Il luogo della cura non può essere che il luogo dell’accoglienza di chi si trova a vivere una condizione di acuto dolore, a fronteggiare l’abisso del terrore, il gelo delle emozioni, il deserto delle relazioni, a controllare con fatiche impensabili voci paurose e suadenti, visioni angeliche e diaboliche.
Un luogo buono quando si dispone, si apre, si prepara ad ascoltare, a vedere, a comprendere, a produrre vicinanza, calore, a confortare una persona nel momento dell’esperienza più dura che possa fare nel corso della sua vita. Un luogo buono se è capace sempre di considerare la persona (in relazione alla malattia). Un luogo cattivo quando si attrezza a registrare sintomi, comportamenti, atteggiamenti. Quando riproduce distanze, si chiude, sequestra e contiene. Quando a dominare è la psichiatria, è l’occhio che non vede e l’orecchio che non sente. Quando a condizionare ogni cosa è la malattia, la malattia pericolosa, la malattia incomprensibile, la malattia imprevedibile, la malattia fastidiosa. Quando la disperazione lacerante, l’euforia incontenibile e clamorosa, la malinconia assoluta, il rancore sordo, la rabbia impressionante perdono il loro significato “umano” e costringono l’altro, la persona, a oggetto. La malattia cancella la persona e diventa minaccia, rischio, necessità di attrezzare difese, edificare confini, sottrarsi al confronto. Un luogo cattivo dove si riproducono le peggiori pratiche manicomiali e che giustifica prevaricazioni, mortificazioni, impensabili violenze. Sono questi i luoghi della resistenza di una psichiatria che fa fatica a rinnovarsi malgrado il cambiamento avvenuto nel nostro paese abbia portato sulla scena le persone.
Persone che, possono parlare, dare significato alle loro emozioni, pretendere di essere ascoltate per quello che sono, finalmente orgogliose del diritto riconquistato. Persone che pretendono di essere viste e non scomparire dietro la malattia. Persone.
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