da Il Dubbio, 18 marzo 2024

I manicomi non sono più come ce li immaginiamo. Ma questo non vuol dire che non esistano, dice Piero Cipriano, psichiatra e scrittore. Il pensiero di Basaglia l’ha incontrato dopo la specializzazione, in Friuli, cioè la Regione che ne custodisce l’eredità. Ne ha seguito l’insegnamento terapeutico, lavorando negli Spdc (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura). Ma ora la celebrazione del medico che ha liberato i “pazzi”, nel centenario della sua nascita, gli risulta un po’ consolatoria: “Gli facciamo il francobollo e poi ce ne dimentichiamo…”.

Cento anni dalla nascita di Basaglia, oltre 40 dalla legge 180 del 1978 che porta il suo nome. Una riforma mancata?

In qualche misura sì. Non perché fosse imperfetta quando è stata scritta, allora è stata la migliore legge che si potesse scrivere, data la circostanza storica. Vale a dire un gruppo di psichiatri che si fece minoranza egemone e riuscì a imporre l’eliminazione dei manicomi contro la maggioranza. Fu una legge di compromesso, che a Basaglia per certi versi stava anche un po’ stretta: all’inizio la definì antidemocratica. Riteneva che il Tso potesse diventare un arresto sanitario o un sequestro ospedaliero. Temeva che gli Spdc nascenti potessero diventare dei piccoli manicomi posti dentro gli ospedali generali. Poi ne assunse la paternità, essendo un pragmatico. Ma di certo non un ingenuo: capii che una legge non sarebbe bastata, se non ci fosse stato un cambiamento culturale generale della società.

Ed è stato così, gli Spdc sono diventati dei mini- manicomi?

Il presupposto della legge è che il malato psichiatrico non sia più deportato in luoghi a parte, in questi manicomi che sono piccoli lager, ma che torni all’interno della società civile, e quindi anche nell’ospedale generale, al cui interno torna il reparto psichiatrico. Si può però osservare che su circa 300 Spdc, solo una ventina sono aperti come gli altri reparti ospedalieri. Gli altri sono tutti chiusi, adottano una triplice forma di contenzione.

Ovvero?

Non solo quella meccanica. C’è anche una contenzione ambientale: la porta è chiusa e non puoi uscire. Poi c’è una contenzione che possiamo definire farmacologica, cioè attraverso l’uso dei farmaci. La dinamica del manicomio non corrisponde al luogo, che è stato abolito. È il tipo di pratica, lo stile di accudimento psichiatrico: e in questo senso si è replicato in luoghi più piccoli. Chi è ricoverato vive in una dimensione di regolamenti ossessivi e sanzioni, di simil-carcerazione.

Che intende per sanzione?

L’aumento della terapia oppure il legamento al letto. Pratica molto diffusa e abbastanza taciuta fino a qualche anno fa, quando la contenzione meccanica era lo scheletro nell’armadio della psichiatria, che un po’ si vergognava di questa pratica sopravvissuta alla fine dei manicomi. Oggi se ne parla molto di più, ma nonostante i proclami del ministro Speranza per abolire la contenzione e il progetto ben finanziato a questo scopo, non mi pare che ci siano molti risultati. Legare o non legare è anche una questione di tipo ideologico e culturale.

Si riferisce a un approccio “securitario” della psichiatria?

Questo c’è sempre stato, sin dagli albori del manicomio. Come racconta Foucault, prima della nascita del manicomio, cioè a fine ‘700 con Philippe Pinel che inventa il manicomio in Francia, tutti i tipi di “deviati” – i criminali, i rei, i vagabondi, i malati mentali – finiscono in maniera indifferenziata in carcere. Pinel poi stacca i folli dai delinquenti, ritagliando per loro un luogo di cura. Ma nonostante le buone intenzioni, fin da subito questo assumerà una connotazione carceraria, securitaria. I principi che Foucault ci dice sottendere al manicomio sono la reclusione, l’isolamento, il dominio per proteggere la società dal pericolo e dal disordine che il malato mentale rappresenta per la società stessa. Ecco, noi pensiamo che l’ideologia del dominio rispetto a questo tipo di sofferente psichico sia superata, ma non è così. Ci sono forme più sofisticate di dominio.

Vale a dire?

Alcune come la semplice sedazione farmacologica, e altre come il legamento al letto e la chiusura che non sono diverse da quelle che si esercitavano nel grande contenitore manicomio.

Lei prima parlava di “minoranza egemone”, ai tempi di Basaglia. Oggi?

Non è mai stata maggioranza e oggi meno che mai. Il contesto storico è assolutamente diverso rispetto a quello degli anni ‘70, anni in cui c’era un fermento e un’attività di riforma che potremmo dire quasi rivoluzionarie. Oggi sembra che molte conquiste possano involvere o addirittura essere perdute. Perciò questa celebrazione di Basaglia, per il centenario, ha il sapore di un contentino.

Qual è il concetto di cura che Basaglia sperava di diffondere?

Voglio rifarmi a ciò che lui disse in una serie di conferenze in Brasile nel 1979. Alla domanda “cos’è per lei ‘terapia’?”, rispose che è “lotta contro la miseria”. E se andiamo a vedere, la povertà ammala, sia fisicamente che dal punto di vista psichico. Cioè un malato non è solo un malato, ma un uomo con tutte le sue necessità. Nei luoghi più virtuosi, cioè a Trieste, dove Basaglia ha lasciato la sua eredità, hanno saputo dare risposta terapeutica in questo senso: invece di sostituire alla tecnica manicomio la tecnica psicofarmaco, come è successo nella maggior parte d’Italia, hanno creato luoghi sempre aperti e attraversabili: un bar di Dakar, come disse Franco Rotelli.

Nel suo libro “Basaglia e le metamorfosi della psichiatria” parla della nascita di un “manicomio chimico”…

Cercavo di sottolineare che la morte di Basaglia, negli anni ‘80, è stata una cesura tra il prima e il dopo: terminati i manicomi, c’è stata per impulso degli Usa una ridefinizione sofisticata e apparentemente scientifica del manicomio costituito dall’uso pervasivo della diagnosi. Per esempio, l’eccessiva timidezza oggi diventa fobia sociale, il lutto è depressione. E a questo consegue un uso a pioggia degli psicofarmaci. Addirittura, farmaci intesi come “cosmetici” psichici per aderire alla società della performance. Insomma, il manicomio ci è cambiato sotto il naso senza che ce ne accorgessimo, solo perché non è più un luogo visibile.