[Pubblichiamo un articolo di Monica Coviello pubblicato il 20 gennaio 2017 su Vanityfair]
La storia di Angelo, rinchiuso in manicomio, a Villa Azzurra, Torino, quando aveva tre anni, è una delle otto raccolte da Alberto Gaino nel suo libro Il manicomio dei bambini. Storie di istituzionalizzazione. Nove anni di violenza, punizioni spietate, disumanizzazione e rabbia: la sua testimonianza
«Io mi dicevo: se vedo i merli dalle finestre, vuol dire che sto bene e a posto con la testa, se invece il cervello era tutto confuso, dipendeva dai giorni, era per i farmaci che mi davano». Angelo è un sopravvissuto. Uno di quei bambini che hanno passato l’infanzia in un manicomio.
La sua è una delle otto storie raccolte da Alberto Gaino nel suo libro Il manicomio dei bambini. Storie di istituzionalizzazione, in uscita mercoledì 25 gennaio per la collana le Staffette, edizioni Gruppo Abele. L’autore, che dal 1981 è stato cronista prima per Stampa Sera, poi per La Stampa, ha ripercorso la cronaca giudiziaria degli anni ’60 e ’70, quelli in cui i manicomi (oggi chiusi grazie alla legge Basaglia del 1978), in particolare quelli della provincia di Torino, erano delle vere e proprie «discariche di relitti e persone rotte, dove la disumanizzazione era all’ordine del giorno».
Bambini e bambine, a volte abbandonati, a volte considerati «monelli», «pericolosi a sé e agli altri», venivano lasciati marcire dietro quei muri, legati mani e piedi per giorni o in balia del gelo invernale. Gaino ha riaperto le cartelle cliniche di quei vecchi istituti. «L’ospedale psichiatrico – spiega – è stato nei suoi centocinquant’anni di vita un’immensa discarica umana in cui sono state rovesciate, come rifiuti organici, generazioni di uomini e donne, e bambini, tutti vulnerabili».
Angelo aveva tre anni quando un’assistente sociale lo portò a Villa Azzurra, «che di quel colore non aveva proprio nulla. Ci finii perché quella buona donna di mia mamma mi aveva avuto da un uomo che della paternità se ne infischiò allegramente, non l’ho mai incontrato. Lei era giovane e sola, e lavorava come operaia in una maglieria.
[…] Finii nel manicomio per i più piccoli. Giusto per avere un letto e un piatto di minestra. Ovviamente questi sono pensieri che ho avuto dopo. A quell’età, di male potevo avere fregato solo i ciucci all’asilo. Poi, a Villa Azzurra, che era una caserma con le suore che punivano per ogni nonnulla, diventai oppositivo, come dicevano tutti. Ricordo che mi punivano e io scappavo per le grondaie sul tetto, mi nascondevo nei tombini, mi rifugiavo nella camera mortuaria in fondo all’Ospedale psichiatrico di Grugliasco.
Mia madre mi ha chiamato Angelo e so bene che non lo sono mai stato, un angelo. Però, di fronte alla paura, non ho mai pensato di provare a fare pena. Ho sempre reagito alla paura con la rabbia, la protesta. Era la mia natura. E, come ho già detto, mi hanno definito un oppositivo. E, per la verità, molto altro. Ero curioso e la notte mi alzavo, uscivo scalzo dalla camerata, mi attirava la luce accesa nella stanza in fondo, dove stavano gli infermieri. Una volta vidi un’infermiera che faceva la festa a un infermiere, lo dissi alla suora e lei mi punì.
