da L’Unità, 27 marzo 2024
Si sapeva che soffriva di schizofrenia, si sapeva che era incompatibile col carcere. Ma allo Stato italiano interessa una cosa sola: chiudere in cella emarginati, disadattati e rompiscatole. Un ragazzo di 31 anni si è ucciso, impiccandosi, in una cella del carcere Le Vallette di Torino. Era solo in cella. Era schizofrenico. Il Pm da tempo aveva chiesto che fosse scarcerato e trasferito in una struttura adatta. Il Gip aveva dato il via libera. Ma Fabrizio Alvaro Nunez non è stato trasferito perché non si trovava un posto. Gli hanno detto: aspetta, mettiti in fila. Lui non ha aspettato e invece di mettersi in fila s’è appeso con un lenzuolo al collo alla grata della finestra.
La Procura ha avviato una inchiesta ipotizzando il reato di istigazione al suicidio. Sicuro che si debba parlare di suicidio? Se prendo un ragazzo schizofrenico, che già ha tentato il suicidio 10 anni fa, lo chiudo in una cella, solo, sapendo che gli psichiatri hanno detto che è incompatibile col carcere, lo so o no che quello può uccidersi? No, non è suicidio. È omicidio di Stato. Nelle carceri italiane dal 1 gennaio ci sono già stati 27 omicidi di stato.
Un ragazzo di 31 anni si è suicidato nel carcere delle Vallette a Torino. S’è impiccato con un lenzuolo. È il suicidio numero 27 dall’inizio dell’anno. 10 al mese. Se qualcuno non interviene, alla fine dell’anno supereremo largamente quota cento. Ecatombe. Non gliene frega niente a nessuno: ogni tanto qualche bella parola delle autorità, poi niente. Solo decreti e decreti per aumentare numero dei carcerati e anni di prigione. Questo ragazzo si chiamava Fabrizio Alvaro Nunez, era latino americano ed era schizofrenico. Non era un fatto privato la schizofrenia grave, era accertato, lo sapevano le autorità, i magistrati, i carcerieri. Aveva già cercato una volta di uccidersi, 10 anni fa. Il Pm stavolta aveva chiesto che fosse trasferito in una struttura psichiatrica sorvegliata, il Gip aveva detto di si. E Allora? In Piemonte non c’è posto, hanno messo il suo nome in coda. Appena si fosse liberato un posto lo avrebbero preso. Non si è liberato in tempo e Fabrizio, che era solo in cella – era solo in cella – ha preso il lenzuolo del suo lettino, lo ha strappato con le mani, lo ha ridotto a strisce, ha annodato le strisce, ha fatto un nodo scorsoio e ha fissato il cappio alla grata della bocca di lupo. In alto. Poi è salito su un panchetto, ha messo il collo nel cappio e ha scalciato via il panchetto. Se ne è accorto un infermiere, non sappiamo quanti minuti dopo. Lo ha tirato giù, ha iniziato le manovre per la rianimazione. Cinque minuti, dieci, venti. Massaggio cardiaco. Poi è arrivata l’ambulanza. C’era un medico. Ha detto solo due parole: è morto.
Fabrizio era stato in carcere qualche anno fa, per dodici mesi, perché aveva aggredito la madre. Il padre oggi racconta che fu solo uno spintone. Chissà. L’aveva aggredita durante una crisi schizofrenica. Gli succedeva spesso di perdere la ragione. In genere se ne accorgeva un po’ prima che la crisi esplodesse. Il padre – Edmundo, 63 anni, disperato – racconta che quasi sempre faceva in tempo ad avvertire. Diceva: “papà, sto male…”. E i genitori sapevano come comportarsi: una puntura di un medicinale che era sempre pronto. In genere la cosa funzionava. Poi la scorsa estate è successo che una crisi è arrivata senza avvertire. Edmundo, il papà, dormiva, e Fabrizio gli è saltato addosso e lo ha colpito con un coltello. Lo ha ferito. Lui si è divincolato, ha chiamato aiuto. Fabrizio è stato portato via dalla polizia e messo in prigione. Il padre oggi racconta di avere chiesto in tutti i modi che fosse scarcerato. Parla di Fabrizio come di un ragazzo buonissimo, che lui amava e dal quale era amato. Racconta di avere in questi anni chiesto cento volte aiuti allo Stato. Silenzi, burocrazia, rimandi.
