È stata dirompente, e nel ricordo lo diventa ancora di più, la nascita della prima cooperativa nell’ospedale psichiatrico di san Giovanni che, da poco diretto da Franco Basaglia, cominciava ad aprire le porte. Nelle assemblee del giovedì, nella primavera del ’72, si cominciò a parlare di lavoro. Furono gli stessi internati-lavoratori, quelli dell’ergoterapia, a proporre il tema. Con una sorta di pudore chiedevano un maggior riconoscimento del loro lavoro: nei reparti, in cucina, nel grande parco, negli immensi cameroni dormitorio. Ormai, dicevano, tutti i ricoverati godono di benefici che fino a poco tempo prima solo a loro, lavoratori e lavoratrici, erano concessi: entrare e uscire dal reparto con una certa libertà, frequentare luoghi in genere vietati agli altri, ricevere la merenda in spazi appartati, al di fuori della bolgia del camerone soggiorno. 

La critica all’ergoterapia divenne quanto mai evidente. Gli internati lavoratori non avrebbero continuato a lavorare a quelle condizioni.

Non era tanto il salario l’oggetto della protesta – prima il conio di rame, la moneta autarchica del manicomio, e poi quelle poche lire che permettevano di comprare il pacchetto di sigarette alfa e la bottiglia di spuma al piccolo spaccio. Rivendicavano il riconoscimento di una loro acquisita diversità: non malati come gli altri ma lavoratori. Anche se ricoprivano un ruolo servile nella gerarchia dell’istituzione. Ricordo le voci e le parole che risuonavano nelle assemblee del giovedì: le prime affermazioni di sé che io ascoltavo nel manicomio. Una labile consapevolezza che cominciava a formarsi e che potevo riconoscere in tanti altri momenti, passaggi, lacerazioni che vivevamo. In questo senso non posso non attribuire al lavoro, alla formazione, all’inserimento lavorativo la ricerca che ha accompagnato la cultura e la pratica del cambiamento. 

E poi ci fu lo sciopero.  

Prima che fosse firmato il contratto tra l’Amministrazione provinciale e la ‘Cooperativa lavoratori uniti’ che intanto si era costituita superando ostacoli politici, amministrativi, burocratici, inimmaginabili oggi, l’assemblea del giovedì proclamò lo sciopero. La legge sulla cooperazione sociale arriverà quasi venti anni dopo (l.381/91).

Lo sciopero coinvolgeva tutti gli internati-lavoratori, ai quali si aggiungeva per solidarietà un numero crescente di infermieri. Si era creata una forte saldatura tra le rivendicazioni degli internati e quelle degli infermieri che cominciavano a richiedere mansioni più vicine alla funzione sanitaria. Come a dire “nel momento in cui i pazienti saranno riconosciuti come lavoratori, e svolgeranno a pieno titolo la pulizia nei reparti, noi potremo diventare finalmente infermieri…”. 

Il giorno dello sciopero gli internati si rifiutarono di svolgere i soliti lavori nella cucina generale, nella lavanderia, nel magazzino/guardaroba, nei dormitori; non ci furono pasti da distribuire né piatti da lavare. Lo stop ai lavori, non svolti nemmeno dagli infermieri per solidarietà, paralizzò la vita dell’ospedale; si dimostrò in tal modo che quella non era “terapia”, ma un vero e proprio lavoro, non pagato, che contribuiva a tenere in piedi l’organizzazione dell’istituzione. L’amministrazione fu costretta ad appaltare per due giorni a una ditta esterna il servizio di catering. Fu quasi una festa. Una novità assoluta.

Basaglia rimase in una posizione d’attesa: non poteva appoggiare lo sciopero degli infermieri, mentre s’impegnava con l’amministrazione provinciale e con il presidente della Provincia Zanetti per concludere al più presto la trattativa. 

