Nel 2015, con la Legge 81/2014, sono stati chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari – Opg. Si è trattato dell’esito di una lunga battaglia, cominciata negli anni ‘80, dopo l’approvazione della Legge 180.
«Si partiva dall’idea che l’ospedale psichiatrico non fosse terapeutico», dice lo psichiatra Peppe Dell’Acqua. «Se non lo era per chi non aveva compiuto i reati, perché doveva esserlo per chi invece ne aveva compiuti?». Il manicomio criminale era una rimanenza del passato, uno strumento ormai arcaico, nato verso la fine dell’Ottocento e strutturatosi con la psichiatria positivista. «Dal 1995 al 2015 ci sono stati moltissimi convegni, studi, pubblicazioni», ricorda Dell’Acqua, «con cui i giuristi assieme ad alcuni psichiatri hanno riflettuto molto su questa condizione». Già nel 2010 una serie di visite compiute da parte della Commissione parlamentare sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale (la cosiddetta “Commissione Marino”, dal nome del senatore che la presiedeva), aveva portato alla luce la gravità delle condizioni di vita e di cura all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari, in cui spesso le persone rimanevano rinchiuse per un numero indefinito di anni, L’internamento Infatti poteva venire prorogato se ne fosse stata riscontrata la necessità con una perizia che constatava la permanenza della pericolosità sociale.
«Si dice che l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, quando gli fu mostrato il video dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto non sia riuscito a trattenere le lagrime », ricorda Dell’Acqua. Il processo di chiusura degli Opg – allora erano sei, ad Aversa (Caserta), Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), chiuso dopo essere stato posto sotto sequestro nel dicembre del 2012, Castiglione delle Stiviere (Mantova), Montelupo Fiorentino (Firenze), Napoli e Reggio Emilia – non è stato semplice. È stato un lungo cammino, fatto di proroghe e di contrattazioni, che tuttavia ha portato alla formulazione di una legge, che sanciva la dismissione di queste istituzioni e si stabiliva che l’esecuzione della misura di sicurezza non poteva più avvenire lontano dal luogo di vita e non poteva essere svolta, per forza di cose, all’interno di un luogo chiuso in condizioni di carcerazione.
Per questo ogni Regione ha dovuto – o avrebbe dovuto – ricomprendere gli autori di reato con disturbi psichici nell’ambito dei servizi di salute mentale su base dipartimentale, attraverso una presa in carico secondo modalità nuove e variegate. Le cosiddette Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Rems vennero gradatamente istituite per fare fronte ai bisogni di cura di maggior intensità e per il contenimento della pericolosità sociale più marcata. Queste realtà non vanno intese come delle copie in scala ridotta degli ospedali psichiatrici giudiziari, ma dovrebbero diventare – grazie a una rinnovata condivisione di indirizzi di politica sanitaria tra magistratura, dipartimento di salute mentale e servizi sociali – luoghi in cui avviare un progetto terapeutico riabilitativo individuale. E, soprattutto, dovrebbero essere destinate solo a coloro che effettivamente non possono rimanere all’interno del tessuto sociale di provenienza, privi un percorso ad alta intensità terapeutica e volto alla riabilitazione e al reinserimento pieno nella vita civile e sociale.
A questo punto, tuttavia, è necessario fare un passo indietro. Come si finiva, in passato, negli ospedali psichiatrici giudiziari e come si finisce ora nelle Rems? Grazie al cosiddetto “doppio binario”, inserito nel codice penale nel 1930. Non è imputabile, quindi, chi commette un reato in una condizione di infermità, senza rappresentarsi davvero le conseguenze di ciò che sta facendo. Ora questa impostazione inizia a essere messa in dubbio da più parti: nella XVII Legislatura era stata istituita una Commissione (Commissione Pelissero, dal nome dell’ordinario di Diritto Penale che la presiedeva) per ridefinire l’intero ambito normativo delle misure di sicurezza per il non imputabile, ma per via dello scioglimento delle Camere quelle soluzioni non furono approvate e non entrarono in vigore.
Alcuni studiosi ed esponenti di movimenti – soprattutto in area radicale così come certi orientamenti di sfondo liberale – sostengono che la non imputabilità non abbia più ragion d’essere: se siamo tutti uguali anche chi vive un disturbo psichico importante deve essere processato come gli altri e scontare una pena. A sostenere questa tesi, anche settori della scienza processual-penalistica e della criminologia: per loro in questo modo si risolverebbe, tra l’altro, il problema delle diagnosi compiacenti, presentatosi in passato come espediente per alleggerire la pena a persone legate alla mafia e ad altre organizzazioni criminali. In questa prospettiva, tuttavia, il problema che non si risolve a monte va risolto a valle: in che modo dovranno scontare la pena le persone che si trovano in questa situazione di grave malessere psichico, quasi sempre incompatibile con la vita in un penitenziario?
