Gianni Saporetti intervista Furio Di Paola
La salute mentale oggi e le sfide che Basaglia pose alla psichiatria. Con poche eccezioni, si è tornati a ‘legare’ e si usa lo psicofarmaco come ‘camicia di forza chimica’. L’asservimento della ricerca clinica alle grandi case farmaceutiche. Si può e si deve tornare alle pratiche di cambiamento dal basso, e imparare dai movimenti auto-organizzati degli utenti.
(da UNA CITTÀ n. 96 / 2001 Giugno)
Furio Di Paola, ricercatore nell’Università di Napoli, si è occupato di ricerca e formazione nel campo della salute mentale. Ha scritto L’istituzione del male mentale. Critica dei fondamenti scientifici della psichiatria biologica (manifestolibri, Roma 2000).
Vorremmo fare il punto sul problema “psichiatria”. Da dove cominciamo?
Dobbiamo cominciare, credo, col parlare di una fitta nebbia, diversi strati non solo di pregiudizi ma di cattiva informazione, che impediscono di vedere il problema nei suoi contorni nudi e crudi. Il “problema” sarebbe la follia e la sua presunta cura – cioè le due cose insieme: follia e psichiatria, “malattia” e rimedio. Non è per niente facile che un cittadino, anche informato su altre questioni civili, si trovi in condizione di attraversare gli strati di nebbia che avvolgono il “problema”.
I luoghi dove la follia è “trattata” ovvero è gestita – parlo di luoghi non solo in senso fisico, ma anche mentale, culturale – i luoghi dove si producono i metodi, le tecniche, le parole stesse con cui le nostre società affrontano il problema, sono posti appartati e strani, esoterici. Voi avete un’idea di cosa si fa dentro un reparto ospedaliero “specializzato” per il problema (viene detto Spcd, “Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura”), o dentro una “residenza protetta”, oppure in un siddetto reparto di “riabilitazione” di una clinica privata?
Qualche idea vaga…
Ecco, ma a riguardo vorrei fare un esempio molto istruttivo. Una storia “ordinaria”, ma densa di insegnamenti perché qui c’è un cittadino che un giorno viene a contatto con l’ “arcano” dei servizi psichiatrici, e decide di raccontare puntualmente che cosa ha visto e sentito. Per fortuna il settimanale Diario ha l’intelligenza di pubblicare la lunga e precisa testimonianza (Luca Fontana, Matti da rilegare, in “Diario” del 24 novembre 1998). Fontana racconta di un suo caro amico, che a un certo punto vive uno di quegli scompensi emotivi che portano a un “episodio delirante”, e viene ricoverato al Spdc dell’ospedale di Parma. Dopo due giorni lo va a trovare e lo trova stravolto, in preda a contrazioni involontarie degli occhi e della faccia, sbava, non riesce a reggere la testa (sono alcuni degli “effetti collaterali” dei neurolettici, i farmaci più usati nei servizi psichiatrici, detti anche “antipsicotici”): tanto che devono portarlo via per fargli un miorilassante per rimediare all’eccesso di psicofarmaci. Fontana fa notare allo psichiatra, con cui aveva parlato in precedenza trovandolo “cortese e scrupoloso”, che il suo amico è ipersensibile a ogni sostanza psicoattiva, pure a un bicchiere di vino, e che “forse si era un po’ ecceduto col dosaggio degli psicofarmaci”. Lo psichiatra accetta l’osservazione e dispone per l’immediata riduzione dei dosaggi. Comunque l’amico la sera stessa sta meglio e il giorno dopo viene dimesso (dal racconto si capisce che aveva avuto una crisi di quelle lievi e che rientrano rapidamente).
Ma ciò che sconvolge il nostro testimone è che l’amico ha ecchimosi su corpo, polsi e caviglie, e racconta che lo hanno tenuto legato al letto per un giorno intero “come un animale”, dopo averlo assalito in “circa una mezza dozzina”, e con lo psichiatra (quello cortese e scrupoloso) che gli teneva ferma la testa e diceva: “se parli, ti slego!”. Apprende anche che adesso i lacci per legare si chiamano, con termine gentile, “le fascette” (come dire, commenta, “le manettine”). Il Fontana naturalmente s’indigna e chiede spiegazioni in giro a vari psichiatri che conosce, in Emilia e in Lombardia, ottenendo una risposta unanime (otto su otto, precisa, e tutti sedicenti “di sinistra”): la pratica del legare le persone è definita “cosa del tutto normale, necessaria routine assolutamente giustificata e giustificabile”.
A questo punto va nel pallone pure lui, non sa più cosa pensare ma proprio perché non è affatto uno sprovveduto, anzi. Racconta infatti di aver fatto, circa trent’anni prima, il volontario con Basaglia, di aver partecipato alle lotte che trasformarono tutta la concezione dei “trattamenti” psichiatrici, e proprio nelle esperienze-pilota che poi portarono alla chiusura dei manicomi (Gorizia, la stessa Parma, Trieste). Ma ora scopre che non è cambiato nulla, si chiede se questa “regressione a trent’anni fa” vale anche nel resto d’Italia, non sa più cosa pensare, si dispera. S’incolpa persino di non aver seguito di più, in tutti questi anni, la vicenda psichiatrica. Ma per fortuna non si dà per vinto, scrive una prima lettera di protesta e infine telefona a Rotelli (leader storico dell’esperienza di Trieste dopo la morte di Basaglia) e gli chiede: “Ma da voi li legate?”. Risposta: “Ma vuoi scherzare?!”. Racconta che a quel punto si scioglie in lacrime. E poi, dopo i diversi ragguagli che riceve circa il “disastro organizzativo” dei servizi emiliani (e di altre regioni) e su come si organizzano le cose a Trieste, ritrova finalmente almeno un senso, anche se negativo, a quanto è accaduto al suo amico e a lui. Chiede infine a Rotelli, che assente, se può mettere tutto per iscritto: e nasce questo testo di denuncia, che si chiude con un appello al ministro di allora Rosy Bindi. (Ho cercato di riassumere fedelmente il testo, ma la sua importanza sta anche nella ricchezza dei dettagli, di cui questa sintesi non rende conto).
Ecco questa storia ordinaria, che potrebbe capitare a chiunque di noi, dice molte cose. Non solo l’ottusa brutalità di certi comportamenti che avvengono nei cosiddetti servizi di “salute” mentale, ma anche altre due cose che c’interessano subito. Primo, lo sconcerto, il non capirci più niente, dell’amico che trent’anni fa aveva conosciuto il movimento basagliano, e che poi non ne ha saputo più niente fino a riscoprire, un bel giorno, che “nulla è cambiato”. Secondo: la risposta di Rotelli, che alla domanda “se a Trieste si lega” ribatte: “ma vuoi scherzare?”. Per uno che risponde così è ovvio, scontato, che quei metodi debbano essere finiti per sempre, come lo è per chiunque conosca dall’interno le poche isole, sparse per il mondo, in cui per fortuna esiste una cultura almeno decente in questo campo. Mettete insieme queste due cose, e vi rendete conto di cosa intendevo dire parlando di fitta nebbia che avvolge la questione, e della distanza davvero abissale che c’è tra la percezione del problema visto dall’esterno, e quella che si può avere dall’interno.
Tu dici che nella maggioranza dei casi è avvenuta una specie di restaurazione, e che c’è uno scollamento con certe minoranze critiche, che magari sono state “avanguardie” nelle lotte per cambiare le cose?
L’esempio di cui sopra dice anche questo. E del resto questa situazione vale un po’ ovunque nel mondo, pur nella notevole varietà delle storie e culture locali. L’anno scorso in Inghilterra, ad esempio, ho sentito uno psichiatra, che aveva lavorato anche negli Usa e in Australia, che riassumeva così la situazione: “Oggi in salute mentale il medioevo e il terzo millennio convivono fianco a fianco, a volte in una grande città basta spostarsi da un quartiere all’altro…”. E si stava discutendo del cosiddetto diritto di tutti i cittadini alle pari opportunità di cura, il che in salute mentale resta una favola nonostante l’ingente produzione di trattati sulla “valutazione” della qualità dei servizi, e cose simili.
