Da “L’ Espresso”
Basaglia non dava tregua
Quasi quotidianamente in questo tempo di “ricorrenze” molti mi chiedono di Marco Cavallo, che 50 anni fa aprì un varco nell’invalicabile muro di cinta di San Giovanni, della legge nata nel ‘78, delle porte chiuse e delle persone legate, del manicomio di Trieste dove nascono le rose…e rischiano di morire le cose.
E con mia meraviglia, più ci penso, più mi sembra che le cose abbiano lasciato un segno, segni indelebili; malgrado tutto quello che sta accadendo.
Quale l’eredità di Basaglia, mi chiedono.
Credo non si tratti di un’eredità, rispondo. Eredità come si trattasse di qualcosa di concluso, di un particolare momento culturale e storico ormai lontano e da archiviare. Eredità non è la parola che sento giusta. Credo piuttosto che si tratti di una storia cominciata da più di mezzo secolo che nessuno riesce a fermare. Una storia lunga.
Per raccontarla non posso non ricordare una rottura, una scelta di campo, un capovolgimento, una disubbidienza.
Nella clinica dell’università di Padova prendono a chiamare Basaglia, con ironia, “il filosofo” perché sempre immerso nella lettura di testi che non si erano mai visti in un istituto di neurologia. Era interessato con altri giovani alla ricerca sulla possibilità di comprendere “gli schizofrenici”, di riportare nel campo arido della psichiatria fredda e distante qualcosa che avesse a che vedere con la persona, col soggetto.
L’ingresso nell’autunno del ’61 nel manicomio di Gorizia fu l’inizio, non può non vedere un mondo a lui sconosciuto. Era la prima volta che metteva il naso in un manicomio. Vede un mondo sospeso, vede le porte chiuse, vede i letti con le reti, “le gabbie”, i camerini di isolamento, gli internati legati ai letti. Vede gli internati che si aggirano nei cameroni per tutto il giorno senza una ragione. E vede gli internati distesi sul selciato del cortile. Vede le chiavi e le divise. Il suo sguardo cerca la presenza di un uomo, di una donna, di un respiro.
Vede l’assenza.
L’impatto è terribile è tentato di andare via. Cosa potrà mai fare ora, da direttore, se non diventare complice di quella violenza?
Cominciò a dire di quei luoghi distanti, dimenticati, invisibili e sconosciuti ai più: novanta Ospedali psichiatrici nel nostro paese con centoventimila internati! “Il filosofo” comprese che per trovare uno spiraglio, per scorgere la persona, il soggetto doveva tentare di mettere a lato le pesanti coltri della diagnosi, della malattia, dell’internamento. Doveva fare appello proprio a quella filosofia che lo aveva educato alla critica del positivismo scientifico ottocentesco e lo aveva avviato alla scoperta del soggetto. Cominciò così a svelare la natura di luoghi di reclusione e di violenza, le porte cominciarono ad aprirsi. La storia negata di migliaia di uomini e di donne che tornano alla banalità delle relazioni non poteva più essere taciuta.
Forse, pensammo, si poteva vivere senza manicomi!
Con il passare degli anni, con la smemoratezza che ci accompagna, sembra svanita l’immagine di quella non vita di migliaia di uomini e di donne condannati all’inesistenza. Sembra non abbia più senso ricordare le origini della scienza psichiatrica tra gli entusiasmi e gli evviva del positivismo scientifico che ogni respiro aveva ridotto a cosa, a oggetto.
Erano i primissimi anni’70, di recente laureato, non capivo quello che stava accadendo. Tutto sembrava muoversi a doppia velocità. Ero partito da Salerno. Avevo cominciato a lavorare a Trieste dove Basaglia mi aveva chiamato assieme a tanti altri giovani. Basaglia non dava tregua. Perché tanta urgenza, tanta passione che ora sentivo nascere anche in me? da dove veniva la forza di quelle parole che ci catturavano e che facevo fatica a comprendere e che pure volevo fare mie?
Nel corso del tempo è diventato chiaro: il lavoro quotidiano, le pratiche rischiose della libertà, le parole di Basaglia che ascoltavamo alla mitica “riunione delle 5”, invitavano a interrogarci sulla natura della malattia mentale, a scoprire con coraggio l’incertezza dei fondamenti di quella scienza che aveva edificato su inattaccabili certezze gli ospedali psichiatrici, prodotto volumi e volumi di parole che servivano a mettere “distanza”.
Scoprivamo che la psichiatra non poteva farsi se non riducendo l’altro a cosa, a oggetto.