Lo sciopero fu un passaggio chiarificatore per tutti noi che stavamo affrontando la questione del “lavoro dei matti”. Una spinta decisiva se la considero ora alla luce degli sviluppi successivi. Nel momento stesso della firma del contratto gli internati assumevano un’altra identità, si liberavano dell’identità unica del malato di mente: per la prima e unica volta ho visto guarire sessanta persone in un solo momento… 

Il contratto metteva in gioco ogni cosa: diritto di cittadinanza, capacità degli internati, ora persone, di stipulare un contratto nel vendere la propria forza lavoro, ingresso “impensabile” in un campo di democrazia e di civiltà.  I senza diritto astenendosi dal lavoro rivendicano il diritto a scioperare, entrano in conflitto con l’istituzione, ricominciano a essere cittadini! 

La firma del contratto porta a compimento il ciclo avviato da Basaglia dieci anni prima a Gorizia, spazza via ogni ulteriore equivoco di pedagogia istituzionale e apre il campo al percorso che sarà poi la rotta che orienterà tutto quanto accadrà dopo. Un passaggio ricco di significati, che non posso non accomunare all’uscita quasi contemporanea in città di Marco Cavallo.

Il cavallo di legno e cartapesta alto quasi 4 metri, nato nel primo reparto vuoto trasformato in un singolarissimo laboratorio condotto da Giuliano Scabia e Vittorio Basaglia, esce e si porta dietro quasi 700 internati. Il corteo che Marco Cavallo conduce è metafora della riacquisizione di una timida singolare presenza: gli internati divengono “padroni” delle proprie parole e dei propri sguardi, indecisi e timorosi, mentre si espongono allo sguardo degli altri. Quel giorno a uscire dalle mura dell’ospedale sono settecento poveri cristi che, camminando per le strade, sembrano dire “prima o poi usciremo”! Il cavallo azzurro è una metafora, allude a bisogni radicali; lo sciopero, il lavoro, è un passaggio di vertiginosa concretezza. 

Lo sciopero per il lavoro è il primo atto in cui prende forma un pensiero, e in cui la guarigione viene realizzata attraverso un vero e proprio spostamento, un’affermazione di status. Di colpo tutto ciò che si era detto e scritto ne “l’istituzione negata” – teoria dello stigma, sottrazione dei diritti, negazione dei bisogni, oggettivazione – tutto insomma si materializza in un atto di restituzione in cui la presenza del denaro, del salario riconosciuto, della pensione non lascia equivoci sul fatto che per la prima volta non siamo più di fronte a un evento simbolico o, peggio, “terapeutico”, ma a una proposta vera, concreta come di più non si sarebbe potuto.

Viste oggi, nella prospettiva storica, le scene successive sembrano perdere spessore, un tempo che si accorcia. Dopo quel momento così formidabile c’è una caduta: la stessa cooperativa che si è formata sconta subito l’eccezionalità, l’originalità della sua invenzione, l’isolamento e il deserto. Erano gli anni ’70, non era tempo di welfare, né di cooperative sociali o ‘finalizzate’. Intorno non c’è nulla: c’è la Lega delle cooperative che fa da sponda all’esperimento, e nient’altro. Il dado è tratto, non di meno qualcosa è accaduto. Anche il ruolo degli infermieri che s’impegnano nella cooperativa ai suoi esordi è formidabile, e tuttavia risente del retaggio culturale: sono infermieri bravi, avanguardie, ma formati nell’istituzione. La cultura resta in fondo paternalistica. 

Così, per quasi un decennio prevale una situazione di stallo sul fronte del lavoro. Ma se non accade niente di nuovo sul fronte del lavoro, molto accade sugli altri versanti. 

Siamo in una fase di transito “tra una casa che non c’è più e quella che non c’è ancora”, come diceva Basaglia. I Centri di salute mentale ora sono pensati e cominciano a trovare un loro posto in città. È uno sforzo che a ripensarlo oggi sembra ciclopico, una costruzione anche qui nel deserto: senza leggi, senza norme, senza punti di riferimento. 

I Centri di salute mentale (Csm) nel ’72 già fanno parte del piano programmatico della Provincia, nel ’74 cominciano a essere disegnati, nel ’75 si attestano in sedi ancora molto povere nell’urgenza di cominciare a presidiare il “territorio”, nel ’76 si strutturano meglio spazi, organizzazioni, dispositivi, finché nel ’77 esplodono, quando ormai tutto diventa più chiaro: il manicomio chiude. 