Ma le cose stanno così, ed è difficile trovare altri campi in cui la distanza tra parole e fatti sia maggiore. E appunto al cittadino che non conosce gli arcani di quel mondo, può capitare che gli si rivelino tutt’a un tratto, dalla sera alla mattina: ma le probabilità che ha di cadere in una realtà squallida se non barbarica, o “rimodernata” nella facciata ma squallida nei fatti, sono molto maggiori di quelle d’incontrare una realtà decente.
Ma come si è arrivati a questa situazione?
Non è facile rispondere in breve, gli elementi in gioco sono molti, la “salute mentale” è un microcosmo che riflette, concentrate e acutizzate, tutte quante le contraddizioni del macrocosmo sociale. Ma intanto una cosa va detta subito. La questione della “percezione sociale” della follia o malattia mentale, di come si costruisce e alimenta e diffonde tale percezione, fino alle credenze che appunto può averne il comune cittadino, è una faccenda che va ben al di là della “divulgazione” di un presunto sapere specialistico. Prima di questo c’è la questione molto concreta e basilare, persino fisica, che è l’esistenza di veri e propri mondi separati, frutto di barriere secolari. Barriere che a tratti, in certe particolari congiunture storiche, sono cadute – e di ciò può restar traccia nelle “isole” – ma per poi riformarsi su larga scala, tanta è l’inerzia di un sistema di pregiudizi che ha radici remote, e profonde.
Perciò si tratta di capire, in primo luogo, chi lavora per alzare muri e chi per abbatterli. La lunga fatica che portò Basaglia in una quindicina d’anni (dall’arrivo a Gorizia nel ‘61 alla chiusura del primo manicomio, a Trieste nel ‘77) a rivoluzionare le basi dell’ “assistenza psichiatrica” in Italia, una sequela di distruzioni e ricostruzioni quotidiane, lucchetti e cancelli da abbattere e spazi nuovi da inventare (fisici e mentali insieme, ripeto), entro un campo di conflitti e aperture di esistenze sempre rinnovati, fu uno straordinario processo di “formazione” a tutto campo, di riapprendimento collettivo. (Per tutti, evidentemente: ex-reclusi mentali che ricominciavano a vivere, ed ex-custodi mentali che dovevano smontare i propri ruoli e le precedenti “certezze”). Ma le energie e le motivazioni si moltiplicarono anche perché, come Basaglia diceva, lui si era circondato “di giovani non ancora corrotti dalla psichiatria”: in pochi nell’esperienza precorritrice di Gorizia con Pirella, e poi in un crescendo (dopo il ‘68, anno in cui esce il manifesto del movimento, L’istituzione negata) a Trieste, dove è passata davvero una generazione di volontari, studenti, dottorandi in medicina o psicologia, e ancora giovani tirocinanti da varie parti del mondo, Brasile, Argentina, Nordeuropa.
Tra le frasi celebri di Basaglia, ce n’è una esemplare, che fu criticata perché sconveniente sul piano dottrinario. La frase era “venite a vedere!”, rivolta a chi non credeva possibile la soppressione del Manicomio, cioè dell’istituto per eccellenza della segregazione e della separazione (tra “normali” e “folli”). Quella frase significava in realtà molte cose: non solo il fatto che non c’era tempo e modo di scrivere trattati mentre si cambiavano le ruote del treno in corsa; ma la sfida, la pro-vocazione, a confrontarsi in vivo con gli atti concreti, materiali, con la mobilitazione in tutti i sensi (di persone, comportamenti, mentalità, risorse viventi …) che è stata alla base della soppressione del Manicomio. Per dirla in breve, Basaglia non si è mai illuso che senza questo “contagio”, senza una simile mobilitazione, le cose avrebbero potuto funzionare. E quando, all’indomani della “vittoria” politica rappresentata dalla legge (la “180” del maggio 1978, che in seguito avrebbe preso il suo nome: prima e unica legge di stato al mondo che “vieta” i manicomi), metteva in guardia da ogni trionfalismo, intendeva proprio questo: non illudersi che il “contenitore” giuridico-formale (pur importante sul piano civile e simbolico) avrebbe potuto surrogare l’impegno sul campo a trasformare la “microfisica del potere”, anzi dei poteri in gioco, una volta che la partita si sarebbe spostata “sul territorio”. Bisogna rileggersi i testi dell’ “ultimo Basaglia” – brani registrati, dialoghi, interviste, tracce di ricerca, come in un febbrile riattraversamento di quanto fatto; in quel breve intervallo, poco più di un anno, tra il dopo-legge e la malattia che lo avrebbe portato via, nel 1980 – per rendersi conto della lungimiranza con cui vagliava le potenzialità e i rischi della nuova situazione. E tra i rischi di allora, ci sono i fatti di oggi, ciò di cui stiamo dicendo: la questione dell’inerzia socioculturale che gioca contro, che ricrea le barriere, e rigenera il pregiudizio infranto.
Vuoi dire che dopo è venuta meno quella cultura diffusa, al di là delle “isole” di cui parlavi?
In parte sì, e quel che ho detto è una contrazione, un crampo mentale. Ma corrisponde allo shock che è capitato alla persona dell’esempio fatto prima, che credeva di serbare una cultura e se l’è vista sconfessata in un istante. Per stemperare questo “crampo”, bisognerebbe sviscerare cosa è successo in questi venti anni, come è cambiato tutto il clima culturale, e gli assetti istituzionali, che avvolgono la questione specifica che oggi si chiama “salute mentale”. C’è stata, per cominciare, la grande cesura degli anni Ottanta, macroprocessi che hanno inciso a fondo nel “ricambio generazionale” (a cominciare dall’offerta formativa, in particolare universitaria, per psichiatri e operatori). E non si può scordare che thatcherismo, yuppismo e poi “globalizzazione” sono entrati anche in psichiatria, basta andare a un convegno ufficiale di psichiatri per rendersene conto: prima dovete districarvi nella kasbah di bancarelle (gli “stand”) delle varie case farmaceutiche che sbarrano l’accesso, e riuscire a salvarvi dai “promoters” o vallette sorridenti che vi riempiono di brochures formato lusso, che vantano ciascuna la “nuova cura” per schizofrenia o depressione, con dati e grafici che mostrano la superiorità del farmaco di casa rispetto a quello della bancarella accanto; poi dovete passare per i cosiddetti “simposi satellite”, nome curioso per i numerosi seminari in cui certi ricercatori sponsorizzati presentano i dati a sostegno del nuovo farmaco di turno (sembrano quei meeting di casalinghe americane, con l’addetto del marketing che fa la dimostrazione del nuovo aspirapolvere); e infine se non vi confondete raggiungete una sala dove si tiene una discussione scientifica “vera” su dati o modelli non direttamente sponsorizzati.
Sulla “scientificità” di tali dati o modelli diremo poi, ma intanto c’è l’altro dramma ben noto, la “parabola” della cultura siddetta di sinistra che va a rimorchio delle “novità” tecno-modellistiche d’oltreoceano: ciò che Basaglia con puntuale preveggenza chiamava le “ideologie di ricambio” di cui l’istituzione psichiatrica si sarebbe servita, per tamponare o richiudere a suo modo le contraddizioni reali che il movimento apriva. Su questo punto c’è per fortuna qualcuno che tiene il filo della memoria: leggete il recente Il problema psichiatrico (Pistoia, 1999) di Agostino Pirella, l’amico e compagno di sempre di Basaglia, che in questo libro riattiva il ricordo dello straordinario concorso di fattori e forze politico-sociali in cui il successo del movimento fu immerso, fino agli anni Settanta inclusi. Ma anche la fase contraddittoria, e confusa, che venne dopo, fino ai fenomeni di neo-istituzionalizzazione di oggi, con la retorica di una psichiatria più “igienica” – con straordinaria proliferazione di “nuova” modellistica efficientistico-aziendale, diagnostica, farmacologica, “riabilitativa” e quant’altro – mentre all’ombra di tutto questo si ritrovano appunto le “fascette”, cioè nient’altro che le nuove manicomialità, ora al plurale perché diffuse sul territorio, in gusci diversi, anziché accentrate in un solo bastione.
