Le recenti iniziative legislative delle regioni Lazio (vedi) e Piemonte (vedi) a proposito del così detto riordino della residenzialità non fanno altro che confermare, senza un briciolo di sussulto critico, la dilagante corsa verso le forme più inquietanti di manicomializzazione. Il peggio che si è prodotto in quasi quarant’anni di politiche regionali insensate viene “riordinato” e “accreditato”.
Lo spreco di risorse per alimentare la produzione forsennata di cronicità diventa una modalità virtuosa di amministrazione e di programmazione. E’quanto mai evidente il declino di tutto il “sistema di salute mentale” e la rinuncia a ogni sensata visione di sviluppo e di crescita territoriale del sistema dei servizi. Si parla sempre, spesso con molta approssimazione, di mancanza di risorse e di investimenti, di un generalizzato di disimpegno della politica. Affermazioni queste che non possono essere trascurate. Tuttavia credo che il generale declino del “sistema salute mentale” ha molto più a che vedere con le culture, con la persistenza di modelli teorici e operativi inadeguati, con le “psichiatrie” della diagnosi, della porta chiusa, della contenzione. In realtà, a ben vedere, l’impegno delle regioni in termini di risorse economiche, per quanto insufficiente, non è trascurabile. I costi per le “strutture” appunto, migliaia e migliaia di posti letto residenziali, dominano prepotentemente i bilanci. Si spende per riprodurre cronicità, coltivare la malattia, radicare dispositivi istituzionali e poteri economici che finiscono per essere intoccabili, fuori da ogni sensata programmazione. Senza contare le ricorrenti scandalose immagini che le telecamere nascoste della finanza o dei carabinieri ci costringono a vedere.
I servizi di salute mentale territoriali sono così soffocati, impediti, ridotti alla miseria dell’ambulatorio e dei servizi di diagnosi e cura ospedalieri. Se qualcuno intende immaginare (e tanti giovani operatori vogliono immaginare) il centro di salute mentale 24 ore, la porta aperta, la fine della contenzione, semplici economie sociali viene messo fuori gioco. Con generosa bonomia viene segnato come basagliano, utopista, ideologico, sognatore nostalgico. Fuori dal contesto scientifico, inaffidabile infine. Diventa molto difficile così far vivere servizi veramente attraversabili, che rispettino le persone, che si pongano il problema della guarigione, della cura, dell’abitare, del lavoro, della difficile “banalità” della vita quotidiana. Ormai in tutte le regioni, con pochissime lodevoli eccezioni, i posti letto residenziali assorbono i due terzi del bilancio per la salute mentale, e questa tendenza sembra essere inarrestabile. È questa l’insensatezza delle politiche per la salute mentale: consumo passivo di risorse, modelli culturali arcaici e inadeguati,“psichiatrie” della cronicità. Eppure, la relazione finale della commissione Marino del febbraio 2013, dopo una dettagliata analisi dello stato dell’arte indicava con chiarezza la via d’uscita: centri di salute mentale 24h, luoghi dell’abitare con non più di 6/8 posti, servizi di diagnosi e cura a porte aperte, budget di salute, incentivo allo sviluppo di forme di integrazione lavorativa. Esperienze che vanno in questa direzione si sono strutturate e hanno messo radici.
Investire risorse per sostenere progetti riabilitativi personalizzatiinvece che rette, non solo è possibile ma, la dove accade, sono evidenti le possibilità concrete di ripresa che si offrono alle persone. Il “riordino” delle strutture residenziali conseguenza dell‘Accordo nazionale n. 16/116/CU del 17 ottobre 2013 ( che leggemmo allora con molta preoccupazione) segnala una sciagurata convergenza tra un pubblico che consuma risorse senza nessuna prospettiva sensata di crescita delle reti di servizi e senza nessuna capacità di verifica e un privato sempre più incapace di progettazione, supino alle più insensate richieste delle regioni e delle psichiatrie complice una psichiatria che si muove sempre e ancora su acuzie, cronicità, malattia, diagnosi.
La scelta di riordinare “le strutture” è tanto più scellerata quanto più sono attive e presenti ovunque esperienze ricche di prospettive, cittadini e associazioni sensibili e partecipi, operatori competenti e generosi, forme di rapporto pubblico-privato che riescono a privilegiare progetti personalizzati di cura in una cornice virtuosa di sviluppo di micro economie di comunità. Dove la libertà innanzitutto segna la rotta e impensabili destini per le persone.
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Caro Peppe condivido profondamente la tua visuale. Bisogna sostenere le ragioni che ci spingono ancora e ancora una volta a dire: ‘mi no firmo’!!