Il problema ora diventa spostare il campo dell’agire nella città. Il tema del lavoro e della cooperativa si ripropone ora con maggiore concretezza e adesione ai bisogni delle persone che vanno liberandosi dall’istituzione. È evidente che per procurare un reddito alle persone ricoverate non può essere sufficiente il lavoro che tocca solo una piccola minoranza, anche se molto numerosa. Dovevamo aprire vertenze, trattative e vere e proprie lotte per garantire un salario alle persone, il riconoscimento di una pensione minima per gli anni passati in manicomio, forme di tutela e uso delle risorse residue che pure gli internati avevano in deposito nella cassa dell’economato del manicomio. Bisognava impegnarsi nella costruzione di un reddito minimo di base, che dovrà, fuori dall’istituzione, assicurare che le persone potranno quantomeno tentare di sopravvivere, non essere immediatamente schiacciate da una condizione di disparità e di totale completa disuguaglianza.

Da un lato c’è la cooperativa, dall’altra la politica del sussidio, dall’altra ancora la ricerca della casa sia nel rapporto che si stabilisce con l’Istituto case popolari, che nei contatti che vengono avviati con i privati: una sorta di welfare artigianale. Al culmine di questa difficile ricerca per le abitazioni, nel fallimento di ogni nostro tentativo di coinvolgere gli enti pubblici, si arriverà nel febbraio del ’77 all’occupazione della Casa del Marinaio.  L’edificio, di proprietà di un ente dichiarato inutile, vuoto, era stato individuato dal gruppo di lavoro di quella zona e già erano in piedi trattative dell’amministrazione Zanetti per acquisirla. Operatori, utenti, cittadini, studenti decidono di occupare. Basaglia non aderisce. L’occupazione, che vuole denunciare la mancanza di coinvolgimento degli enti pubblici sul problema della casa e del reddito, per una settimana provoca discussioni, schieramenti, prese di posizioni politiche e sindacali, adesione degli operai della cartiera. Lo stesso gruppo di lavoro rischia di spaccarsi. Dopo una settimana, lo sgombero con l’arrivo pacifico della polizia.                                                             

L’occupazione sembra aver donato vigore e nuove motivazioni. Si apre un periodo di grande ricchezza e crescita del lavoro nel territorio. Con la legge del ’78 può dirsi completata la costruzione della rete dei servizi, Centri di salute mentale operanti sulle ventiquattro ore nella città. L’investimento sulla cooperazione sociale diventa un’idea guida. La formazione, l’inserimento lavorativo devono assumere nuovo e diverso spessore. Franco Rotelli, allora direttore, insiste sullo sviluppo della cooperativa e sembra quasi negare lo sforzo che vanno facendo gli operatori dei servizi territoriali. Si rischia una paradossale spaccatura. 

Nei primi mesi dell’ottanta il servizio psichiatrico di diagnosi e cura avvia la sua attività in stretta integrazione con i centri territoriali. Da subito porte aperte e assenza della contenzione (come peraltro accadeva in manicomio dall’arrivo di Basaglia in avanti). Nell’84 il Csm di Barcola, dove io lavoro, come gli altri centri appare già consolidato nelle sue componenti organizzative; l’équipe è impegnata sulla questione del terapeutico nell’intervento territoriale. Le modalità di risposta alla crisi e il lavoro con le famiglie sono solo i punti di spicco di una pratica molto avanzata, una riflessione più calma e profonda sulla presenza nel territorio, che ora diventa possibile. Il lavoro con gli infermieri è intensissimo: non passa giorno che non si faccia una riunione di almeno due ore in cui si discute in dettaglio tutto quel che accade, entrando in una situazione di grande risonanza e armonia. Lo spazio del servizio è abitato da molti soggetti che vi operano, ricchissimo di presenze e di scambi, e proprio in questo momento il tema del lavoro e della cooperazione sociale sembra assumere un valore dominante. 

Il paradossale “conflitto” tra quelli per la cooperativa e quelli per il centro alla lunga si sviluppò in chiave dialettica, come doveva essere, senza mai rischiare, chiudendo tutto nella questione del lavoro, di ostacolare lo sviluppo dei servizi, delle reti territoriali, del lavoro riabilitativo ed emancipativo. Non così in tante regioni dove le cooperative sociali diventarono più numerose dei servizi di salute mentale. Mentre i Csm aperti sulle ventiquattro ore ritardavano ad arrivare e nel corso del tempo non sono mai arrivati. 