Ma ripeto, qui non possiamo ripercorrere i passaggi, gli intrecci, e le notevoli “storie interne”, locali, che hanno portato alla situazione odierna. E’ meglio concentrarci sul qui e ora; e attenersi alla parte “scomoda” dell’insegnamento di Basaglia, quella molto attenta, come dicevo, alle soluzioni di ricambio che il trasformismo modernistico dell’istituzione-psichiatrica avrebbe sfoderato, perché è questo che ci riguarda oggi.
Questo è l’argomento del tuo libro: quali sono oggi gli aspetti che hai chiamato di “neo-istituzionalizzazione”?
Beh, nel libro si perde un sacco di tempo a discutere il modo in cui oggi la malattia mentale è “trattata”, nel senso più ampio del termine: come è nominata, classificata, “spiegata” e poi “trattata” anche in senso stretto, cioè governata nella pratica, con un armamentario che si dichiara medico-scientifico, anzitutto psicofarmacologico. Ma qui vorrei parlare almeno di quella che è la pietra angolare dell’edificio tecnico della psichiatria, qualcosa che sentite ribadire mille volte, quando devono legittimare la “scientificità” dei trattamenti: la cosiddetta “sperimentazione clinica controllata”, cioè la procedura che dovrebbe assicurare la massima obiettività e trasparenza nel valutare un nuovo farmaco. Sapete come funziona di regola: si dividono in modo rigorosamente casuale i pazienti inclusi nella sperimentazione in 2 o 3 gruppi che ricevono pillole diverse: un gruppo il nuovo farmaco da verificare, un gruppo un vecchio farmaco già in uso se c’è, e un eventuale terzo gruppo il placebo cioè un finto farmaco. Poi si vedono i risultati dopo un certo tempo e si giudica se il nuovo farmaco dà risultati migliori del vecchio e del placebo; mentre durante tutta la sperimentazione sia i pazienti che i medici devono restare all’oscuro circa le assegnazioni dei pazienti ai vari gruppi (perciò la sperimentazione si chiama “in doppio cieco”). E ci sono altri requisiti da rispettare in cui non ci addentriamo, a cominciare dal fatto che questa sperimentazione sui pazienti selezionati è solo una fase (la “fase tre”) di un lungo processo di ricerca che può coprire anche un decennio: prima la sperimentazione “pre-clinica” della molecola farmacologica (in vitro e poi in vivo su animali di laboratorio); poi le fasi uno e due (su volontari sani e su gruppi ristretti di pazienti), quindi questa terza fase di cui stiamo parlando (che è critica perché dai suoi risultati dipende l’approvazione dell’autorità pubblica alla commercializzazione del farmaco, se supera la prova); e infine la “fase quattro”, che è detta “post-marketing” e che dovrebbe riguardare ulteriori verifiche dopo che il farmaco ha avuto accesso alla pratica medica. Questo è lo standard generale su cui si basa tutta la “medicina scientifica”, e quando viene detto al consumatore che i farmaci gli arrivano dopo una simile rigorosa trafila, è chiaro che la sua percezione è quanto mai rassicurante. Il che vale anche per gli psicofarmaci, poiché si sottintende che per questi valga la stessa cosa che vale per gli altri farmaci (non “psico-”). Qualche mese fa, per esempio, mi è capitato di sentire, in una trasmissione tv di “divulgazione scientifica”, il professor Garattini (direttore dell’Istituto Negri di Milano, come sapete uno tra i più ascoltati farmacologi italiani), che si diffondeva in un’apologia del suddetto metodo scientifico, con una puntualità e una sollecitudine che facevano sentire lo spettatore in una botte di ferro: non solo riguardo al rigore della sperimentazione, ma anche riguardo al senso di responsabilità degli sperimentatori, che secondo quella descrizione sembravano esistere per nessun’altra ragione che servire gli interessi dei consumatori.
Però mi era anche capitato, curiosamente proprio in quei giorni, di leggere un documento che dava una descrizione delle cose esattamente opposta, dimostrava cioè con impressionante raccolta di evidenze che l’attuale organizzazione della sperimentazione medica, lungi dal servire gli interessi del consumatore o della “obiettività scientifica”, risulta asservita in modo capillare a un altro genere di interessi, tanto di parte e tanto stringenti quanto possono essere quelli dei grandi finanziatori delle ricerche odierne, cioè dell’industria farmaceutica. E non sto parlando di un documento del popolo di Seattle o di Naomi Klein.
La documentazione di cui parlo, che si apre con un’editoriale dal titolo “E’ in vendita (for sale) la medicina accademica?”, compare in un numero del maggio 2000 del New England Journal of Medicine, cioè di una delle più prestigiose (se non la più prestigiosa) tra le riviste mediche del mondo. Qui la sede è decisiva, perché assistiamo a un grido d’allarme accorato (e a tratti anche disperato) che fa appello a quel poco che resta – secondo gli autori – della dignità scientifica del ricercatore medico “all’antica” (cioè non “in vendita”, for sale appunto), a fronte di un fenomeno che ha oggi un’estensione senza precedenti: si tratta della sostanziale scomparsa, in Usa, della divisione dei poteri tra controllati e controllori, cioè tra le case farmaceutiche che propongono il farmaco e i medici-scienziati che fanno la sperimentazione clinica (perché il potere pubblico approvi o disapprovi); si tenga presente che questo potere pubblico negli Usa (rappresentato dalla Fda, Food and Drug Administration) ha goduto storicamente di un’ampia fama d’imparzialità e fiducia del pubblico, e i protocolli sperimentali che ha stabilito perché un farmaco ottenga l’approvazione si presentano, almeno sulla carta, accurati e rigorosi. Senonché i soggetti reali che “applicano” in concreto il protocollo sperimentale definito in astratto si sono profondamente “evoluti” nella grande mutazione avviatasi con gli anni ‘80 e compiutasi con i ‘90: in gradi e con modalità diverse, sia i ricercatori della rete di agenzie private che oggi organizzano i trial (è fiorita questa rete di centri privati che appaltano le costose sperimentazioni, e l’industria ha ampiamente investito in tali agenzie), sia gli accademici delle “medical schools”, sono diventati “dipendenti” delle o dalle grandi aziende farmaceutiche. O in senso stretto, perché stipendiati dalle suddette agenzie, o in senso più “articolato”, nel caso degli accademici con legami plurimi con l’industria (contratti di consulenza, rapporti di benevolenza per l’ottenimento di finanziamenti alla propria “school”, etc.). Quanto ai tecnici della Fda, il clima politico neoliberista e l’ “alleggerimento” dei vincoli normativi visti come intralcio alle strategie delle aziende (che poi sono i grandi sponsor dei governi, e in modo più “pesante” di quelli repubblicani) ha favorito il successo delle case farmaceutiche nel dispiegare le cosiddette strategie di “lobbying”, ovvero di pressione organizzata, influenzamento, conquista di benevolenza etc..
Tutto ciò è analizzato con straordinaria ricchezza di dettagli in questi documenti del NEJM, che denunciano poi le conseguenze desolanti di questa perdita di indipendenza dei ricercatori medico-scientifici: fino agli esiti grotteschi quali, tra gli altri, lo stress dei ricercatori che non possono più scrivere i loro rapporti come vogliono, ma se li vedono rimandati indietro dai revisori delle aziende committenti con l’indicazione delle parti da riscrivere; oppure il fatto che la stessa rivista NEJM (che usa la regola comune per cui in ogni articolo di ricerca l’autore deve fare la “dichiarazione di interessi” per tutti i legami finanziari che ha con i produttori dei farmaci discussi nel testo), nel caso di un articolo sugli antidepressivi non ha trovato spazio a sufficienza, perché era troppo lungo l’elenco di tali legami dichiarati dagli autori: li ha dovuti solo “riassumere” nel testo, rinviando al sito web per l’elenco dettagliato.