Cominciai a essere legato al letto, o al termosifone, che avevo quattro anni. Così diventai un ribelle. Non scappavo soltanto. Rispondevo alzando anch’io la voce. Era arrivato Coda, lo psichiatra elettricista. Mi ha dato la scossa cinquantadue volte. Non mi ricordavo quant’erano state. Ho rubato la mia cartella clinica e là c’è scritto che Coda mi fece mettere la gommetta fra i denti e i due tappi alle tempie tutte quelle volte. A dire il vero, e questo me lo ricordo senza consultare le carte, secondo come gli girava, l’elettricità me la dava ai genitali, alla colonna vertebrale, ai reni, oltre che alla testa. Diceva alla suora: «Si è fatto la pipì addosso? Sì? Insegniamogli a non farla più». Oppure bastava che lo avessi guardato storto. E mi faceva schiattare dalla paura, prima, ma cercavo di non darlo a vedere. Cercavo.
Una volta partita l’elettricità nel mio corpo, non capivo più niente e svenivo. Saranno stati secondi, ma era come per quei bambini, fra di noi, che avevano le convulsioni. Partivi come un frullatore. Solo che eri tu, una persona. Non una macchina. Ho letto quello che ha detto un altro ricoverato cui avevano fatto l’elettroshock, a proposito dei movimenti del suo corpo: «Li senti come se fossero gli ultimi della tua vita». Io sono vivo, sono stato male, anche malissimo, più di una volta, ma non so, non lo so ancora cosa si prova quando si sta per morire. Ma sono d’accordo con questa descrizione. Era… mi sembrava che fosse come morire. Sono andato a leggermi cosa scrisse Coda: «Il medico che si commuove crea la piaga purulenta».
Tutte quelle volte. Mi abituai persino all’elettroshock, nel senso che nemmeno domandavo più perché continuassero a punirmi in quel modo. E quando mi svegliavo, ore dopo, se andava bene mi trovavo nel mio letto sul materasso, se no sulla rete: avevano tolto il materasso perché non si lordasse. In ogni caso io ero legato. Ricordo che prima di svenire me la facevo regolarmente addosso. Me ne accorgevo al risveglio. Sporco com’ero rimanevo così per ore, a volte anche per giorni, una volta per quattro giorni, e mi sporcavo ancora di più. Al centro della rete c’era il cuculo. Ce l’avete presente il film Qualcuno volò sul nido del cuculo? Noi chiamavano cuculo il buco che veniva fatto in mezzo alla rete perché non ci sporcassimo. Ma c’erano le volte che non si poteva evitare di sporcarci. Dipendeva da come ti legavano. Se nella fretta ti legavano tutto storto non c’era niente da fare: te la facevi addosso. E restavi così.
Passavano gli infermieri, mi dicevano: «Poi ti cambio». Oppure: «Hai fame? Dopo te ne do». Magari passava una giornata intera. Semplicemente si dimenticavano di me. Avevo cinque, sei, sette anni. Ho vissuto la mia infanzia in quella maniera.
Ricordo abusi e adusi di Villa Azzurra. Gli abusi ce li ho stampati nel cervello più di tutto il resto. C’era l’infermiere che si prendeva e si portava, dove solo lui sapeva, le bambine più sviluppate. Che avevano tredici anni, ma anche undici. La suora caporeparto, quella che andava tanto d’accordo con Coda, lo copriva. Ce ne furono una o due, di quelle bambine, che erano diventate grosse, la suora ci diceva: «Mangiano tanto, troppe caramelle». Quali caramelle? Non ne vedevamo mai. Poi, quell’una o due bambine non le abbiamo più viste. Ho capito e saputo dopo anni che l’infermiere le aveva messe incinte. […] Ricordo che sotto la palazzina dove dormivano le suore c’era la sala chirurgica e che ci portavano dei malati che non tornavano. Mi ricordo di bambini e bambine che hanno portato là e non sono tornati da noi. I più grandi di noi dicevano che ci facevano esperimenti in quella sala chirurgica. Faceva paura quando portavano via qualcuno.