Credo che nessuno di noi pensi che la terapia si faccia attraverso il lavoro; ognuno di noi ha un’idea molto più indefinibile e complicata della cura, se è vero – come prima dicevo – che la guarigione è la possibilità per la persona di ‘cambiare status’: trasformare, cioè, la propria capacità di esercitare dei ruoli socialmente riconosciuti, in cui si articolano e si differenziano i sistemi di aspettative nel rapporto con l’ambiente. In questo senso prima citavo come esemplare lo sciopero dei ricoverati del ’72: non si trattava solo di ottenere un lavoro, ma attraverso il lavoro l’accesso ai diritti di cittadinanza, il riconoscimento delle singolari soggettività.

Trovo tra le carte che sto sfogliando per scrivere questo testo il programma del corso formazione indirizzato a pazienti giovani che per qualche tempo si è realizzato in quegli anni: “Villa Prinz. Laboratorio permanente per la pratica della cittadinanza”. 

“Villa Prinz” è un percorso formativo e abilitativo rivolto a persone che hanno avuto, hanno o hanno superato problemi di sofferenza mentale. Che essi diventino attori e protagonisti del loro successo è l’idea che sostiene il corso.

Chi ha vissuto la sofferenza mentale, chi per un momento della sua vita ha perduto il contatto con la realtà, chi si è sentito irrimediabilmente sconfitto o al contrario onnipotente vincitore, chi ha sentito il mondo ostile e nemico, chi si è visto costretto a rinunciare per questa e per altre ragioni ai suoi sogni, ai suoi progetti ha dovuto imparare a costringere la sua inquietudine, ad annullare la sua curiosità, a cancellare la sua creatività, a rinunciare alle relazioni.

Dopo esperienze di tal genere si trova il vuoto intorno. Gli strumenti culturali si sono impoveriti. Si fa fatica a leggere la realtà. Si è distanti dai luoghi dello scambio e delle relazioni.

Il linguaggio, le capacità comunicative, le abilità lavorative si sono ristrette o non sono più adeguate.

Il programma Villa Prinz vuole prestare attenzione a questo momento particolare e cercare di dare valore alla fatica quotidiana (del vivere), di non tradire le aspettative, le attese che ancora resistono.

Il corso vuole scoprire strumenti per leggere la realtà intorno a noi, costruire opinioni proprie, cercare assieme agli altri il coraggio per schierarsi.

Sopportare il conflitto che è nelle cose e nelle relazioni.

Avere consapevolezza della propria realtà, della propria storia, dei propri limiti è di per sè un elemento che genera capacità nuove, risorse utili per raggiungere la propria indipendenza, identificare un proprio stile di vita e il piacere della comunicazione.

Quel che a Trieste cominciò a realizzarsi con l’emancipazione delle persone, sarebbe stato impensabile al di fuori di tutto il corteo dei percorsi educativi e formativi, le borse di formazione/lavoro, i valori d’uso messi in gioco nei laboratori espressivi, gli spazi e le attività informali. 

Credo sia questo il punto: il lavoro (in quanto idea-lavoro, obiettivo-lavoro, polo-lavoro) ha contribuito ad aprire un campo di tensione molto ampio. Lo spettro delle possibilità si è esteso negli ultimi anni. Non è più una dicotomia: tra servizi e cooperative, tra malato/disoccupato e sano/lavoratore. È un campo molto largo di tensioni identitarie, che va dalla cura di sé, al saper usare la scrittura, il linguaggio, l’espressione, alle piccole attività di formazione che orientano alla possibile acquisizione di capacità per affrontare l’incontro con il lavoro vero e proprio. Nuove identità possibili emergono, la piatta identità del “malato di mente” tende a sbiadire. Non credo si debba caricare il lavoro di aspettative risolutorie, ma che costituisca uno dei passaggi centrali del percorso di rimonta o, se vogliamo dire così, della guarigione…