Perciò la questione chiave che queste analisi mettono in luce, non riguarda tanto i vecchi e “classici” casi di banale corruzione o scambi di favori sottobanco, quanto il corrompimento mentale-attitudinale esplicito e sistematico degli addetti alla validazione “scientifica” dei prodotti farmaceutici: con l’obbiettivo, raggiunto con successo dalle aziende, di ottenere un sistematico “goodwill”, termine-chiave che vuol dire “benevolenza/inclinazione favorevole” da parte di tutti i soggetti che concorrono al processo di sperimentazione/validazione.
E quali sono, in concreto, le conseguenze di questa situazione?
Un esempio concreto di questa situazione è dato dalla vicenda che ha portato all’approvazione del Prozac, cioè di quello che è considerato l’affare farmacologico del secolo (scorso) per la Eli Lilly, il noto colosso farmaceutico che è stato pure premiato per questo strabiliante successo di marketing (oggi lo scrive anche, come titolo di merito, nei suoi annunci pubblicitari): 40 milioni di persone sotto Prozac, secondo una stima prudente. Ebbene oggi sappiamo, grazie a una scrupolosa ricerca di Peter Breggin sui dati della sperimentazione che ha portato all’approvazione del Prozac da parte della Fda, che il farmaco non avrebbe dovuto superare i test di convalida per la commercializzazione.
Breggin ha ricostruito l’intero, complesso processo di sperimentazione: diversi protocolli sperimentali realizzati con esiti incerti, di cui solo tre sono stati dichiarati sufficienti per l’approvazione; ma anche in questi tre, l’analisi accurata del processo di “ripulitura” dei dati mostra che, in sostanza, senza queste notevoli “manovre” sui dati, il Prozac non avrebbe dimostrato una significativa “migliore efficacia”, tanto nelle prove con un “vecchio” farmaco di riferimento (un antidepressivo triciclico) quanto in quelle in cui si era fatto un uso, peraltro discutibile, del placebo. Ma quando si tratta di piccole differenze statistiche succede un po’ come negli “exit poll”, per intenderci: a seconda delle “inclinazioni” di chi elabora i dati, piccole differenze su aspetti locali degli studi si possono cumulare e così produrre un risultato globale più orientato a vantaggio di una certa tesi, piuttosto che di un’altra (ed è qui che l’effetto del “goodwill” diventa decisivo).
Ma questo processo di rielaborazione dei dati costituisce il “sommerso” dell’intera procedura, di cui non resta traccia nella presentazione finale dei risultati in bella copia, e nella pubblicazione che ne deriva: infatti le minute che documentano il laborioso processo negoziale tra sperimentatori e controllori della Fda (rapporti provvisori che vengono rispediti indietro, emendati e poi ripresentati, e così via) non vengono pubblicate, ma restano negli archivi della Fda. Esiste però una legge (il Freedom of Information Act) che consente di visionare gli atti non pubblicati a chi ne faccia richiesta; e deve trattarsi di qualcuno con infinita pazienza e testardaggine, come appunto Peter Breggin, che insieme a sua moglie Ginger Ross, si è sobbarcato la fatica di studiare questa massa impressionante di materiali. Il risultato della ricerca è questo libro chiarificatore, Talking back to Prozac (St. Martin’s Press, 1994), che costituisce indubbiamente l’analisi più accurata del caso-Prozac (e della famiglia cui il farmaco appartiene, i “nuovi” antidepressivi detti Ssri, che in breve significa basati su un meccanismo che libera selettivamente il neurotrasmettirore serotonina, aumentandone i livelli in circolazione nel cervello).
Il libro va letto, per rendersi conto di come sia possibile – dicevo – che una catena di distorsioni locali negli studi produca poi un risultato globale che in apparenza “convalida” il farmaco. Le distorsioni riguardano, nel caso, un po’ tutti i criteri di metodo o misura – come la numerosità dei casi (il numero di persone che hanno di fatto completato i trial è molto inferiore, per dirne una, di quello dichiarato ufficialmente), i criteri d’inclusione, le scale di valutazione degli esiti, l’aggregazione finale dei dati locali e altro ancora. Ma senza entrare qui nei dettagli, la questione di fondo è che tutti questi criteri comportano notevoli margini d’arbitrio, perché il controllo sulle “variabili sperimentali” è sempre incompleto, e questa è la differenza critica tra la sperimentazione su soggetti umani e quella su animali di laboratorio (cioè tra la fase “clinica” e quella “pre-clinica” della ricerca). Una differenza che diventa un abisso nel caso specifico della sperimentazione degli psicofarmaci, per ovvie ragioni che riguardano i fattori soggettivi e di contesto – che qui sono comunque la sostanza, non l’accidente (per cui il varco da cui passa l’arbitrio “orientato” del ricercatore, che nel caso dei farmaci “non-psico” si può ridurre a certe condizioni, qui diventa una porta spalancata).
Questo è un problema di metodo che discuti nel tuo libro …
Sì, e là non faccio altro che riprendere certe analisi critiche di metodologi della sperimentazione medica molto rigorosi, come Bignami o Vineis. Ma qui vogliamo mettere a fuoco le conseguenze pratiche della difficoltà teorica; conseguenze che sono, ancora una volta, paradossali.
Ciò che infatti stiamo osservando è che la procedura che rappresenta sulla carta la massima garanzia di scientificità/obiettività può rovesciarsi, nella pratica, nel suo contrario, cioè nella legittimazione dell’arbitrio generalizzato. Ora, notate che nelle infinite discussioni sulla metodologia della ricerca c’è una parola molto usata, che serve appunto per designare questo “rischio” di intrusione del “pregiudizio-distorcente” nell’indagine (in ogni suo aspetto, dal disegno sperimentale alla elaborazione statistica etc.), questa parola è “bias”. Si dice che un’indagine è “biased” se appunto è distorta da un pre-giudizio d’orientamento, che “inclina” i risultati a favore di un certo esito. Ma che cos’altro è il “goodwill” di cui abbiamo detto, cioè la benevolenza-orientata degli sperimentatori a favore dei produttori – questo obiettivo tenacemente perseguito e raggiunto dalle aziende – se non un bias sistematico che ormai è entrato a far parte del costume profondo della sperimentazione psicofarmacologica?
E cosa significa tutto questo, rispetto alla “qualità” degli psicofarmaci che arrivano sul mercato?
Significa molte cose, ma se devo limitarmi alla più grave, dico senz’altro: l’immagine distorta del “profilo benefici/rischi” degli psicofarmaci in commercio. Cioè del bilancio tra quanto-bene e quanto-male può fare uno psicofarmaco alla persona che lo assume (che dovrebbe poi essere il criterio base per giudicare qualsiasi pharmakon, che come sapete è termine ambivalente, da sempre, “medicamento” e “veleno” insieme). Infatti il problema drammatico degli psicofarmaci è il lato oscuro non quello chiaro: quanto male possano fare a medio-lungo termine, piuttosto che quanto bene possano fare a breve termine.
Ma il costume che ha prevalso storicamente, e che poi ha “vinto” in modo pervasivo grazie agli assetti tecnico-commerciali descritti sopra, è la sottovalutazione sistematica della questione negativa (gli “effetti avversi”), mentre in primo piano c’è la questione positiva, cioè l’ “efficacia” (che questa sia vantata dagli entusiasti o discussa dai prudenti qui importa meno, perché comunque è passata l’immagine che gli effetti avversi siano un problema residuale, magari imbarazzante, ma non quello centrale). Oggi soltanto qualche mosca bianca si preoccupa di mettere il dito sulla piaga, ed è appunto il caso di Breggin: nel libro sul Prozac, solleva la gravissima questione di come il cervello – nella sua intrinseca plasticità – si riorganizzi per compensare l’aumento forzato di serotonina provocato dai farmaci di quel tipo, il che a medio/lungo termine può produrre episodi “maniacali” improvvisi, anche distruttivi, con casi di suicidio od omicidio di cui si ha notizia, ma senza che siano stati condotti gli studi a lungo termine che potrebbero far luce a riguardo (Breggin illustra le ragioni esemplari di questo “vuoto” di ricerca, sia tecniche che dovute a scelte “politiche”, di spesa, nonché “d’immagine”). E in un suo libro precedente, Toxic Psychiatry (St. Martin Press, 1991), aveva denunciato punto per punto la gravità dei danni neurologici che tutte le classi di psicofarmaci possono produrre soprattutto, come dicevo, a medio-lungo termine: in particolare nel caso dei neurolettici, che scompensano il sistema motorio generando effetti “parkinsoniani” (come i tremori, o le posture e i movimenti incontrollati degli occhi e della bocca, che vedete purtroppo in modo così frequente nei pazienti psichiatrici “lungodegenti”). E altri disturbi neurologici gravi, anche cognitivi (fino alle “demenze”) dovuti ai danni accumulati alle strutture cerebrali.
