Come cominciare se non dicendo che la soglia è la negazione delle porte chiuse e di tutte le forme di contenzione. Penso al centro di salute mentale come l’ho visto nascere. Il centro di salute mentale che negando quotidianamente la sua pretesa natura sanitaria diventa un luogo di transito, una piazza, un mercato. Un luogo intenzionato a favorire lo scambio, l’incontro, il riconoscimento reciproco. Ad accogliere con cura singolare. Un luogo che vuole vedersi abitato non (soltanto) dai “pazienti”. Un luogo che progetta, costruisce e cura un suo dentro senza mai perdere di vista il fuori. Anzi è l’attenzione ossessiva al fuori che pretende la cura del dentro.
Tra il dentro e il fuori si disegna una soglia che definisce il luogo dell’incontro, dell’ascolto, dell’aiuto, della terapia, in una sorta di contiguità tra la casa delle persone, gli spazi del rione, i luoghi collettivi, il centro di salute mentale. La soglia è il luogo. Progettare e costruire un centro di salute mentale significa proprio questo: praticare, abitare, attraversare la soglia.
Un luogo bello, accogliente, confortevole che coltiva la vocazione a essere punto di passaggio, confine, attraversamento. Che si dispone instancabilmente tra lo star bene e lo star male, tra la normalità e la anormalità, tra il regolare e l’irregolare, tra il singolo e il gruppo, tra le relazioni plurali e la riflessione singolare, tra gli spazi dell’ ozio e gli spazi dell’attività.
Un luogo dove le dichiarate intenzioni terapeutiche e le scelte strutturali, costruttive, urbanistiche garantiscono le persone a essere ospiti senza rinunciare alla possibilità di appropriarsi del luogo. Un luogo che contrasta la sottomissione e l’assoggettamento. Un luogo dove le persone, senza la paura del confine che si chiude alle loro spalle, possono entrare per dire il proprio male, farlo sentire, condividerlo. Un confine aperto che garantisce sempre e prima di ogni altra cosa il ritorno.
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