Lettera di Peppe Dell’Acqua
novembre 2021
Care amiche e amici,
e care compagne e compagni di strada, che questa piazza, per una ragione o per l’altra, avete frequentato, devo comunicarvi che è difficile, se non impossibile continuare a gestire il sito (e le conseguenze politico – culturali che ne derivano), senza una condivisione con voi.
Come ho già detto nel corso dell’ultimo anno, sono rimasto pressoché solo a gestire il sito, ma anche a rispondere agli inviti e alle richieste di collaborazione che vengono da più parti. Al punto in cui siamo, se da un lato sento la necessità che il Forum, in tutte le sue dimensioni – intendo sia come blog di riferimento, sia come luogo di discussione, dibattito e articolazione di movimento – di ri-costituire, dall’altro sono sommerso dall’inquietudine della solitudine che sento appartenere un po’ a tutti.
I motivi sono tanti. Di stanchezza sicuramente (e un po’ di salute), ma non solo. «Sono rimasto col cerino in mano» più volte vi ho detto, ridendo e scherzando.
Il punto è che alla buona volontà di pochi per tenere vivo il sito del Forum non corrisponde una reale presenza delle nostre interrogazioni nei luoghi di lavoro, nelle associazioni, nelle cooperative sociali, nelle scuole di formazione. La Conferenza Nazionale che intanto è nata, è cresciuta e svolge un lavoro preziosissimo, non riesce a provocare, cosa non facile, interrogazioni sul senso, sulle radici, sulla dimensione etica e politica del lavoro che abbiamo avuto la fortuna di incontrare e di scegliere. La dimensione critica dei saperi e delle pratiche della psichiatria va scomparendo dal lessico di tutti gli operatori che, anche con lodevole sollecitudine, frequentano questi ambiti.
Osservo una frammentazione molto profonda e la piazza del Forum non riesce più a essere il luogo d’incontro, di discussione, di ri/composizione che avevamo immaginato potesse diventare. Anche se per un certo tempo si è posto come un credibile punto di riferimento.
Gli operatori della psichiatria (e della salute mentale?) non frequentano questa piazza, e semmai avessimo avuto l’intenzione di offrire uno spazio di discussione e di crescita per i giovani che si accingono a questi mestieri, dobbiamo riconoscere che i luoghi sono altri e drammaticamente distanti da noi.
Questo mestiere, il mestiere della cura, pretende una radicale e rischiosa scelta di campo, esige di prendere parte, di accettare l’incertezza e di vivere quotidianamente il conflitto. Nella solitudine e nella frammentazione è difficile, specie per i più giovani scegliere, resistere all’omologazione, al richiamo dell’indifferenza e alle suggestive certezze delle psichiatrie delle distanze, delle garanzie, delle pericolosità. E finire per disconoscere, nella smemoratezza generale, le ragioni del nostro agire, delle scelte di campo.
Mentre vi scrivo, mi torna in mente insistentemente un detto popolare: «non si fanno le nozze con i fichi secchi». Infinite volte ho sentito queste parole alla fine delle assemblee con familiari, operatori, cittadini volenterosi. Senza luoghi adeguati e dignitosi – dicono – senza percorsi formativi sensati, con una endemica carenza di personale e di fronte all’evidente povertà di mezzi e di danari e di prepotenti e insensibili politiche regionali, non si va da nessuna parte. E così aspettando i fichi maturi e l’arrivo delle risorse e di buone politiche, le nozze non si fanno e gli sposi invecchiano e si lasciano e incupiscono e prendono altre strade. E ognuno si ritrova a difendere, pauroso, il proprio misero spazio dalla presenza dell’altro, mentre i territori delle aziende sanitarie diventano sconfinati e i dipartimenti e le organizzazioni, tra accorpamenti e fusioni, si trovano spaesati in circoscrizioni sconosciute, segnate con un tratto di matita sulla carta da amministratori con alta formazione manageriale (?), di fatto impediti a pensare a forme anche rudimentali di integrazione. Come abbiamo potuto non vedere la distruzione nei fatti e la negazione feroce di un pensiero che vuole immaginare contesti di dimensioni umane e conoscibili, luoghi di relazioni e di vicinanza, dove sia possibile sostenere visibilità, appartenenza, protagonismo dei soggetti, dei più fragili? Cominciammo a progettare e lavorare privilegiando la “piccola scala”, in grandi territori urbani o periferici, piccole città o aggregati di comuni anche con la finalità di riconoscere i bisogni “veri”, denunciare le diseguaglianze, promuovere malgrado la “malattia” una vita buona. Perché altrimenti, avremmo pensato al Centro di salute mentale 24 ore? Perché ci saremmo impegnati far crescere gruppi di lavoro multidisciplinari dove l’incontro ravvicinato e quotidiano degli operatori garantisse conoscenza, condivisione, reciprocità? La dimensione affettiva, dicemmo! Perché avremmo conosciuto, coltivato e attribuito valore etico, politico, disciplinare alla dimensione affettiva del gruppo di lavoro?
Oggi nelle sconfinate terre dei Dipartimenti accade che infermieri, riabilitatori, cooperatori, assistenti sociali, psichiatri, psicologi non si conoscano, e ognuno arrangia nella solitudine la sua crescita culturale, le scelte formative o la fine di qualsiasi interesse, impedito a ogni salutare confronto. Che io sappia, in pochissimi dipartimenti (forse nessuno) resiste la riunione quotidiana del gruppo di lavoro.
La dimensione amorosa, soggettiva, utopica e un po’ sognante si è andata perdendo. E con essa non c’è più traccia del senso di appartenenza di quell’attenzione etica, politica e umana che avrebbe dovuto essere l’interrogazione dominante nei luoghi dei nostri mestieri.
A nulla serve credere che i fondi europei mobilizzeranno l’apatia e l’indifferenza dominante.
La pandemia, che invochiamo a causa e giustificazione di ogni cosa, poco condiziona le questioni di cui cerco di parlare, che vengono da molto più lontano. La distanza e lo sguardo raggelante delle psichiatrie e delle psicologie condiziona le scelte culturali e operative di tutto il mondo dei professionali, domina il campo, e le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale continuano a essere obbligate a trattamenti stupidi, inutili se non dannosi.
La pratica della contenzione non è mai stata abbandonata, anzi i “legatori” vengono allo scoperto e rivendicano con parole gentili dignità alle loro orrende pratiche. La presa in carico, i progetti personalizzati, il sostegno all’abitare i piccoli e piccolissimi gruppi familiari, dovrebbero rappresentare la potente alternativa alle modalità burocratiche e de-soggettivanti che dominano le (cattive) pratiche nella quasi totalità dei dipartimenti di salute mentale.
Per fortuna un po’ dappertutto, momenti di resistenza, di consapevolezza e di buon lavoro riescono a tenere viva la possibilità di un cambiamento ulteriore, della terza rivoluzione.
Basterà, care amiche e amici, continuare a parlare di budget di salute, di Lea, di fondi europei e così via? Per ora mi fermo qui.