Che questo sia il prezzo da pagare per il “vantaggio” a breve di controllare i “deliri”, è qualcosa che storicamente è stato deciso (e cinicamente giustificato) appunto dal punto di vista di chi “controlla”, non certo da quello della persona che vive l’esperienza. Perciò Breggin ha giustamente definito i neurolettici la “camicia di forza chimica”. E il nostro Giorgio Bignami, in un bilancio dei neurolettici a quarant’anni dalla loro introduzione, con un’analisi esemplare degli aspetti sia sperimentali che clinici, ha confermato le conclusioni di Breggin per cui la vicenda di questa pretesa “cura della schizofrenia” va intesa, piuttosto, come una “catastrofe iatrogena” che si è consumata in silenzio (Gli psicofarmaci quarant’anni dopo: lenta agonia di una grande illusione, in “Fogli di informazione”, 157, 1992). E ci sarebbero altre precisazioni da fare, ma fermiamoci qui con la questione farmaci, sennò ci prende tutto il tempo.
Per darvi un’idea della situazione “culturale” in cui ci troviamo, quando propongo ai giovani operatori, per gli incontri di formazione, i testi di Breggin e di Bignami, cadono dalle nuvole: non ne sapevano nulla, mai sentiti; semplicemente ignoravano l’esistenza delle poche voci critiche (e ripeto, si tratta del meglio oggi disponibile, sul piano sia scientifico che deontologico) sui trattamenti psichiatrici più diffusi, quelli che si trovano a usare quotidianamente. Spero sia un po’ più chiaro, adesso, perché parlavo di una fitta nebbia che avvolge la questione “salute mentale”.
Sì, e a quali conseguenze ti ha portato la tua ricerca?
Intanto gli esempi precedenti – ma si potrebbe continuare con l’elenco delle aporie e i paradossi incontrati – convergono su un punto, su una constatazione molto elementare: la cosiddetta “cura” psichiatrica è una cosa del tutto “pre-scientifica”, è un insieme di pratiche che non ha niente a che vedere con l’ideale del “metodo scientifico” di cui la nostra civiltà va così fiera (e di cui l’establishment psichiatrico si fa scudo, alimentando la falsa immagine – che appunto nel libro viene confutata – di basarsi sulle neuroscienze “come la neurologia”). Poi possiamo discutere fin che si vuole su quali siano le pratiche migliori o peggiori, ma per favore lasciamo stare “la scienza”…
E’ per questo che nel libro tu concludi con una specie di “ritorno a Basaglia”, e all’aspetto “politico” della questione?
Sì, ma anche qui dobbiamo intenderci, perché proprio sul nome di Basaglia si consumano oggi una quantità di equivoci. Uno dei tanti è l’accusa a Basaglia – l’avrete sentita mille volte – appunto di “buttarla in politica”, di essere “ideologico”. Ma questa è un’accusa quanto mai superficiale. Se c’è stato uno che ha fatto “critica dell’ideologia” questo è stato Basaglia. In modo instancabile, persino ossessivo, ha smascherato punto per punto le pseudo-teorie di tutta la dottrina psichiatrica del tempo, i “saperi di copertura” (ideologie appunto) che mascherano una prassi che annichilisce le persone che dice di curare, non le “vede” nemmeno, figurarsi ascoltarle. E continuava, lungo tutto il percorso di trasformazione pratica cui accennavo prima, a mettere in guardia i compagni di lotta e lavoro dal rischio di “fare ideologia”, cioè di autoappagarsi in qualche “nuova” teorizzazione edificante, quando era solo dalla realtà negata che bisognava riapprendere: la realtà dei concreti rapporti, bisogni, poteri, soggetti, difficoltà mentali singolari etc., tutto il non-visto e schiacciato sotto la boria delle dottrine “psicopatologiche” sfornate dalla psichiatria.
Perciò Basaglia ha dovuto azzerare il discorso psichiatrico, non ha più usato le parole della psichiatria, ne ha mostrato la vuotezza (il “vuoto etichettamento” delle diagnosi psichiatriche, diceva), la vuotezza nociva e mistificante. L’ideologia la fanno loro, non Basaglia.
Ma questo è esattamente ciò che mi è capitato di ritrovare, e da una prospettiva ben diversa: non solo per il quarto di secolo trascorso, con l’ingente produzione di “nuova” dottrina e modellistica “scientifica”, ma anche da una prospettiva minimale, ininfluente, visto che si trattava di una mera analisi “epistemologica”: di una questione di ricerca, di studio, non di battaglia in prima linea. Ma è stato proprio il susseguirsi di “sorprese” circa le carte truccate della materia che andavo studiando, ciò che mi ha inevitabilmente ricondotto a Basaglia, come una sorta di “ritorno al futuro”. In sostanza io mi sono reso conto, studiando la “letteratura scientifica” con cui si legittimano gli odierni “trattamenti medici” del disagio mentale, che non c’è una sola pezza d’appoggio che tenga, che i puntelli che reggono l’edificio della “scientificità” psichiatrica non stanno in piedi: non quello nosografico-diagnostico, non quello “eziologico” o “patogenetico” (per le ragioni esposte nel libro, su cui qui non insisto – anche perché questa è la parte più facile del lavoro, tutto sommato, e ormai non mancano le ammissioni, anche dall’interno, che le categorie diagnostiche sono inconsistenti sul piano concettuale, e che quelle eziologiche lo sono sul piano empirico); e nemmeno il puntello che riguarda la validazione dei trattamenti, ovvero la “sperimentazione clinica controllata” di cui abbiamo detto.
In definitiva, la psichiatria mi si è mostrata come una “scienza medica” che non può fare diagnosi fondate, che non conosce le cause delle malattie che tratta, e che le tratta con farmaci (per non dir peggio) i cui sistemi di valutazione sono incerti a dir poco, o intrinsecamente distorti a dir meglio. Insomma una scienza medica “come se”, una medicina per modo di dire (il che non toglie che il potere medico lo eserciti tutto, anzi in modo più “assoluto” di quanto sia consentito ai colleghi medici “non-psico”). E questo è appunto il paradosso maggiore, che è un po’ il riassunto di tutti quelli visti prima. Come mi ha detto una volta un’amica psichiatra (critica e arrabbiata, che non nomino): gli psichiatri sono, nel migliore dei casi, assistenti sociali travestiti da medici.