Sono passati cinquant’anni e sono convinto che facessero esperimenti su di noi. Esperimenti di farmaci che ci intontivano: io mi dicevo se vedo i merli dalle finestre vuol dire che sto bene e a posto con la testa, se invece il cervello era tutto confuso, dipendeva dai giorni, era per i farmaci che mi davano. E poi c’erano esperimenti ancora più strani come l’elettroshock sui bambini epilettici. Su quelli come me, lo ripeto, avevano solo un obiettivo punitivo: almeno questo mi era chiaro. Nel resto della mia vita mi sono reso conto di tante cose che mi hanno fatto là dentro, cose che mi pesano nella testa e sullo stomaco. E mi hanno avvelenato di rabbia il sangue. Tipo il contenermi per qualsiasi cosa. Neanche i cani alla catena diventano buoni. Io non sono diventato buono.
L’unica cosa positiva che aveva la contenzione era evitare che i bambini epilettici, quando avevano le loro crisi, sbattessero la testa contro le sbarre del letto. Ma ho anche capito che i bambini epilettici non dovevano trovarsi là.
[…] Sono stato più di nove anni a Villa Azzurra, che a chiamarla così, adesso che ci ripenso, era proprio uno scherzo a noi bambini. Ricordo che non c’erano giocattoli, li ho visti poi nelle vetrine quando sono andato fuori, ma allora ero già grande per la mia età e non ci avevo più testa per i giocattoli. In quel posto l’unico gioco che abbiamo mai fatto era con la Marisa, la maestra che ci faceva fare un po’ di ginnastica: lei portava il pallone e noi maschi ci correvamo dietro. C’era anche un’altra maestra a tempo, che ogni tanto ci portava i dolcetti, ci sembrava chissà cosa. Non ho più rivisto nessuno dei bambini di Villa Azzurra. Se non Oscar. Quando lo rividi era diventato un tossico. Fu lui a dirmi di Flash, morto di droga. Come altri di Villa Azzurra. Come lo stesso Oscar più tardi. […]
Sono sopravvissuto a quel tempo perché – dopo quasi dieci anni di Villa Azzurra, un undicesimo in un reparto per adulti e un periodo di educazione morale sulla nave scuola Garaventa – fui preso in comunità da Paolo Henry che si dava un gran da fare a portare via dal manicomio le persone. Ma, per quanto in comunità fosse diverso, scappai lontano appena mi fu possibile, oltreconfine. Non tornai se non dopo parecchi anni, ormai dimenticato, persino dato per morto. Avevo quindici anni quando decisi di lasciarmi alle spalle la vita che mi era stata donata.
[…] Avevo capito, crescendo là dentro, che la salvezza era correre via lontano. Un giorno Paolo Henry mi diede un bel po’ di soldi per le commissioni, li misi in tasca e uscii, non mi ricordo assolutamente quanti erano, ma ci presi un treno e andai all’estero. Girovagai un po’ di qua, un po’ di là tirando a campare. Il giro per l’Europa mi doveva ripagare di tutta un’infanzia chiusa fra camerate e refettori che sapevano sempre di rancido o di disinfettante, a ore alterne. E mi portò alla meta dell’avventura che non avevo osato nemmeno sognare ma che, durante lo zigzagare per mesi, divenne pura necessità: Aubagne, nel sud della Francia, quartier generale della Legione Straniera, rifugio di peccatori e promessa di emozioni forti. Per l’età che avevo non avrei potuto arruolarmi. Mi aggiustai con i documenti. E mi presero.
Ho indossato quella divisa per sei anni e poi ho passato altri otto mesi in ospedale, come conseguenza. […] A parte la lezione di vita, mi diedero la liquidazione, erano un sacco di soldi per i miei gusti, mi sentivo quasi benestante e girai l’Europa a spenderli. […] Tornai in Italia quindici anni dopo la fuga dalla comunità: avevo esaurito le riserve auree. Infine, sono tornato a Torino».
Angelo ha lavorato finché un grave infortunio non l’ha messo da parte. Non si è arreso, e dice: «Qualche carenza ce l’ho anch’io, ma non sono un paziente psichiatrico. Navigo con il computer, leggo, se posso dare una mano a qualcuno che ha bisogno lo faccio volentieri». […] Anima blues: «Vado per la mia strada. Sono solo e creperò solo. Non so se invecchiando o improvvisamente».