Domenica Edmundo ha sentito il figlio al telefono. Si sono parlati. L’ultima volta. Lui lo chiamava papi, un po’ l’ha rassicurato, gli ha detto che stava bene, un po’ gli ha chiesto aiuto, perché non ce la faceva più. Ma l’atteggiamento dello Stato, e di gran parte dell’opinione pubblica, di fronte ai carcerati è sempre la stessa. Mica questi possono pretendere troppi diritti: hanno commesso reati. Paghino. Nessuno se ne preoccupa se uno è schizofrenico. Ti dicono: “mettiti in fila, non esisti solo tu”. In fondo cos’è un detenuto? Un numero, un’entità astratta, un colpevole, o comunque un sospetto. Non c’è nessun bisogno di riconoscergli diritti. I diritti si possono riconoscere ai cittadini per bene, non a chi ha violato le leggi.
“Hai sbagliato? E ora cosa pretendi?” – La Procura di Torino ha avviato un procedimento contro ignoti e il reato ipotizzato è induzione al suicidio. La Procura in alcuni casi è abbastanza indulgente, specialmente quando immagina che ci possano finire in mezzo dei magistrati. Perché parlare di istigazione o induzione al suicidio? Questo è un omicidio. Capito: o-mi-ci-dio. E il colpevole è ben identificato, senza bisogno di troppe indagini, e non è una persona fisica: è lo Stato.
È lo Stato che usa le prigioni come luogo dove internare i disperati, gli emarginati, i reietti, come ha scritto benissimo qualche giorno fa Susanna Marietti, di Antigone, in uno splendido articolo su questo giornale. Tanto più i fuori di testa pericolosi. È lo Stato che li costringe in condizioni insopportabili: provate voi ad immaginarvi per una settimana, un mese, un anno, dieci anni, chiusi in una stanza, con le sbarre, o soli o con troppo compagni in pochi metri quadrati, senza un filo di libertà senza poter lavorare, senza affetti, senza relazioni…provate, ditemi: non impazzireste? Potreste resistere senza tranquillanti, medicine, farmaci, droghe? Io no, se solo penso al carcere mi tremano le mani e le ginocchia. Non riesco proprio a capire come sia possibile che la maggioranza degli italiani ritenga che il carcere sia qualcosa di compatibile con la modernità e con un briciolo di morale. Sì: morale, lasciatemi usare per una volta questa parola. Il carcere è una grande questione morale.
Vedete il caso di Fabrizio. Non c’era posto in una struttura adatta. E perché? Perché si investe in un carcere, in repressione, si risolve tutto con le prigioni, non si investe un euro per organizzare strutture e formare personale adatto ad occuparsi del disagio psichico, della emarginazione, dell’estrema povertà, della tossicodipendenza o addirittura della follia. Lo Stato se ne infischia di tutto ciò. Risolve con un paio di manette e con le inferriate e le porte blindate delle celle. Per questo lo Stato è colpevole.
Lo Stato chi? Il suo apparato, i suoi funzionari, i partiti politici che, a turno, lo governano. Quando sentite dire “contro il sovraffollamento costruiamo nuove carceri”, sappiate che quella è una istigazione al suicidio. Quella sì. Le carceri non vanno costituite: vanno rase al suolo. Serve assistenza. Servono strutture. Serve personale per la rieducazione. Non sbarre. La “certezza della pena” è una frase orrenda, che tutti ripetono e si fanno belli. Troppo spesso la certezza della pena è certezza della morte. E quelli non sono suicidi. Smettetela di dire: suicidi. Sono omicidi.