Katia Alesiano intervista Thomas Emmenegger.
“Malattia mentale”, un concetto che rischia di essere utile solo a giustificare un agire istituzionale. Il rischio della prognosi che fissa il tragitto, senza esplorare, senza scoprire le potenzialità, senza sapere neanche “le notizie” di una persona. Mettere in moto processi, in cui cresca l’autonomia dell’ex-degente o del paziente, che riscopre di avere possibilità e scelte da fare.
(Da UNA CITTÀ n. 104 / 2002 Maggio)
Thomas Emmenegger, psichiatra svizzero, in Italia da molti anni, è presidente di Olinda, l’associazione che gestisce il processo di riuso dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini.
Il processo di deistituzionalizzazione dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini ha assunto dei caratteri di grande apertura e addirittura di inclusione e rigenerazione del contesto sociale e urbano in cui è collocata questa struttura. Cos’è dovuto cambiare nell’approccio al disagio mentale per poter arrivare a questo?
Innanzitutto abbiamo cercato di eliminare alcuni concetti, per esempio quello del bisogno. Se non riusciamo a far sì che le persone si muovano nel rispetto dei loro tempi, difficilmente possiamo sviluppare dei processi dove alla fine i limiti delle istituzioni non ricadano sulle persone stesse. E’una vecchia storia che noi conosciamo molto bene, quella dei limiti e degli ostacoli delle istituzioni che si trasformano in etichette individuali. La malattia sicuramente c’è, è anche una malattia psichica, ma questo ci dà poche informazioni sulla persona, e soprattutto è un concetto molto “sporco”, nel senso che spesso è costruito ad hoc anche per giustificare un agire istituzionale. Ciò che invece ci interessa è la persona, il malato, da cui credo si possano ricavare molte più informazioni. Il problema è che queste informazioni che la persona possiede spesso sono nascoste. Come psichiatri siamo maestri nell’individuare ciò che non funziona, le lacune, i danni, e su questo facciamo le diagnosi; dalle diagnosi poi scaturiscono i cosiddetti bisogni. Ma questo è un processo che ha in sé qualcosa di oggettivante, la persona diventa un oggetto, il che la mette spesso nella situazione di non azione o di impotenza: ho individuato dei bisogni e ora metto la persona in attesa della risposta. Le informazioni invece che ci possono servire sono spesso dentro la persona, ma non sono facilmente definibili, perché non riguardano ciò che non funziona, ma ciò che la persona è, le sue capacità soggettive. Sono queste le cose che ci interessa conoscere. Il problema metodologico è allora legato al fatto che le capacità soggettive sono nascoste dentro la persona, non sono facilmente visibili o diagnosticabili, diventano palpabili solo quando vengono applicate, e gli strumenti pratici che le facciano emergere si possono trovare solo sperimentando, esplorando, ma soprattutto apprendendo.
Per noi il concetto di apprendimento è fondamentale, e in particolare il processo dell’ apprendimento radicale, dove cioè posso imparare qualcosa di nuovo, intraprendere esperienze mai fatte (in contrasto, se vogliamo, con un semplice apprendimento incrementale). Questo vale naturalmente non solo per chi ha problemi mentali: spesso infatti ci troviamo di fronte a percorsi nuovi che nessuno degli attori (malati, psichiatri e operatori) ha ancora intrapreso. In questo senso i veri processi di deistituzionalizzazione investono e scommettono sulle capacità delle persone, o meglio, danno credito alle persone. E l’apprendimento per noi diventa uno strumento pratico per applicare le capacità, per farle emergere. L’apprendimento è un concetto ottimistico, ci aiuta da un lato a costruire una visione con obiettivi ambiziosi, ma dall’altro ci permette anche di programmare delle azioni concrete e efficaci.
Quindi pensi che non si possa prevedere un percorso in anticipo …
Penso sia molto difficile capire fin dove possa arrivare una persona, mentre il mestiere dello psichiatra implica che oltre a fare una diagnosi si debba fare anche una prognosi, dove in qualche modo si dice che la tal persona andrà a finire in un tal punto. Credo che questo sia devastante, anche perché spesso, nel corso della mia esperienza in processi di deistituzionalizzazione, mi sono ritrovato a sorprendermi per persone che hanno fatto dei percorsi che nessuno si sarebbe aspettato.
