domenica 7 aprile 16.30 – Milano
“Ripensare la diagnosi”
Intervento in occasione dell’Incontro
Mentre preparavo questa breve relazione introduttiva è uscito sulla Repubblica del 17 marzo di quest’anno un articolo di Massimo Recalcati che ripropone, in modo accattivante e divulgativo, ma non banale e semplicistico, il problema molto attuale delle manifestazioni di disagio psicologico dei giovani. L’articolo ha per titolo: “Ragazzi siete vivi e non matti”. In sostanza Recalcati stigmatizza la tendenza attuale a diagnosticare un disturbo mentale (una malattia mentale) quando un giovane esprime il proprio disagio esistenziale e porta ad esempio le manifestazioni che investono la sfera alimentare, la vita sociale e l’umore. In psichiatria quando tali disturbi assumono un significato decisamente patologico, si parla di anoressia e bulimia, di schizofrenia e di depressione.
Afferma Recalcati: “Nella prospettiva della psicoanalisi non esiste malattia mentale, né tantomeno, un criterio per definire cosa sia una salute mentale da considerare normale. Se la psicopatologia classica, di derivazione psichiatrica, ha considerato la malattia mentale come una deviazione patologica dalla norma costituita dal cosiddetto “sano di mente”, quella della psicoanalisi ribalta questa valutazione.” Cosa vuol dire Recalcati? Il ribaltamento di prospettiva concerne una interpretazione delle manifestazioni del disagio che non assegna loro un significato (un sintomo) di tipo medico-biologico (malattia) utilizzando il paradigma medico che, attraverso la raccolta dei sintomi, formula la diagnosi, ma assegna a tali espressioni di disagio un significato antropologico.
Seguendo questo filo logico Recalcati illustra il significato della depressione come espressione di una condizione umana che non riesce a dare senso alla vita. Nello stesso modo l’anoressia esprime il rifiuto di assegnare alla vita solo un significato biologico con soddisfacimento dei bisogni primari. Quanto alla tendenza all’isolamento sociale di molti giovani Recalcati parla di un atteggiamento difensivo nei confronti di una, fantasmatica o reale. minaccia dell’Altro e della sua potenziale intrusività. “La vita si ritira dalla vita per paura della vita”. La pandemia da Covid, le guerre, la società altamente competitiva e altri c.d. determinanti sociali possono essere percepiti come potenziali elementi destabilizzanti e pericolosi.
Appare evidente la semplificazione ma appare interessante questo ribaltamento di prospettiva: il disagio mentale come espressione di un disagio esistenziale e non come malattia.
Il problema della diagnosi psichiatrica è uno dei tanti che incrociandosi con numerosi altri aspetti della psichiatria (la cura e la terapia psichiatrica, la riabilitazione, lo stigma, eccetera) rappresenta un nodo che, se non viene sciolto, condiziona pesantemente e negativamente l’approccio al disturbo mentale.
Diagnosi, dal greco diagnosis (riconoscere attraverso), in medicina significa un giudizio clinico che consiste appunto nel riconoscere una condizione morbosa in base all’esame clinico del malato (esame obiettivo e sintomi) e alle ricerche di laboratorio e strumentali.
In psichiatria il problema della diagnosi è complesso ed ha una lunga storia
Non si può negare che nel recente passato (fine ottocento) la concezione del disturbo mentale come malattia (del cervello) ha grandemente contribuito a inserire le persone con disturbo mentale nel circuito sanitario, i manicomi prima e gli Ospedali Psichiatrici poi, sottraendoli al degrado della strada e degli ospizi. Oggi (dopo Basaglia) ci sono i servizi psichiatrici territoriali. Ma la loro organizzazione è fondamentalmente sanitaria.
La legge 180 del 1978 è stata recepita dalla legge 833 che istituiva il SSN. In tal modo la salute mentale (che non è la psichiatria, giova ricordarlo) è diventata materia sanitaria.
