smontare. Noi vogliamo mettere a nudo la sua instabilità poiché proprio nella sua precarietà può diventare fertile.
Il Festival è nato con questa idea e credo che un po’ siamo riusciti a comunicare il messaggio. La gente non era spaventata. Non aveva paura né di raccontare magari l’esperienza grave che l’ha avvicinata a partecipare alle discussioni, né di chiedere indicazioni, di essere curiosa. Il Festival è riuscito a togliere l’alone di pesantezza che solitamente avvolge questi temi. C’è riuscito coinvolgendo persone del mondo dello spettacolo, della cultura, dell’informazione disposte, come ha fatto Elio di Elio e le Storie Tese, a raccontare gli inciampi della vita in cui tutti noi, prima o poi, possiamo incorrere.
Quale ruolo ha avuto il territorio? Il fatto che il Festival sia stato organizzato a Venezia ha giocato un ruolo importante?
Su questi temi, l’ambiente locale dà risposte non semplici da decifrare. Col Festival abbiamo intercettato persone che in passato non avevano mai partecipato alle tante altre iniziative da noi organizzate. Questa considerazione va poi inserita nella cornice del funzionamento dei servizi. La situazione qui è molto difficile, arretrata, di forte chiusura nonostante la stagione felice che già nel 92 portò allo smantellamento dell’ospedale psichiatrico di San Clemente.
C’è stato un sostanziale appannarsi delle pratiche di salute mentale, che sono diventate molto sterili. La percezione pubblica riflette la povertà dei luoghi, delle risorse, delle risposte dei servizi che non hanno lavorato per smantellare le barriere. Della salute mentale e della follia non ne parla nessuno pubblicamente. Gli psichiatri ne parlano ai loro convegni, ma a loro generalmente non interessa un dialogo allargato a più attori sociali.
D’altra parte Venezia è una città culturalmente molto vivace ovviamente, ma che spesso si sente espropriata di eventi perché le grandi manifestazioni di cui fa da scenario non riguardano veramente il territorio ma hanno un bacino di riferimento mondiale.
Al contrario durante il Festival abbiamo visto il Teatro Goldoni stracolmo, come mai in passato, di veneziani, cittadini, studenti universitari, associazioni che normalmente non si incontrano.
Qual è stata la reazione degli psichiatri?
Nessuna reazione pubblica. Ho però l’impressione che il successo dell’iniziativa possa produrre degli interrogativi tra gli stessi tecnici magari seducendoli alla possibilità di allargare l’interazione con pubblici più ampi di quelli degli addetti ai lavori.
E il pubblico cosa ha preso dal Festival?
Quello che forse è passato maggiormente è che ci si può rifamiliizzare con questi temi. Il fatto che alcuni hanno raccontato la propria storia, hanno potuto dire di sé con un linguaggio e delle modalità d’interazione completamente diverse da quelle solite ha avuto un impatto strabiliante. Ti faccio un esempio. Alice Banfi, che in un libro molto bello ha narrato la sua sofferenza, ha potuto chiedere a Elio se non ha mai avuto paura di impazzire. La possibilità di fare questa domanda a un personaggio famoso non solo amplifica straordinariamente il numero di persone che leggeranno il libro di Alice, ma restituisce l’idea di una vicinanza possibile e di una contaminazione feconda. È la conferma che la diversità non è necessariamente una disuguaglianza, per citare Franco Rotelli.
Il Festival rimarrà un progetto culturale importante o ha anche altre ambizioni?
Oltre a promuovere la partecipazione e il dialogo, noi vorremmo costruire una macchina d’impresa nella quale l’esperienza di persone con sofferenza mentali diventasse il suo cuore. Se riuscissimo a creare un’opportunità di formazione e di lavoro per queste persone coinvolgendole stabilmente nella produzione del Festival avremmo fatto una cosa diversa da quella semplicemente di discutere di questi temi. Mettere insieme e contaminare le esperienze, costruire trasversalmente un dibattito che magari riesca a smontare le parole “sporche” della psichiatria e a inventare nuove parole, espressioni, attrezzi utili a socializzare informazioni e domande che davvero riguardano ciascuno di noi: queste sono le ambizioni del Festival.