Scomporre un’istituzione molto forte, l’ospedale psichiatrico, e accompagnare gli utenti nel territorio scoprendolo con loro, e, nel contempo, scoprendo sé stessi, fare delle nuove esperienze impossibili dentro le mura; questo mi ha fatto capire che, se riusciamo a lavorare ai confini dell’istituzione, se riusciamo a spostarli un po’, ad attraversarli, si possono innescare processi molto interessanti. Al Paolo Pini la deistituzionalizzazione è iniziata nel ‘93, anche se il manicomio è stato chiuso solo nel ‘98. L’aspetto che ci interessava di più era la costruzione, intorno al progetto di chiusura del manicomio, della consapevolezza che la sofferenza psichica, con tutto ciò che le è stato costruito intorno, può essere una grande risorsa. Due temi ci interessavano: costruire delle forme di incontro tra chi soffre e chi non soffre, ma anche valorizzare i luoghi della sofferenza, il manicomio, che è un’enorme struttura alla periferia di Milano e ha nel suo parco alberi che per decenni hanno potuto crescere indisturbati. Nel progetto abbiamo fatto sì che la città entrasse nel manicomio per incontrare quello che per decenni è stato chiuso dentro e nel contempo che questo luogo venisse trasformato, reso utile alla città stessa. Questo ha innescato una serie di progetti fatti a più mani; abbiamo dovuto imparare a lavorare con persone e organizzazioni anche molto lontane dal campo della salute mentale, ma che hanno avuto un loro interesse a collaborare con noi. Da qui sono nate molte feste, molta cultura e infine l’idea dell’impresa sociale.
Puoi farmi degli esempi concreti dei modi in cui è avvenuto l’incontro tra il dentro e il fuori?
Già dai primi anni che lavoravamo qui abbiamo legato i percorsi riabilitativi al cambiamento del contesto, intendendo per contesto soprattutto le strutture e la loro destinazione. Intervenire sugli edifici o sul piazzale del vecchio manicomio, dare loro un utilizzo pubblico, significava dare opportunità di normalità a persone che, di solito, hanno difficoltà di accesso a ciò che noi usiamo ogni giorno normalmente: i nostri diritti di cittadinanza. Il primo fatto importante è stata la realizzazione, con l’aiuto di artisti e architetti, di un beauty-center in un vecchio cesso, poi la trasformazione di uno stanzone in stanza tipo foresteria. Abbiamo cercato di introdurre elementi di normalità, come il letto matrimoniale in foresteria, che per noi era un fatto ovvio, spontaneo, e ne abbiamo preparato l’inaugurazione, introducendo così il problema del sesso e dello stare insieme, che per noi era un argomento molto stimolante. Invece abbiamo verificato che queste iniziative, alle quali attribuivamo un enorme valore, non interessavano nessuno. L’idea del beauty-center, ad esempio, rappresentava un tentativo di ridare dignità agli spazi, ma anche alle persone, eppure all’inaugurazione non è venuto quasi nessuno; eravamo sempre tra di noi, e questa nostra incapacità di far capire ad altri il senso pubblico delle cose che stavamo facendo ci ha molto colpito, anche perché sapevamo che, restando isolati, non ce l’avremmo mai fatta a uscire da questo ghetto. Dovevamo trovare il modo di evitare che non solo l’utente psichiatrico, ma anche l’istituzione da lui frequentata, fossero messi ai margini. Così abbiamo pensato di proporre qualcosa alla città, alle sue organizzazioni, alle persone. Volevamo fare qualcosa che non interessasse solo noi, ma anche altri. Così ci siamo inventati una grande festa cittadina all’interno del vecchio manicomio. Era il ’95 ed era ancora il manicomio di Milano, carico di un pesante immaginario collettivo e allo stesso tempo sconosciuto a tutti. In una settimana di festa sono arrivate 20.000 persone qua dentro; è stato uno shock per tutti; forse gli unici che hanno avuto pochi problemi sono stati gli ospiti del manicomio stesso, mentre gli operatori di lunga durata erano molto preoccupati e anche le persone che entravano dall’esterno lo facevano con un certo timore. La preoccupazione si esprimeva anche con una certa violenza nei confronti dell’iniziativa, si veniva accusati di non rispettare il bisogno di tranquillità degli ammalati, stigmatizzando l’irruzione proveniente dall’esterno. L’organizzazione della festa cittadina ha richiesto un anno di tempo, nel corso del quale abbiamo mediato e preparato un “riuso pubblico, anche solo temporaneo” del manicomio ed organizzato, insieme con un gran numero di persone ed organizzazioni della città, una miriade di proposte. Per chi voleva proporre un’azione per la festa c’erano solo due regole, la prima era che per realizzare la propria proposta, chiunque doveva cercarsi un partner che fosse diverso da lui, perché volevamo che le persone e le organizzazioni imparassero ad ascoltare e a stare insieme ad altri; il fatto di doversi confrontare con qualcuno con cui di solito non ci si confronta avrebbe costituito un percorso di apprendimento per tutti. Ne sono uscite delle combinazioni davvero incredibili, ad esempio un