Certo il giudizio è pesante, almeno rispetto alla percezione comune che si ha…
Sì ma è un giudizio di fatto, che descrive senza ipocrisie una situazione data. E poi non è tutto. La mia amica dice “assistenti sociali travestiti da medici nel migliore dei casi”. Ma ci sono anche gli altri casi: la “buona assistenza” (quando c’è) è solo una delle “funzioni sociali” che la nostra organizzazione sociale demanda al sistema-psichiatria. Poi ci sono le altre “funzioni di governo” dell’anomalia o anomia mentale: c’è l’importantissima funzione giudiziaria (il sistema delle perizie legali e tutto un florido apparato dottrinario che l’accompagna, la cosiddetta “psichiatria forense”); ci sono le limitazioni alla libertà personale e i trattamenti “involontari” (cioè forzati); ci sono le decisioni finanziarie e residenziali che riguardano la vita privata e l’autonomia delle persone; ci sono i compiti cosiddetti “pedagogici” verso i pazienti e i familiari. Avremo perciò le più “classiche” funzioni del poliziotto o del magistrato, dell’amministratore sanitario o anche del prete in quanto “orientatore di coscienze”, tutte demandate al medico, ovvero alla mascherata medica di cui stiamo parlando (concederete che non si può dire altrimenti, a questo punto). Niente male per una società che si vuole democratica e fondata almeno sulla distinzione tra i poteri. Ecco, questa extra-territorialità del sistema psichiatrico rispetto alla sfera ordinaria dei “diritti civili”, queste isole di dittatura all’interno di un territorio che si vuole democratico, è precisamente ciò che Basaglia si propose di far saltare. E lo fece con una “semplice” parola d’ordine, la “rottura del mandato sociale” che legittima l’istituzione psichiatrica: la messa in crisi, cioè, della delega sociale di tutte queste funzioni di controllo a una particolare casta di tecnici – in camice bianco ma con funzioni tutt’altro che “terapeutiche”.
Perciò nel progetto di Basaglia, e soprattutto nella prassi quotidiana che lo fece vivere, il compito dei “tecnici delegati” era quello di negarsi (“l’istituzione negata”, appunto), cioè di rimettere in questione tutti i ruoli istituiti – in tutta la gerarchia medico-custodialista, dal primario all’infermiere etc. -, in breve di rimettere quel mandato, appunto. Ma rimetterlo a chi, e per fare cosa?
Questa è la domanda cruciale che sottende tutte le altre, e che informa tutta la storia successiva. La risposta immediata era: rimettere quel mandato ma a una fonte di legittimità diversa, tutta da ricostruire e addirittura da reinventare, giacché non era previsto da nessuna parte che “i folli” potessero diventare, non più oggetti di ogni sorta di manipolazione (pseudo-medica o di pura violenza elementare, primordiale – e si ricordi l’esempio di manicomialità diffusa da cui siamo partiti), ma soggetti di diritti, persone con poteri contrattuali, in breve “cittadini”…
Cioè la cittadinanza, ancora una volta, è il problema…
Certo, ma voi m’insegnate quanto sia difficile – oggi è diventato evidente – affermare una pratica di cittadinanza non formale o declamatoria, quando si tratti di dar vita a una “città inclusiva”, come si dice, dove convivano e si riconoscano le diversità concrete che fanno-corpo con le persone. Diversità negate fino a che, dopo lotte di decenni, conflitti asperrimi, interi sistemi di pregiudizio “normocentrico” sono stati incrinati, e mai del tutto sconfitti, tuttora. Mentre la psichiatria è sempre stata parte integrante, anzi in prima fila, nel progetto sociale di “esclusione”: i casi sono infiniti, quante sono le “malattie mentali” volta a volta proclamate, e anche “revocate” si noti (non c’è prova più eloquente del carattere socio-arbitrario delle etichette psichiatriche, a volte pregiudizi moralistici profondi, a volte fenomeni sociali transitori, che ricevono il crisma medico e poi magari lo perdono, col variare dei costumi). Si pensi solo all’omosessualità fino a un paio di decenni fa (in Cina fino al mese scorso!), alla “irritabilità femminile” fino a una decina d’anni fa (Pdd, ovvero “disturbo disforico premestruale”), ai bambini indisciplinati/disattenti a scuola tuttora (Adhd: “disturbo da deficit di attenzione e iperattività”). E via di seguito con l’inesauribile inventiva della catalogazione psichiatrica. Oggi sono circa 300 le etichette del Dsm-IV (il manuale diagnostico psichiatrico più usato), e su questo monumento all’ossessione per le caselle mediche c’è un studio recente, molto accurato, che analizza tutte le inconsistenze di questa “patologizzazione della vita quotidiana”, con l’opportuno titolo “Renderci pazzi” (Making us crazy di Kutchins, Kirk e Rowe, Constable, London 1999). Per questa ragione, il colmo dell’ipocrisia si ha quando gli psichiatri di oggi affermano di voler lottare “contro lo stigma” (cioè il pregiudizio sociale invalidante), facendo credere che il “vecchio” stigma culturale si supera con il “nuovo” stigma medico: “non è un mostro, poverino è solo un malato…”! Il che significa: “Datecelo a noi medici che lo ‘curiamo’!”. Questo è esattamente il messaggio di quella sciagurata pagina pubblicitaria su Repubblica del 7 aprile, quella col piede rotto e lo slogan che le malattie mentali sono “come tutte le altre …”, sponsorizzata dall’Oms e dalle case farmaceutiche. Ma è la solita storia: i tentativi di promozione dell’egemonia medica (sulla sofferenza mentale) si ripetono quanto più la medicalizzazione è smentita nei contenuti, e nella pratica. E’ penoso ripetersi, pure per chi deve criticare la cosa; lasciamo perdere…
Torniamo al punto, la sfida che Basaglia ha posto, con la “semplice” formula (si fa per dire) della rottura del mandato sociale ai “tecnici delegati”, è qualcosa di enorme, letteralmente: qualcosa di molto grande e di e-norme come fuori norma, fuori misura rispetto ai conformismi filistei, di allora e di oggi. Ridurre Basaglia allo “psichiatra buono”, a un progressista che ha rinnovato certe “arretratezze” italiane per far posto ai trattamenti “più scientifici” di oggi, come si fa nelle odierne celebrazioni ufficiali della cattiva coscienza psichiatrica (c’è lo spettacolo da Italietta dei denigratori di ieri che oggi fanno l’elogio di Basaglia), è una variante del penoso “revisionismo” storico che aleggia anche in altri campi. La posta in gioco era ben altra. La sfida che fu posta allora, pur ancorata al microcosmo della “questione mentale”, investiva in modo originale le diverse dimensioni del macrocosmo sociale, dall’autonomia delle persone alle condizioni di lavoro, dal cambiamento della giurisprudenza al rispetto delle diversità individuali, dal diritto al dissenso alla ricerca di forme organizzative condivise. Indicava le tracce di un percorso a ostacoli che si sapeva ben arduo: era appunto l’intera “città” che doveva cambiare, perché si costruissero le condizioni -non solo “normative” o formali, ma soggettive e materiali- perché imparassero a convivere, come dicevamo, i “diversi mentali”, cioè i cittadini diversamente “disturbati”, chi più e chi meno, chi afflitto da angoscie o nevrosi ordinarie e chi da angoscie o psicosi straordinarie, senza che i primi si arrogassero il diritto di sanzionare o manipolare i secondi. Non mi piace l’aggettivo “epocale” perché i miei colleghi filosofi lo usano troppo spesso, ma in questo caso mi sembra pertinente. La sfida di Basaglia riguardava effettivamente un’ “epoca”, andava alle radici, cioè, di un sistema quasi bicentenario di “governo della follia”. Il progetto nato con il successo della borghesia e la rivoluzione francese, la storia descritta da Foucault insomma: il “grande internamento” e l’ igienizzazione della follia, cioè appunto l’affidamento alla casta medica del compito di custodire, segregare, sottrarre alla vista della gente perbene lo “scandalo”, il “pericolo” rappresentato dal “folle”. Progetto di portata storica pervasiva, che si è radicato nelle notevoli varianti nazionali ottocentesche – napoleonico in Francia, vittoriano in Inghilterra, lombrosiano in Italia – che hanno posto le basi della cultura psico-istituzionale del secolo successivo. Non a caso Basaglia disse anche, nel linguaggio “di classe” allora in uso, che i “tecnici delegati” dovevano “tradire” la classe borghese da cui ricevevano il mandato e i connessi poteri e privilegi.