Basaglia aveva preteso da noi una scelta di campo che voleva una frequentazione, un’immersione totale nel corpo, nei luoghi del cambiamento: le persone, i bisogni, le storie, la banalità della vita quotidiana, l’incertezza.
Le accademie, le lobby professionali incapaci di pensiero critico non hanno fatto altro che ostacolare il lavoro di Basaglia. Marco Cavallo, uscendo per le strade diceva che bisognava abbattere i muri, ma soprattutto stare attenti ai “sapientoni” che avrebbero tentato ogni cosa per portare lui, il cavallo azzurro, “finalmente” al mattatoio.
Oggi benché Marco Cavallo continui il suo andare raccontando la vera storia di liberazioni esemplari, ritornano in sella i sapientoni che negano la presenza dell’altro, che insegnano l’arte del legare, che educano alla distanza, al rigore delle diagnosi che cancellano la presenza delle persone. Nelle università, in tutte le facoltà, solo poche, forse due o tre, cercano di istituire corsi e seminari su questi temi. Dobbiamo molto alle iniziative degli studenti che in assemblee autogestite di università e licei, hanno reso possibile parlarne.
Per noi, di fronte al ritorno quasi incontrastato dei sapientoni, non è stato possibile fare altro che dire: dobbiamo andare avanti con le nostre scelte. Una scelta di campo che di tempo in tempo è diventata più chiara e ha assunto la forza delle persone che vivono il disturbo mentale e si è arricchita di migliaia di esperienze e di buone pratiche.
A Trieste, chiuso il manicomio, fu urgente e rischioso pensare al che fare. Il territorio, il centro di salute mentale, doveva, era questa la scommessa, diventare il luogo, il dispositivo, la cultura, che lasciava davvero alla storia l’ospedale psichiatrico. In pochi luoghi è accaduto altrettanto. Psichiatri, accademici, amministratori, politici, hanno pensato che tutto poteva tornare come prima tranne la presenza ingombrante del manicomio. Gli psichiatri col camice bianco hanno trovato negli ospedali generali quella parità con i medici che avevano sempre agognato, rifiutando, quasi inconsapevolmente, la responsabilità della cura e del controllo sociale. Molti non hanno compreso che avrebbero avuto a che fare con cittadini, con persone, con singolari individui. E che per prima cosa avrebbero dovuto sostenere l’accesso ai diritti, ora possibile, la dignità delle persone con disturbo mentale perché uscissero dall’indegnità che il manicomio per due secoli era stato capace di alimentare e finalmente credere nella cura e nella guarigione ora possibile.
Mentre si allargava l’esplorazione del territorio e la conoscenza nei contesti e nelle relazioni e scoprivamo i bisogni delle persone, i conflitti, le miserie della vita quotidiana capivamo il senso del tenere a lato la diagnosi, la malattia.
Il centro di salute mentale non poteva che essere il luogo dell’incontro, il luogo sicuro dove andare a far sentire il proprio male, il luogo degli scambi impensabili. A poco a poco diventava il mercato di Marrakech sognato da Franco Rotelli.
Oggi, cinquant’anni dopo. Non posso raccontare questa storia se non mi interrogo con voi su questo: chi è l’altro che ho di fronte? Non posso non capire che l’atroce sofferenza, l’esplosione del mondo in terra, il dolore incontenibile, è quanto vive tragicamente proprio quell’altro che ho di fronte. Quell’uomo, quella donna, quella giovane, quel giovane stanno vivendo un’esperienza ignota, che li porta lontano come a perdersi in mezzo alle stelle, eppure quell’esperienza mi deve appartenere. La fatica dell’incontro è un ascolto largo e senza fine che impedisce di perdersi nel freddo e nell’oscurità dell’universo.
Oggi le persone, le mamme, i papà, i ragazzi che stanno male chiedono di stare bene, chiedono di guarire. Oggi si sentono in grado di denunciare, e di urlare quando c’è un figlio legato a un letto. Oggi ci sono giudici che, in virtù della legge 180, possono prendere atto di queste denunce, di queste urla.
E se tutto questo è possibile è perché il cambiamento c’è stato. Ecco io vorrei che questo si capisse bene, oggi che si “celebra il centenario”. Vorrei che si capisse che Franco Basaglia non è quello che ha chiuso i manicomi, ma è quello che strenuamente si è battuto per restituire diritto, cittadinanza, dignità, singolarità, cura. Questo è Basaglia. Ed è in tutto il suo lavoro.