di Piero Cipriano.
Ora che ci penso io l’ho incontrato solo tre volte Fedeshoe. Eppure ciò non m’impedisce di considerarmi suo amico. Anche ora che non c’è più. Che non c’è più da queste parti, insomma, in questa dimensione. Perché io, ora che ci penso, non lo so se sono davvero un materialista convinto, come si dice. Non lo so se ci credo davvero che inizia e finisce tutto qui, in questa forma di vita, in questi dieci, cinquanta, novant’anni che ci è concesso di vivere. Non lo so. Secondo me (e la fisica quantistica o una qualche teoria delle stringhe, o la teoria degli universi paralleli, o le onde gravitazionali di Einstein qualche prospettiva di continuare altrove ce la dovrebbero dare) quel mucchio di molecole che si coagulano nel dar corpo alla cosiddetta anima, o spirito, o psiche, o soffio vitale, o non so come meglio definire, insomma queste molecole per forza da qualche altra parte devono andare a sbattere, a ritrovarsi, a ricomporsi.
La prima volta è stata a febbraio del 2014. Presentavo La fabbrica della cura mentale a Trieste, dove vive. Durante la presentazione facemmo la conoscenza con lo sguardo. Guardandoci. Spesso, mentre parlavo, rivolgevo lo sguardo a lui e lo trovavo lì, con quegli occhi accesi che dicono oltre ciò che con lo sguardo di solito si può dire. E dopo la presentazione ce ne andammo in un pub, a bere e conoscerci, insieme a altri. Era molto curioso. Dava l’impressione di avercela fatta a tenere a bada i suoi demoni. Non gli ho mai chiesto, con l’attitudine investigativa che di solito uno psichiatra ha, quali fossero i suoi demoni, in che consisteva la sua diversità, non volevo essere psichiatra con lui, condizionare il rapporto normale che s’era, da subito, creato, con la sovrastruttura di un’etichetta diagnostica. Ci bevemmo una birra. Io media e scura. Lui piccola e chiara.
La seconda volta fu a Roma. Era la fine di marzo del 2014. Lui si calò nella parte del matto che non è più matto, che l’ha sfangata insomma, e parla, addirittura al Senato. Era, sembrava almeno, felice. Ci scattarono delle foto, in una io gli poso la mano sulla spalla, lo guardo con tenerezza, lui risponde, sguardo fiero, al mio. Se qualcuno avesse voluto, non conoscendoci, fare l’esegesi di quella foto, ci avrebbe presi per due amici di vecchia data, per la pelle, o del cuore, a seconda.
Nel frattempo ci siamo scritti, più scritti per mail o per sms che sentiti per telefono. Lui mi ha inviato, su mia insistenza, dopo che avevo letto il bellissimo pezzo (Lo psichiatra nella gabbia) pubblicato sul sito web del Forum Salute Mentale, altri suoi racconti. Era davvero bravo. Ci sapeva fare. Sapeva scrivere e aveva in più la materia. Cioè, forse, voglio dire, col senno di adesso, quel quid di follia che ogni scrittore deve avere, per essere qualcos’altro, per potersi staccare dalla gran massa degli scriventi. Lui ce l’aveva. Mi manda uno scritto molto bello, quello che avete appena letto, la storia di G (vedi), che forse era lui stesso, una storia che assomiglia, per certi versi, al racconto Davanti alla legge, di Kafka. Glielo dico. Lui si schermisce, mi ringrazia, sei troppo buono, mi fa, però come a non crederci, fino in fondo.
Ecco, l’idea che mi viene in mente ora. Un talento che non ha creduto molto in se stesso. Ma non solo come scrittore, ma come persona che poteva permettersi di continuare a vivere, fino a farsi vecchio, e solo allora lasciarsi morire.
Tempo dopo, estate 2014, gli scrivo che mi piacerebbe inserire quel suo scritto (Lo psichiatra nella gabbia) nel libro che stavo scrivendo. Mi risponde dopo alcuni mesi. Come mai ci hai messo tutto questo tempo, Federico? Ho avuto un periodo un po’ no, mi fa, ma ora sto di nuovo bene.
Quando, a fine marzo 2015 esce Il manicomio chimico, glielo spedisco in anticipo. Lui ricambia con la prima recensione al libro, pubblicata a tempo di record sul sito web del Forum Salute Mentale, il giorno stesso in cui il libro esce in libreria. Così conclude la sua recensione: “…noi piccoli uomini siamo tremendamente spaventati da ciò che non conosciamo. E la follia, in questo, è una grande maestra di vita, nonché generatrice di paura. Solo con il coraggio, la saggezza e un profondo senso di gratitudine per la vita e per tutto ciò che abbiamo (tanto o poco non importa) potremo capire che in realtà non v’è nemico, non c’è pericolo alcuno in nessuna forma di diversità, in nessuna terra, paese o cultura sconosciuta. Sono stufo di avere paura della mia ombra, voglio vivere con curiosità e rispetto ogni lato della mia e dell’altrui vita. Al di là delle apparenze”.
A maggio torno a Trieste, per presentare il libro. Lo incontro al mattino, in una riunione di giovani che a vario titolo operano nella salute mentale. Ci salutiamo, con affetto. Ma rimane un po’ a margine della discussione. Gli chiedo se ha voglia di partecipare alla presentazione, il pomeriggio, anzi no, lui era già previsto tra coloro che sarebbero intervenuti, ma è impegnato per un ricevimento. Mi sa tanto di una scusa. Non vorrà esporsi. Non fa niente.
Mi riscrive qualche settimana dopo. E’ stato a un concerto di Caparezza, e ha voluto regalargli il mio libro. Mi riscrive, ancora, qualche settimana dopo. A me, Peppe Dell’Acqua, Roberto Mezzina e Benedetto Saraceno invia uno scritto, un breve saggio su buddismo e salute mentale. Purtroppo non gli ho risposto. Pensavo che la vita mi desse tempo, tempo per rincontrarlo, per parlare a voce di questa cosa, di queste sue intuizioni.
Invece. Il 22 ottobre era a casa dei genitori. Dice che dopo cena è uscito sul balcone per fumarsi una sigaretta ma non è più rientrato. Volato via. Come birdman. Mi piace pensare che ovunque siano le molecole che rappresentavano la sua anima, adesso abbiano trovato la libertà che qui non riusciva ad afferrare.
(da LA SOCIETA’ DEI DEVIANTI di P. Cipriano. Eleutera Ed 2016)