Un’altra posizione è quella che viene definita riformista. Secondo questo orientamento, esistono effettivamente delle situazioni particolari in cui si compie il reato senza averne contezza e perfetta volizione. Per questo sarebbe ipotizzabile mantenere delle aree di non imputabilità. Chi si attesta su questa tesi critica la debolezza di un punto del sistema italiano: a far danni non è il concetto di non imputabilità in sé, ma la concezione della pericolosità sociale. «Per risolvere questo problema, bisognerebbe sostituire la definizione “socialmente pericoloso” con “bisognoso di cure”», sostiene Daniele Piccione, costituzionalista e autore di diversi studi sul problema. «Questo primo elemento di modifica consentirebbe di avviare le persone a un percorso di cura e riabilitazione contando sulla rete dei servizi di salute mentale».
Molti psichiatri, tuttavia, non ritengono opportuno prendersi carico delle persone considerate “problematiche” con alle spalle un’esperienza con la giustizia penale e affermano che la psichiatria non dovrebbe risolvere problemi che sono di ordine pubblico e di politica criminale.
«Si tratta di un argomento complesso e in parte ambiguo», continua Piccione, «perché se si avviano al carcere queste persone non si ha in apparenza più il problema della loro potenziale pericolosità che viene così neutralizzata in maniera punitiva; ma non ci si può certamente attendere che escano dal circuito penitenziario con un’esperienza utile alla riabilitazione. Il vero problema è che se si sceglie uno dei tre modelli – lasciare le cose come sono, eliminare il doppio binario o mantenerlo solo in alcuni casi estremi – rimane il tema di come si debbano trattare gli autori di reato con diagnosi psichiatriche e che non traggono alcun giovamento dall’esecuzione della pena intramuraria».
Nelle Rems non ci sono abbastanza posti, ed è vero. Ma la magistratura mantiene alta la tendenza a inviare le persone con disturbi psichici in queste strutture, dove si spera possano almeno ricevere delle cure e al contempo essere in una certa misura controllate. Del resto, gli stessi magistrati si trovano in una posizione difficile. «Se un magistrato deve giudicare una persona perché, per esempio, si è denudata in pubblico, ha danneggiato una cabina telefonica e ha colpito chi cercava di calmarlo», spiega Piccione, «o stabilisce che è imputabile, quindi suscettibile di accedere al circuito delle pene, oppure dispone una perizia psichiatrica, con la quale verifica se stia davvero male e quale sia il suo orizzonte di trattamento extra penale. Allora il magistrato lo dichiara non imputabile e spera che nelle Rems possa trovare posti per qualche mese. Molto spesso, tuttavia trova le strutture piene. A questo punto sperimenta un legittimo timore, perché considera il rischio che la persona possa commettere un altro reato; esistono tuttavia non pochi magistrati che, assumendo un rischio e puntando sulla capacità di risposta dei servizi territoriali, dichiarano la non imputabilità e stabiliscono la misura di sicurezza non detentiva, affidando ai Dipartimenti di salute mentale la persona, delineando, con i servizi, un progetto terapeutico integrato e fondato sulla continuità riabilitativa».
Come uscire da questo stallo?
Per prima cosa è bene sottolineare che dismettendo gli Opg – in realtà ce n’è ancora uno in funzione, quello di Castiglione delle Stiviere, sia pure sotto un none diverso – si è mosso un passo decisivo nella direzione giusta. È necessario, poi, migliorare un elemento che ora è ancora fragile, il dialogo costruttivo tra magistratura e servizi territoriali.
«Il magistrato che è orientato a far seguire la persona dalla comunità terapeutica deve poter vedere che i servizi sul territorio funzionano e sono in grado di seguire le evoluzioni di vita e le difficoltà della persona», conclude Piccione, «vi devono essere rapporti saldi, dialoghi costanti, con i centri di salute mentale e con la variegata galassia delle risorse umane del Terzo settore, dei familiari, del mutuo aiuto; il sistema delle visite domiciliari e dei colloqui dovrebbe essere alimentato e rivitalizzato. Se tutto questo funziona, allora si può fare affidamento sul sistema di tutela della salute mentale e si possono offrire risposte integrate. Il punto resta quello di difendere la Legge n. 81: le Rems non sono sostituti degli Opg, vanno intese come soluzioni per casi particolarmente complessi, ma sempre alla stregua di frammenti provvisori e mai ultimativi di un piano articolato di cure e percorsi riabilitativi».