L’utilità della diagnosi in psichiatria oggi, per come viene intesa e praticata, per qualcuno è discutibile in quanto spesso è un’etichetta che nasconde un vuoto. Si potrebbe dire: sotto il vestito niente, riprendendo il titolo del thriller di Paolo Pietroni (dal quale è stato poi tratto un film) critico circa l’inconsistenza e il vuoto che sta sotto il mondo della moda.
La stessa inconsistenza caratterizza molte diagnosi psichiatriche, in particolare la schizofrenia.
La schizofrenia infatti è un costrutto teorico che Bleuler nel 1908, sotto la spinta delle teorie psicologiche che si andavano affermando in alternativa a quelle che attribuivano a una causa organica i disturbi mentali, formulò attribuendo a una “scissione” (spaltung) della mente alcune manifestazioni di disturbo mentale. Ad oggi non è stata dimostrata alcuna base organica della schizofrenia. Il termine schizofrenia sostituiva quello di dementia praecox che designava le persone internate nei manicomi che presentavano una progressiva perdita di competenze sociali e (apparentemente) intellettive (di qui il termine demenza) in quanto si isolavano in preda ai deliri e precocemente si distaccavano dalla realtà circostante. Evidentemente l’istituzionalizzazione in manicomio favoriva grandemente tale isolamento e scadimento delle competenze psoco-sociali.
Alla fine dell’Ottocento e al principio del Novecento si era ritenuto, sulla spinta della scoperta dei microbi, che si potessero far risalire le cause di molte malattie mentali a un’infezione (il modello era la neurolue) o a una causa tossica (la demenza alcolica). Su un altro versante, quello dello studio dei disturbi mentali osservati nei manicomi e della loro espressione sintomatologica e di decorso, si venivano a delineare quadri sindromici, cioè insieme di sintomi ed evolutivi che permettevano un inquadramento di alcune frequenti espressioni di disturbo mentale: oligofrenie, psicosi organiche, dementia praecox, poi diventata schizofrenia, psicosi maniaco depressiva…
L’evoluzione delle conoscenze nelle neuroscienze con localizzazione delle funzioni peculiari e specifiche di ogni zona del cervello (aree motorie, del visive, del linguaggio, delle emozioni, della memoria, eccetera) e del funzionamento dei circuiti cerebrali e dei neuromediatori, che permettono e regolano, con complessi meccanismi, il passaggio dell’informazione da un neurone all’altro attraverso dei sinapsi, e la conoscenza dei recettori sinaptici, ha permesso di formulare alcune teorie, circa alcune patologie psichiatriche che sono assai suggestive: teoria serotoninergica della depressione e dopaminergica della schizofrenia.
Su queste basi, e con la progressiva conoscenza del funzionamento degli psicofarmaci e della loro azione sui neuromediatori e recettori che agiscono sui circuiti cerebrali, si è andata costruendo un modello neurobiologico di disturbo mentale che attribuisce le manifestazioni del disturbo psichico a alterazioni di questi circuiti e interviene con gli psicofarmaci per regolarne il supposto malfunzionamento.
E’ un modo affascinante, ancora in gran parte da esplorare, di interpretare la natura del disturbo mentale concepito pertanto come “malattia del cervello”, sulla linea ottocentesca che, in assenza della dimostrazione della supposta origine organica dei disturbi mentali più gravi, definiva i disturbi psicotici (tipicamente quelli con sintomi deliranti e allucinatori) come psicosi “endogene” (che ha origine interna).
Questa impostazione che considera malattia del cervello il disturbo mentale, e che pertanto assimila il disturbo mentale alle malattie somatiche, ha trovato un riscontro nella diagnostica psichiatrica che, con il noto manuale DSM, oggi alla quinta edizione, assegna ad ogni disturbo psichico un significato patologico (o meglio: psicopatologico).
La costruzione del DSM è opera di una task force sotto l’egida della APA (Associazione Psichiatrica Americana). Sostanzialmente si basa su due principi: struttura statistica (deviazione dalla norma) e approccio descrittivo e ateorico.
Sottostante a questa visione c’è una concezione neo-positivista: l’idea che tutto il complesso delle attività umane (filosofia psicologia matematica, sociologia, ecc.) sia riconducibile a una visione scientifica del mondo dove l’intera conoscenza viene unificata sotto l’egida delle scienze empiriche, cioè che si basano sulle osservazioni dei fatti.
