Articolo di Vanessa Roghi , storica, lavora a Rai Tre per La Grande Storia. È autrice di “La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro il potere delle parole” (Laterza 2017).
Il 13 maggio ricorrono i 40 anni dall’approvazione della cosiddetta Legge Basaglia (legge 180): da giorni si susseguono sulla stampa commemorazioni e ricordi, spesso commoventi, che tendono a isolare come irripetibile la grande rivoluzione compiuta nel 1978, ma il rischio è che, come in ogni anniversario, malgrado i numerosi approfondimenti, la “legge che ha chiuso i manicomi” rimanga inchiodata alla sua icona, la sequenza di un film epico o tragico a seconda di chi lo racconta perdendo così la sua funzione più importante e radicale: quella di essere, ieri come oggi, il metro su cui misurare la mutabilità del concetto di follia e la nostra possibilità di prenderci cura della malattia mentale, come corpo sociale, nella sua interezza. La 180 infatti ha resistito perché ha incontrato i bisogni di una società in trasformazione, ma anche perché è stato possibile interpretarla in maniera restrittiva, come un provvedimento dedicato ai soli “matti”.
Vorrei provare, dunque, a superare l’ingorgo celebrativo per riportare alla luce alcune questioni nevralgiche che mi stanno a cuore, come storica, ma soprattutto come essere umano, come avrebbe detto Franco Basaglia, perché il fantasma del manicomio continua ad aleggiare nella società, la contenzione è praticata, l’elettroshock pure. E gli psicofarmaci sono diventati il nuovo manicomio chimico.