di Marino Sinibaldi, direttore di Radio3
Un giorno, alla metà degli anni ottanta, una signora triestina che cerca una casa con giardino nella parte alta della città varca un portone un tempo serrato e scopre che quei ventidue ettari sono il famigerato Ospedale psichiatrico provinciale (Opp), ora un ex manicomio con edifici invasi dai rovi, ma anche altri riconvertiti e animati, circondati da un gigantesco, magnifico roseto.
Non tutte le mura sono intatte perché, sembra, si dovette abbatterne una parte per fare uscire, un domenica di marzo del 1973, il più famoso manufatto mai emerso da un nosocomio, ossia il gigantesco cavallo azzurro in legno e cartapesta confidenzialmente ribattezzato Marco Cavallo: la sua dismisura era, chissà quanto casualmente, impossibile da contenere dentro le mura che dovevano custodire la malattia mentale.
Nel frattempo era successo che, partendo da lì, il lavoro dell’équipe di Franco Basaglia aveva portato non solo alla chiusura di quel manicomio ma al superamento degli ospedali psichiatrici in tutta Italia e alla riforma dell’assistenza (la celebre legge 180 del 1978). Di questo apparentemente parla L’istituzione inventata, un grande almanacco pubblicato dalle edizioni Alpha Beta di Merano che racconta – come dice il sottotitolo – “Trieste 1971-2010”, ossia i quarant’anni trascorsi da quando sembrava naturale rinchiudere la malattia (e i malati) dietro le mura e i cancelli che oggi circondano roseti e locali dai mille usi diversi.
Il libro restituisce il complesso intreccio che sta dietro la gigantesca impresa della chiusura dei manicomi
È una storia certamente nota e ancora molto discussa, fin troppo controversa e citata. Cosa aggiunge allora questo libro? Molte cose, che derivano anzitutto da come è fatto, dalla sua natura tipografica ed editoriale, dalla straordinaria massa di cose che riesce a contenere.
Chiamarlo almanacco è infatti approssimativo. Si tratta di un grande volume (30 centimetri per 20 centimetri circa) zeppo di cronache, documenti, citazioni, frammenti di diari e di conversazioni, fotografie (bellissime: da sole valgono il libro), mappe, diagrammi, riproduzioni di manifesti e di articoli di giornali che seguono un ordine solo vagamente cronologico. Perfino il fatto che le pagine non siano numerate sembra contribuire, non sappiamo quanto volontariamente, a dare una forma del tutto originale alla pubblicazione. Che non ha lo scopo di mettere in fila un storia già molte volte raccontata ma, più ambiziosamente, di restituirne la profondità, la complessità, forse la contraddittorietà senza banalizzazioni semplificatorie.
Impresa riuscita grazie a una mole di materiali diversi, felicemente disomogenei, che vanno dalle lettere del paziente psichiatrico Antonin Artaud e dalle teorie un po’ prosopopeiche sul ruolo dell’intellettuale mutuate da Jean-Paul Sartre alle immagini di stralunato candore delle feste di primavera o a quelle ancora strazianti delle condizioni di (cosiddetta) vita nel circuito manicomiale fino alle aride ma decisive delibere degli organi amministrativi.
L’accumulo di documenti così diversi emoziona e fa riflettere, disorienta e scuote, riesce infine a restituire l’intreccio di pensieri e azioni, di entusiasmi, competenze, strategie e ingenuità che sta dietro la gigantesca impresa della chiusura dei manicomi. Racconta anni lunghi e densi, affollati di fatti e persone, di amici e nemici, di coraggio, di dubbi, di soluzioni.
Questa storia ha un senso attuale: a ogni costo e ovunque, provare a includere l’escluso – il malato, il povero, lo straniero
Ma al centro risalta sempre la quotidianità del lavoro lungo, difficile, appassionante di Franco Basaglia e dei suoi collaboratori, ossia di uno dei gruppi intellettuali più sorprendenti nella storia del nostro paese. Una storia mai, in nessun momento, priva di contraddizioni e conflitti, scrive Franco Rotelli, curatore del volume e direttore dell’ex manicomio dopo Basaglia, dal 1979 al 1995.
Solo questa forma editoriale e mentale permette oggi di comprendere il senso di quella storia. Un senso epocale: restituire cittadinanza dove ogni diritto era cancellato. Un senso attuale: a ogni costo e ovunque, provare a includere l’escluso – il malato, il povero, lo straniero. Una impresa che sembrava smisurata nel suo oltranzismo – chiudere i manicomi – si è realizzata grazie a una serie complessa di condizioni, diciamo pure di circostanze.
Ma può essere spiegata a partire da due elementi sintetici: un gruppo attrezzato, motivato, capace di messaggi chiari e alleanze ampie; un contesto storico in grado di accogliere le ragioni e l’umanità di un’idea estrema.
Non si capisce molto (o si rischia di rimanere semplicemente attoniti di fronte all’eccezionalità dell’impresa) se non si ricorda che la riforma del 1978 arriva alla fine di un decennio di misure che in Italia hanno progressivamente ampliato libertà e diritti, a partire da quelli dei lavoratori nello statuto del 1970, delle donne con il nuovo diritto di famiglia del 1975, di tutti con le grandi leggi sui diritti civili (divorzio e interruzione della gravidanza) per citare le maggiori.
Come mai la legge 180 del 1978 anziché aprire una nuova stagione di riforme ha invece chiuso un’epoca?
E allora la prima delle domande che questa vicenda e questo libro suggeriscono (a dimostrazione di una vitalità che non si è ancora spenta, di una problematicità ancora attiva) è come mai la legge 180 del 1978 anziché aprire una nuova stagione di riforme civili abbia invece chiuso un’epoca.
Grandi e coraggiosi cambiamenti legislativi sono avvenuti in anni di rivoluzionarismi velleitari o sanguinosi (la legge sulla chiusura dei manicomi è stata approvata appena cinque giorni dopo la morte di Aldo Moro, nell’abisso più profondo di quella che sembrava la notte della repubblica); decenni di pace sociale hanno invece generato riforme piccole piccole.
È solo una delle tante riflessioni più o meno laterali che questo libro provoca. Ce n’è un’altra interessante, sul piano per così dire mitopoietico. Come mai, delle tante storie italiane, questa ha generato così tante e diverse forme di narrazione (libri,film, teatro, graphic novel e chissà quant’altro ancora)? È un segno della sua ricchezza, naturalmente. Ma anche di una sorta di fortuna di un evento che pare ancora inspiegabile, un enigma (o meglio, una contraddizione) della nostra storia nazionale che si fa fatica a decifrare e diventa dunque sempre necessario raccontare ancora.
Non è il libro definitivo, questo almanacco. Ma la sua polifonicità si avvicina davvero alle tante diverse esperienze, ai tanti e diversi linguaggi, conoscenze, punti di vista che bisogna mettere insieme per avvicinarsi a una realtà ancora aperta. Per decidere il libro più bello dell’anno in genere bisogna aspettare fin qui, ma quest’anno personalmente ho già deciso per L’istituzione inventata.
(da Internazionale.it)