Tale approccio diagnostico si basa sostanzialmente su una descrizione dei sintomi e si salda perfettamente con la concezione del disturbo mentale come malattia.
In sostanza, a prescindere da ogni considerazione circa l’importanza, nel singolo caso, di una causa psicologica, sociale, traumatica, politica, ecc. che spesso è alla base di alcuni manifestazioni di disagio o di comportamenti socialmente disturbanti, se vengono rilevati comportamento o manifestazioni che configurano un disturbo mentale, così come descritto nel DSM, si può diagnosticare un disturbo mentale o meglio, per qualcuno, una malattia mentale. Si opera una falsa equiparazione di tali disturbi alle malattie del cervello, attribuendole, come si è detto, a un presunto malfunzionamento dei circuiti cerebrali. La terapia farmacologica dovrebbe correggere lo squilibrio dei recettori e dei neuromediatori.
A differenza della diagnosi che si fa in medicina, che si basa fondamentalmente su un criterio eziologico e anatomopatologico, oltre agli esami di laboratorio e strumentali, questo modo di procedere in psichiatria, di diagnosticare un disturbo o una malattia mentale solo sulla base delle manifestazioni (abnormi e spesso solo soggettive) presentate, appare arbitrario e non supportato da adeguati elementi probanti di sofferenza del sistema nervoso centrale. Risalire da una serie di sintomi e manifestazioni che si discostano dalla cosiddetta normalità (che non esiste), e che sono spesso espressione di sofferenza psichica o di situazioni sociali e traumatiche che possono causare tali manifestazioni, a una diagnosi psichiatrica è un procedimento che può diventare gravemente penalizzante e stigmatizzante, tale da segnare per tutta la vita una persona e di condizionare pesantemente, la sua esistenza.
È per questo motivo che spesso viene aspramente criticato il DSM che è diventato, per varie ragioni, la Bibbia degli psichiatri.
Recentemente è stato proposto il Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM). La seconda edizione è del 2017. Il PDM-2 rappresenta il tentativo di integrare, a livello diagnostico, le teorie psicodinamiche.
Vittorio Lingiardi, che ha curato la seconda edizione, scrive, confrontandolo con il DSM: «il progetto PDM» si proponeva invece di offrire al clinico un approccio diagnostico psicodinamico basato sulla letteratura clinica e sulla ricerca empirica, che rispettasse, «disciplinandola», la soggettività del paziente e del terapeuta e che fosse in grado di descrivere l’intera gamma del funzionamento individuale, dagli aspetti più manifesti fino agli elementi profondi che sono alla base dei suoi pattern emotivi, cognitivi, interpersonali e sociali più caratteristici.
La più recente introduzione del manuale PTM, che è stato tradotto dall’inglese e di cui vi parlerà dopo di me Matteo Bessone, uno dei traduttori, mi sembra invece che, pur presentandosi come non alternativo DSM e all’ICD, possa rappresentare, nel solco del PDM, ma ampliandone le prospettive, nel senso della valorizzazione determinanti sociali e politici e della attenzione alla soggettività della persona sofferente e del contesto di vita, uno strumento utile a uscire dalla “gabbia” delle diagnosi psichiatriche che impongono una riduttiva e impropria attribuzione dei disturbi mentali e dei comportamenti socialmente disturbanti prevalentemente a cause (neuro)biologiche. In questo senso ritengo che il suo uso possa implementare la conoscenza dei fattori psicologici e sociali e consentire a operatori, utenti e familiari un approccio maggiormente integrato nonché riverberarsi sull’organizzazione dei servizi psichiatrici e sul loro (mal)funzionamento nonché sulle politiche della salute mentale.
Si tratta infatti di spostare l’asse degli interventi dal sanitario al psico-sociale e dal modello medico di malattia a quello (antipsichiatrico) di sofferenza sociale e psicologica espressione di disadattamento, traumi, disturbi evolutivi (neuro divergenza), peculiarità e singolarità di una personale weltanschauung…