Ma già allora era chiaro in nuce ciò che oggi è divenuto manifesto, e cioè che questa opera di negazione dei tecnici (il “giacobinismo” si disse, o la “rivoluzione dall’alto”) è solo una metà del problema, l’altra essendo l’affermazione delle persone, che da oggetto-di-psichiatrizzazione, possono/devono diventare soggetti contrattuali effettivi; lo abbiamo appena detto, a proposito di “cittadinanza”. Insomma il “mandato sociale” si rompe con un movimento a forbice, dall’alto e dal basso diciamo, e ciò era chiaro fin dai tempi di Goffman, da cui Basaglia riprese la battuta sulle “carriere”: ci sono due carriere speculari, quella del medico mentale e quella del paziente mentale, l’una rinforza e conferma l’altra e questo è “l’istituzione”; se si vuole combatterla, se il programma è la “de-istituzionalizzazione” (una parola che in seguito si è molto usata, ma snaturandola), sono entrambe le “carriere” che dovranno tramontare. Certo un programma non facile né breve, ma di cui furono chiariti i passaggi ineludibili, e furono eseguiti i primi passi. Ma quello che poi è accaduto, per dirla in breve, è che in Italia ci siamo “specializzati” nel cambiamento dettato dall’alto, mentre intanto nel mondo “protestante” avveniva il contrario: in Usa, in Gran Bretagna, nell’Europa centro-nord, le principali lotte di cittadinanza, i conflitti di potere sul campo “palmo a palmo”, avevano come protagoniste attive le persone stesse che subivano, o avevano subito, i “trattamenti” psichiatrici. Si sono sviluppati, cioè, i movimenti che si autodefiniscono dei “sopravvissuti psichiatrici” (psychiatric survivors), termine quanto mai pertinente e preferito dagli interessati, piuttosto che il più neutro di “utenti” o “ex-utenti”: una varietà di gruppi, organizzazioni (e oggi collegamenti in rete) che analogamente ad altri movimenti di cittadinanza hanno appreso a dettare tempi, modi e obiettivi del conflitto civile. E parlo di “dettare” non a caso, perché la cosa di maggior interesse oggi è che esiste una varietà di proposte operative che i cittadini/utenti organizzati indicano agli stessi operatori disposti a cambiare ottica, a togliersi la maschera tradizionale del “professionista psichiatrico”. Il libro di Ron Coleman che ho appena finito di tradurre (esce a giugno: Guarire dal male mentale, manifestolibri, Roma 2001) è un limpido esempio di questa situazione: qui c’è un “sopravvissuto psichiatrico”, membro autorevole del movimento inglese, che spiega punto per punto agli operatori psichiatrici, non solo cosa è sbagliato e nocivo nel loro modo di “trattare” le persone che hanno disturbi mentali, ma anche cosa devono e possono fare se vogliono sul serio essere d’aiuto; ma come “alleati” – sottolinea – non come presunti “specialisti” di un sapere quanto mai presunto (come risulta da quanto abbiamo detto fin qui, e come il libro di Ron illustra con dovizia di esempi e argomenti).
Per questo nel tuo libro scrivi che oggi i “migliori interlocutori” di Basaglia sarebbero i “sopravvissuti psichiatrici”, o i movimenti degli utenti?
Sì, e per più di una ragione. Intanto una ragione di fatto: come dicevo, esistono oggi esperienze consolidate, storie non brevi, di auto-organizzazione di cittadini ex-“pazienti psichiatrici”, e di conquiste in prima persona, sul campo, di spazi e poteri contrattuali effettivi, non elargiti da qualche “psichiatra buono”. Per averne un’idea, raccomando di leggere il libro-manifesto di Judi Chamberlin Da noi stessi (Primerano, Roma 1994), divenuto un classico del movimento, scritto da una pioniera delle organizzazioni autogestite dei survivors. Vi trovate non solo la trafila di vessazioni subite, i completi fraintendimenti dei suoi problemi reali, la diagnosi di “schizofrenia” e tutto il resto (insomma la “carriera” di paziente psichiatrica), ma anche l’analisi che va alle radici di tutte le distorsioni e i soprusi del sistema, e poi gli inizi del movimento in Usa, le prime conquiste e l’ampliarsi degli obiettivi di lotta, contro i “trattamenti forzati” e l’istituzionalizzazione, e per le alternative possibili e praticabili, con le persone che ricominciano a vivere, e anche a impegnarsi nei conflitti civili, grazie alle reti di mutuo-aiuto che si vanno costruendo. Vedete insomma, testimoniate analizzate e ribadite, le stesse cose che analizzò e ribadì Basaglia, ma appunto dalla prospettiva speculare: là quella del tecnico che si “nega” come oppressore, qui quella della persona oppressa che si afferma e attiva come portatrice di diritti e di progetto. Insomma l’altra faccia dello specchio, di una stessa situazione a due facce che è appunto il rapporto speculare tra psichiatrizzante e psichiatrizzato, le due “carriere” – dicevamo – che sono da superare insieme.
Ed è questo l’aspetto decisivo di una questione molto pratica, ma che diventa anche “teorica”, una vera discriminante concettuale. Sia Basaglia che Chamberlin (e con lei gli altri autori “sopravvissuti”, non pochi, che hanno scritto cose importanti) hanno lavorato su un concetto chiave, che è quello del circolo vizioso di invalidazioni, che si autorinforzano, che sta alla base del “rapporto medico-paziente” in psichiatria. Nella sostanza l’idea è questa: che tutto congiuri, nella “relazione clinico-istituzionale”, perché alla svalutazione sistematica del punto di vista del “paziente” (qualsiasi suo moto di affermazione sarà invalidato a priori come “patologico”, qualsiasi dissenso ricondotto alla malattia come “sintomo”, etc.) corrisponda l’autosvalutazione sistematica della persona, che è spinta sempre più a diventare ciò che l’istituzione le chiede di essere, a replicare certi comportamenti attesi (“tu diventi la tua etichetta”, scrive Coleman, e questo concetto si ritrova immancabilmente in tutte le altre testimonianze dei survivors). Ma se si capisce che questo è il nocciolo della “relazione” clinico-istituzionale (relazione di poteri istituiti che si traducono in poteri “mentali”), si capisce anche che è questo il nucleo da disfare, se si vuole innescare invece un circolo virtuoso: apertura di una “dialettica” reale (così Basaglia), accettazione del “rischio” (per il “tecnico delegato”, per la sua “identità professionale”) della sconfessione del proprio punto di vista, rimessa in gioco di un confronto tra persone concrete non tra ruoli apriori, e perciò spazi crescenti di validazione, e autovalidazione, della soggettività attiva della persona in difficoltà mentale. Oggi questo rovesciamento di prospettive è divenuto senso comune nel movimento dei survivors (con i loro “alleati” quando ne trovano), ed è per questo che è emersa l’ultima tra le parole d’ordine del movimento, che è la “recovery”, cioè la “guarigione”. La rivendicazione puntigliosa e argomentata della possibilità di “guarire” dal disturbo mentale grave, è indubbiamente l’ultimo traguardo dei movimenti di alternativa in salute mentale, peraltro con una notevole varietà di proposte concrete nonché differenze o dissensi interni, come per ogni movimento di opposizione. Ma il nucleo resta quello, la riappropriazione delle soggettività, con tutti i propri punti di forza e di debolezza, fragilità e risorse, come chiave di volta della possibilità di attraversare l’esperienza “psicotica”: facendola propria e così provando a venirne a capo, grazie ai contesti di validazione che insieme ad altri, nella ricerca e nella pratica di “nuovi tracciati di socialità”, possono e devono essere costruiti intorno all’esperienza.
Ed è questo l’argomento del libro “Guarire dal male mentale”, di cui dicevi?
