“La memoria sia coltivata. Ciascun paese ha il dovere di ricordare la propria Storia, di non cancellare le tracce delle sofferenze subite dal proprio popolo“. (Giorgio Napolitano)
La storia di Romildo. Autobiografia
“Sono andato via da casa mia. Pensavo che mai sarei andato via da casa. Ho quattro sorelle e due di queste erano già partite per l’America. Ma non andavo d’accordo con mio padre e sono andato via. Ho detto: «Vado via. Magari morirò, ma vado via». E sono andato. Sono venuto qui, a Trieste, in Italia, nel ’56 e poi sono emigrato, l’8 marzo del ’57, nel Canada e, come sono arrivato in quel paese, mi ha colpito questa malattia. Quando stavo male pensavo a quello che avevo detto prima di partire — magari morire — ma non avevo previsto una disgrazia simile, che mi faceva soffrire ed è certo peggio che morire. Sono nato a Smarje v Kopru, Monte di Capodistria, ho quattro sorelle e avevo due fratelli che però sono morti bambini.
Mio padre faceva il contadino. Da bambino portavo a pascolare le vacche finché non sono diventato forte, portavo a pascolare le vacche finché non sono stato considerato in forza per lavorare la campagna, la terra. Me la passavo portando al pascolo le vacche tutto il giorno. Dopo, che sono venuto un po’ più robusto, sono andato con mio padre in campagna a zappare. Zappavo con la zappa e la terra non mi cresceva così come cresceva a mio padre. Mio padre mi diceva: «Ma cosa fai, la terra la mangi invece di zapparla?».
Questo accadeva perché non ero ancora in forza, ero ancora un ragazzo e non riuscivo a fare come mio padre. Ma dopo che sono di¬ventato più grande, la terra mi cresceva come a lui, anzi io facevo dei solchi grandi come si fanno col trattore.
Avevo 21 anni che sono andato via. Avevamo ragione tutti e due, sia io che mio padre, ma non andavamo d’accordo. Siamo uomini di montagna, duri, uomini di fatica, troppa fatica; io stanco, lui stanco e tutti e due avevamo ragione. A mio padre piaceva bere, il nostro vino, si capisce, vino della nostra terra, il vino che facevamo noi. Spesso a sera era ubriaco. Io, ormai ero grande, volevo cominciare a fare le cose di testa mia, ero diventato un bravo contadino. Adesso mio padre è morto, ma io sono qui.
E così sono venuto a Trieste nel gennaio del ’56 e l’8 marzo del ’57 sono partito per il Canada. In Canada ho fatto il manovale. Ero con altri slavi e italiani in una “farm”, una fattoria a sedici chilometri da London, no Londra, London, in Canada. Lavoravamo in questa fattoria, ma la paga era misera, e allora un mio amico mi ha detto: «Vuoi che andiamo via? Andiamo a Toronto, conosco gente». «Sì, andiamo via», gli ho risposto.
E siamo partiti. Il mio amico aveva qualche conoscenza.Siamo arrivati alla stazione centrale di Toronto. Alla stazione non c’era nessuno. Più tardi è arrivato, finalmente, un amico a prenderci e ci ha detto: «Conoscete qualcuno qui? Sapete dove andare?». «No, non sappiamo, non sappiamo niente», abbiamo risposto.«Sapete cosa posso fare io? — ha detto — posso portarvi dal prete della chiesa slava. Vi saprà dire, vi troverà un posto per dormire».
E così ci ha portati dal prete della chiesa slava di Toronto. Per fortuna abbiamo trovato una lontana parente del mio amico che abitava col “nonzolo”, il sacrestano.Il prete ci ha pagato il taxi e ci ha indirizzati a casa del sacrestano. Dal sacrestano abbiamo dormito per una settimana, uno per terra e uno su di un divano. Poi abbiamo trovato una donna, slava anche lei, che ci ha affittato una cameretta. Abbiamo trovato un lavoro. Lavoravamo per una ditta che trattava asfalti. Dopo poco, due o tre mesi, mi sono ammalato. Sono arrivato a Toronto in agosto e a novembre mi sono ammalato, sono andato in ospedale.
