di Gianni Cuperlo – da “Domani” del 7 giugno 2021.
Quanto costa fare una riforma? Una di quelle destinate a incidere sul modo di vivere e pensare di milioni di persone? Costa molto, spesso anni di lotte, fatiche, errori, finché una congiuntura di storia, cronaca e cultura, quel traguardo rende possibile. Ma quanto costa disfare una riforma? Sì, insomma, tornare indietro, da dove si era partiti? C’è una piccola grande vicenda che questa retromarcia racconta, tristemente ma la racconta.
1978: anno grandioso e tragico per mille motivi. Ci sono Via Fani, il 16 marzo, e la Renault rossa col corpo di Moro in Via Caetani. E ci sono tre riforme che il Parlamento di un’Italia sgomenta licenzia con larghe maggioranze. Si istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, bene comune che la pandemia ha fatto riscoprire nella sua potenza. Il movimento delle donne, e non solo, saluta il varo della 194, la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza. E si approva una terza legge, anch’essa contrassegnata da un numero, la 180, ma assieme a quello da un nome che rimarrà scolpito a suggello di una norma rivoluzionaria, quello di Franco Basaglia. La vicenda aveva un antefatto lontano. Gorizia, 1961, vi arriva un giovane medico spedito lì pensando forse di punirlo. Deve dirigere l’ospedale psichiatrico della città. Ha nomea di somigliare più a un filosofo che a un “medico dei matti”. Per lui l’impatto è doloroso, tra pazienti legati al letto e trattamenti che di umano non avevano alcunché. Basaglia riassegna un nome e un’identità a corpi senza un passato, e soprattutto un futuro, ma assieme riflette sui guasti di quella “medicina” frutto di un positivismo scientifico depurato del rispetto per l’altro. Spiega Peppe Dell’Acqua, di Basaglia allievo ed erede, “per la prima volta fu possibile vedere il malato e non la malattia”. Eccola la rivoluzione. Ed è camminando su quel sentiero che diciassette anni dopo si arriva alla riforma. Nel mezzo c’è Trieste, il suo manicomio adagiato sulla collina di San Giovanni. Una successione di padiglioni a salire verso l’alto dove stava, e sta, la cappella religiosa, congedo per chi entrato decenni prima, lì dentro aveva spesso trascorso e ucciso l’intera esistenza. Alla corte di Basaglia arrivano da ogni dove, italiani, stranieri, medici alle prime armi, volontari. Così la rivoluzione comincia a vivere oltre i confini della teoria. Si fa pratica, servizi territoriali, centri aperti giorno e notte per ricollocare le vite recluse in una città che finalmente può riaccoglierle. Non cercavano quei visionari di liberare dall’istituzione le pareti del manicomio: a modo loro volevano togliere dalla istituzione la sofferenza, separare la “follia” dalla malattia.
Fino qui la riforma fatta, almeno tentata. Ma chi e come vorrebbe disfare oggi quella scommessa temeraria? La risposta torna lassù, al confine più estremo dove è in atto il tentativo di affondare un percorso durato oltre mezzo secolo. Si bandisce un concorso per la direzione del Centro di salute mentale 1 di Trieste. Vi concorre quasi naturalmente il candidato che svolge già le funzioni di direttore. La sua scuola è quella di Basaglia, ha il punteggio più alto tra tutti per il curriculum presentato. Alla prova orale, stranamente a porte chiuse, viene sorpassato da altri due candidati, in partenza assai dietro a lui per titoli espressi. Entrambi però provengono da esperienze e strutture che della pratica basagliana scorgono solo difetti e tragedie. Parliamo di sedi dove le pratiche di contenzione non sono mai scomparse e, se lo erano, hanno ripreso piede. A quel punto cinque autorità, ex direttori dei Dipartimenti di salute mentale della città capoluogo e di Gorizia, Udine, Alto Friuli e Pordenone, scrivono una lettera e mettono nero su bianco la denuncia di uno spoils system usato al solo scopo di silurare gli eredi di Franco Basaglia da “posizioni dirigenziali nelle quali le competenze e l’orientamento valoriale sono fondamentali e decisivi”. La notizia fa il giro del mondo, arrivano attestati di sostegno che esprimono il timore di una restaurazione. La paura è che si voglia colpire una realtà che l’Oms (l’Organizzazione mondiale della sanità) in un documento in uscita tra pochi giorni giudicherà assieme alla francese Lille e alla brasiliana Campinas un “sistema complessivo di eccellenza” nell’ambito dei servizi di salute mentale di comunità. Dalla Regione, l’assessore competente denuncia la strumentalità della polemica (sic) e tanto basta. Ma la piccola grande storia che rischia di finire sepolta dall’ansia di tornare ai padiglioni coi “matti” reclusi ed esclusi, quella non merita di rimanere nel buio. Fosse solo perché nel buio, si sa, i fantasmi spesso ricompaiono.