nightswatch-newthumbdi Gilberto Di Petta

Il pomeriggio del trenta luglio lo passo con i due giovani tirocinanti psicologi, Marco e Tello, in Pronto Soccorso. Armando ha ingoiato una lametta. Lo ha portato il 118 da un paesone dell’ hinterland di Napoli nord, quello di “Io speriamo che me la cavo”. E’ a circa cinquanta chilometri da qui. In un territorio metastatizzato dal cemento, senza soluzioni di continuo. Armando viene dai bordi di questa megalopoli che non ha più centro.  Mentre andiamo in PS dico ai ragazzi, Marco e Salvatore, al loro ultimo giorno di tirocinio, che ingoiare le lamette è il gesto tipico dei detenuti. Infatti Armando è con gli obblighi di dimora. Ha fatto venti anni di carcere. Non riesco a capire neanche bene per cosa. Ma poco importa. E’ magrissimo, quasi emaciato. Un uomo vinto, un perdente. Guardo le lastre in controluce e la testina del lamarasoio bicsi vede netta, nell’ipogastrio sinistro. Si aspetta il chirurgo. Intanto Armando è smanioso, vuole firmare e andarsene. Ripete con lagna monocorde : “non mi operate”. Stabiliamo un contatto. Gli prendo la mano.  Gli chiedo qualcosa di lui. Accetta una flebo con un calmante. Facciamo gli esami di sangue, il tracciato eeg. Ha una storia, ma non riesce a raccontarla. Scriveva Baricco in Novecento “…non sei fregato veramente finchè hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla”. Qui la storia c’è, qualcuno a cui raccontarla pure, ma manca, ormai, il soggetto che la racconti. Armando mi dà l’impressione di non esserci più. Il suo corpo è una crisalide secca, che dubito abbia mai ospitato una farfalla. Si esprime, Armando, in modo stentato, flebile, dialettale …

(leggi tutto l’articolo da Psychiatry Online: http://www.psychiatryonline.it/node/6911)

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