Mi ha colpito un male strano, non riuscivo a mangiare, non riuscivo più a dormire. Mi sentivo uno strano prurito per tutto il corpo, mi sentivo pizzicare, mi sentivo toccare dappertutto. Sono entrato in un bar, mi sentivo pizzicare, allora ho cominciato a strisciare con furia, come un ossesso, sulle pareti del bar e per terra. Avevo addosso la corrente elettrica.
«Cosa succede?», ha detto il padrone del bar che ha telefonato alla polizia. La polizia mi ha preso e mi ha portato in ospedale.Ho passato una notte in ospedale. In ospedale mi hanno visitato da capo a piedi con tante macchine. Al mattino dopo mi hanno mandato via. Sono andato via, ma stavo ancora male. Non andavo a lavorare perché stavo male. Dopo alcuni giorni mi sono ricordato che dovevo incassare ancora la paga e allora sono andato dal padrone. Il padrone mi ha dato quello che mi doveva e, in inglese, mi ha detto: «Perché non vieni più a lavorare? Sei un bravo lavoratore tu».
«Sto male — gli ho risposto — sto tanto male».
«Si vede che stai male, sei molto malato». Ha chiamato un me¬dico e mi ha fatto ricoverare al frenocomio di Toronto.
Al frenocomio, che è il manicomio, sono rimasto alcuni mesi. Ero scombussolato, come ubriaco. Non capivo niente. Mi hanno fatto l’ elettroshock e sono stato subito bene per una settimana, non mi ri¬cordavo niente, come niente fosse accaduto prima. Poi di nuovo male, di nuovo mi ha preso la malattia.
Dal frenocomio di Toronto mi hanno rispedito direttamente a Trieste. Direttamente qui al manicomio, all’ospedale di San Giovanni. Sono arrivato al porto con la motonave “Saturnia” e con l’ambulanza al manicomio. Il viaggio di ritorno è durato quindici giorni. C’era una cabina per i malati che, come me, tornavano indietro e un marinaio che faceva la guardia notte e giorno. Stavo proprio male, tanto male”.
Dopo la seconda guerra mondiale e fine a tempi recenti, il confine che si attraversava non era un confine tra due paesi ma tra due culture, due modi diversi di intendere. La guerra fredda, allora, segnava in modo particolare il territorio e le popolazioni di Trieste e dell’Istria.
Lo stesso ospedale psichiatrico dove cominciammo a lavorare nel 1971, conteneva al suo interno il segno drammatico di quella storia. Tanti internati provenivano dai territori istriani e dalmati, con percorsi simili avevano lasciato il loro paesetra il ’44 e il ‘64, in condizioni e con tribolazioni inenarrabili, avevano trovato ospitalità nei campi profughi a Trieste, erano partiti per il Canada, l’Australia e gli Stati Uniti dopo il Memorandum di Londra del 1954. Altri avevanoaccettato di restare trovando casa nei villaggi, i borghi istriani, costruiti dal niente alla fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta: Borgo San Mauro, Borgo San Quirico, il villaggio del Pescatore. Alcuni, come annientati dalla nostalgia, erano rimasti sospesi in un’attesa senza fine. Erano restati nei campi e di qui in ospedale psichiatrico.
Altri, forse i più sfortunati di tutti, sembrava fossero sfuggiti al dolore della lontananza, erano riusciti a imbarcarsi. Dal transatlantico “Saturnia” come tutti avevano salutato la folla dei triestini accorsi alla stazione marittima. Si erano ammalati nei paesi di emigrazione e di lì erano tornati. Chiusi nell’infermeria del “Saturnia”. Destinazione Trieste. Manicomio di San Giovanni.
di Peppe Dell’Acqua