Sì, e spero che le idee di Ron sulla guarigione convincano anche i lettori italiani della centralità di questo tema, un tema “marziano” per la psichiatria ufficiale (il titolo originale del libro è ironico: “Guarigione, un concetto alieno”). Il tema è alieno/estraneo alla psichiatria – sia ai fondamentalisti “biologici” sia alle versioni paternalistico-narcisiste, più frequenti da noi – perché l’assetto neo-istituzionale di cui abbiamo detto “imballa” le persone, le congela in una situazione statica che Coleman riassume con la nozione di “mantenimento” (maintenance). L’idea di guarigione (recovery come processo, appunto, di riappropriazione delle risorse mentali, mobilitazione di soggettività, conquiste di spazi e poteri contrattuali etc.) si oppone dunque a questa di “mantenimento”, come congelamento e riproduzione di una condizione di malattia, con la persona ridotta a ricettacolo passivo di “interventi”, farmacologici o “riabilitativi” che siano. Coleman propone un’analisi chiara e convincente di questa opposizione, o linea di confine tra progetti alternativi, che ha diversi aspetti e conseguenze particolari, che qui non sto a ripetere: li trovate ampiamente argomentati nel libro. Piuttosto posso dirvi qualcosa sul contesto storico-pratico da cui nasce questa analisi. L’esperienza di Ron, sia la sua personale di riconquista di piena autonomia dopo il crollo e il vicolo cieco della psichiatrizzazione (una diagnosi di schizofrenia a 25 anni, con 6 anni di ospedale psichiatrico, tra l’altro), sia il successivo impegno come organizzatore di gruppi, formatore di operatori e teorico del movimento, sviluppa l’idea-chiave del “sostegno tra pari” (peer support).
L’idea che il sostegno più “competente” per chi vive un’esperienza psicotica possa venire dal “pari”, ovvero da chi ha attraversato analoga esperienza e ha appreso a fronteggiarla, può sembrare l’uovo di Colombo (ed è quanto Coleman afferma, tra l’altro); ma il difficile è praticarla nel campo specifico della “psicosi”, perché è qui che si addensano tutte le delegittimazioni di cui abbiamo detto, ed è qui che il potere manipolativo degli “esperti” (cioè dei non-pari) è estremo. E questa è una differenza critica rispetto alle altre esperienze storiche dette di auto- o mutuo-aiuto, ben più diffuse come sapete in altri campi (alcolisti, tossicodipendenze etc.). Di qui l’originalità del movimento in cui Coleman è impegnato, che nasce in Olanda alla fine degli anni ‘80, per poi diffondersi soprattutto in Gran Bretagna, il “network degli uditori di voci”. Come sapete il “sentire voci” (ovvero avere allucinazioni uditive) – voci spesso denigranti o persecutorie, e che a volte spingono la persona al suicidio – è considerato un classico “sintomo di schizofrenia”. Ebbene l’esperienza del movimento degli uditori di voci ha prodotto – in una dozzina d’anni – un patrimonio notevole di conoscenze innovative. Per esempio: si è visto che le persone che sentono voci sono di più di quelle che arrivano ai servizi psichiatrici (diverse non ci vanno, tengono per sé l’esperienza, proprio perché temono l’etichettatura psichiatrica e le sue conseguenze); si è capito che sdrammatizzando e socializzando l’esperienza (appunto nei gruppi “tra pari”), e perciò sottraendola al ricatto (“sei pazzo, devi accettare diagnosi, trattamenti etc.”) si ha anzitutto il risultato di ricreare fiducia e riconoscimenti verso se stessi e gli altri, e uscita dall’isolamento spesso atterrito in cui si trova la persona che sente voci; si è poi capito che, su queste basi, si possono “esplorare” – come dicono – le proprie voci, capirne la semantica, connetterle a un mondo biografico da ricostruire; si sono scoperte svariate possibilità di fronteggiamento e autocontrollo delle voci; e altro ancora, compresa la possibilità di risoluzione di conflitti mentali traumatici, con attenuazione o scomparsa degli aspetti più disturbanti. Ma capite bene che questo genere di conoscenze è inattingibile, è fuori-orizzonte per lo psichiatra standard, che dall’alto del suo presunto “sapere” (tanto pretenzioso quanto vacuo e pseudo-scientifico) non “vede” altro che sintomi da stroncare, e peraltro con “metodi” non solo rozzi e inconsistenti come detto, ma anche di particolare inefficacia nel caso specifico delle “voci” (sulle quali i neurolettici fanno poco o niente). Comunque questa linea di esperienza e di ricerca è solo una tra le diverse che si trovano in questo “arcipelago sommerso” di pratiche alternative, alcune con risultati duraturi in regime di “partnership” (utenti/operatori), ma naturalmente in condizioni di contesto più o meno ardue, secondo la varietà di contraddizioni, margini contrattuali etc., dei sistemi locali.
Sembrano idee fondate e convincenti, ma suonano “utopistiche” a fronte degli apparati di potere che hai descritto prima …
Non c’è dubbio, ma non ci si deve far sviare, si devono tenere gli occhi fermi a terra, con l’antica ostinazione con cui Basaglia affermò, provocatoriamente, di praticare “l’utopia della realtà”. Affermazione quanto mai pertinente, perché all’inizio lo presero per pazzo visionario; fu denigrato in tutti i modi, salvo poi riconoscergli, col tempo, di aver fatto “miracoli” (“l’impossibile che diviene possibile”, si disse). Ma appunto specialmente in questo campo, dove come abbiamo visto molto si dice e poco si fa, dove si straparla mentre le poche esperienze veramente innovative procedono senza grancassa, la realtà si rivela intrinsecamente “utopica”. Nel senso che è la materialità quotidiana, le vite concrete delle singole persone in difficoltà mentale, i loro mondi di problemi e fragilità ma anche di potenzialità e ricchezze, ciò che “non ha luogo” in questa organizzazione socio-istituzionale, ciò che è negato e non ammesso, letteralmente silenziato come si fa coi trattamenti chimici dei loro “sintomi”. Ma se invece ci si attiene a questa realtà, se da essa non ci si stacca o distrae, nel modo testardo di Basaglia e delle pratiche di oggi di cui stiamo dicendo (tanto più motivate in quanto condotte in prima persona), se non ci si lascia sviare dal rumore e dagli idola del momento, i risultati vengono, e si tratta di passi molto concreti, tutt’altro che “miracoli” (che poi appaiano tali, dipende dalla forza contraria, dall’inerzia del pregiudizio conservativo).
Del resto chi è abituato da tempo alla fatica di nuotare contro corrente impara a conoscere il fiume meglio di chiunque altro: le sue correnti, le secche, le giornate che non avanzi di un centimetro e quelle dove si apre un varco, un vortice propizio… La situazione è questa, c’è poco da fare. Ma proprio perciò c’è molto da fare in verità, se si capiscono a fondo i punti di forza e di debolezza, da una parte e dall’altra. La metafora di Lilliput, usata da qualche organizzazione di resistenza allo strapotere dei padroni del vapore (i macro-poteri sovranazionali con la loro corte di ideologi), è una cosa intelligente ed efficace, che vale in certa misura pure qui. Lo sapete: non è detto che si perda sempre contro i padroni del vapore, che in questo caso si chiamano Big Pharma – come Le Carré ha definito il complesso farmaco-industriale che impone al “globo” i suoi standard di salute/malattia, cioè le sue strategie di marketing “sanitario” che diffondono insania per il mondo: vale a dire, morte annunciata nell’emisfero sud, per i milioni di persone usa e getta, che erano servite per le sperimentazioni degli stessi farmaci che poi sono loro interdetti dalle “ragioni” del profitto; e intanto nell’emisfero nord, per le stesse ragioni di questo sfrenato profittare della pelle altrui, lo spaccio di massa di droghe legalizzate, prima l’affare del secolo (Prozac e simili) e ora l’anfetaminizzazione a tappeto in Usa dei bambini “disattenti/iperattivi” (il business del Ritalin e simili: fenomeno micidiale su cui, purtroppo, non abbiamo tempo di fermarci). Ma stavo dicendo: questo meccanismo apparentemente invincibile ha le sue crepe, i “cittadini del globo” non possono essere tenuti indefinitamente in una condizione di minorità, sorgono nuove e ferme consapevolezze, gli anticorpi si formano… In fondo chi avrebbe scommesso, solo pochi mesi fa, sulla vittoria di Mandela del 18 aprile? Una battaglia non la guerra, certo. Ma un buon precedente, un punto fermo per i successivi conflitti che ci attendono. E ripeto, chi avrebbe scommesso sulla capacità dei lillipuziani amici di Mandela di imbrigliare il colosso “invincibile” di Big Pharma?