gruppo di cattolici che collaborava con un designer molto trasgressivo. La seconda regola era che il prodotto per la festa doveva essere interattivo, ossia doveva succedere qualcosa tra le persone, bisognava creare delle occasioni per imparare cose nuove, nessuno poteva venire e vendere le borse di cuoio; volevamo che fossero protagoniste le persone, non gli oggetti. In questa settimana c’erano tutti gli ingredienti per una festa: accoglienza, concerti, teatro, cibo, discussioni; una settimana di enorme movimento, con un gran ballo finale. Poche volte in vita mia ho sentito un’energia così concentrata tra le persone come in questo gran ballo finale; c’era circa un migliaio di persone e tutte si sentivano uniche, non c’era un guest, un’ospite che attirasse su di sé i riflettori, erano tutti attori principali della festa, un’energia sconvolgente. In occasione di questa grande festa, tra l’altro, abbiamo inaugurato il bar, che è stato ricavato all’interno della vecchia camera mortuaria ed ora è diventato anche un ristorante dove lavorano attualmente sette persone. La cosa interessante è che, quando abbiamo cominciato a lavorare all’apertura del bar, c’era ancora una grande incertezza; per le stesse persone che ci avrebbero lavorato era difficile credere che la cosa potesse decollare. Come può -ci si chiedeva- funzionare un bar in un luogo, la camera mortuaria del manicomio situato nella periferia nord-ovest di Milano, dove non passa nessuno? Un sintomo di questa insicurezza era il fatto che gli attori del progetto bar non sopportavano assolutamente di essere fotografati, non volevano diventare il matto che lavora da sbattere in prima pagina. Quando poi il bar ha dimostrato di funzionare -la prima sera della famosa festa c’erano 3000 persone che aspettavano davanti al bancone e loro lavoravano come non avevano mai lavorato in vita loro- allora non hanno avuto più alcun problema a lasciarsi fotografare. Chi lavorava dietro il bancone del bar non è più stato riconosciuto solo come paziente psichiatrico, ma anche come barista e protagonista di questa azione pubblica.
Perché è stato scelto l’obitorio del manicomio?
E’ una storia molto divertente, nel senso che era un luogo al quale nessuno era interessato. Bisogna partire dal dato che anche il manicomio è governato da piccoli interessi economici, piccoli feudi conquistati dopo tanti anni di lavoro o di presenza, quindi con al suo interno dei giochi di potere e di conservazione molto forti. Non alludo solo a istituzioni presenti nelle strutture in termini di rappresentanza organizzata, ma anche a singoli individui che, per sopravvivere, cercano di ottenere alcuni vantaggi personali. Si può parlare di una vera e propria “economia del manicomio”; non penso solo all’esempio più classico, quello dei furti, ma anche all’economia del lavoro stesso, alla sua razionalizzazione tendente al massimo risparmio della fatica. Tutta una serie di privilegi e nicchie di potere che fanno sì che uno non voglia cambiare, perché vorrebbe dire perdere certe comodità lavorative o dover rinunciare a dei piccoli privilegi economici. Questo riguardava chi era dentro da molti anni, sia il personale che i malati, ma anche gli psichiatri. Inoltre, su questo manicomio c’era da tempo un progetto della Regione per costruire un nuovo edificio con funzioni di centro sociale. Il finanziamento per la costruzione del nuovo edificio era cospicuo; si trattava di una struttura collocata all’interno del manicomio, che però avrebbe dovuto fornire una serie di prestazioni all’esterno, modernizzando, almeno nelle intenzioni, l’ospedale psichiatrico con sale per l’accoglienza delle persone esterne, sale per la riabilitazione e un piccolo bar.
Questo, tuttavia, sostanzialmente non avrebbe cambiato niente nell’assetto istituzionale e organizzativo del luogo, comportando invece una spesa enorme.
Noi abbiamo allora cercato di spiegare alle istituzioni pubbliche che il centro sociale c’era già e non bisognava costruire proprio niente, esisteva la camera mortuaria del manicomio, ancora in funzione, che in futuro non avrebbe avuto più nessuna utilizzazione visto che bisognava chiudere il manicomio. La camera mortuaria era grande e situata davanti a un’ampia piazza con degli alberi secolari, con un grande cancello, che poteva aprirsi per accogliere persone; insomma, c’erano tutti i requisiti per costruire un bellissimo progetto, che noi alla fine abbiamo chiamato piazza pubblica. Paradossalmente la proposta è stata accolta, non perché l’avessero trovata convincente, semplicemente perché era più economica e soprattutto perché nessuno era interessato all’obitorio, nessuno infatti voleva stare lì dentro: faceva paura, era il concentrato delle storie del manicomio. Così quando all’inizio degli anni ‘90 siamo arrivati al Pini e abbiamo chiesto degli spazi ci hanno magnanimamente offerto la camera mortuaria: “Andate pure là, è vuota, è quasi vuota”. La camera mortuaria del Paolo Pini è molto grande perché Milano -e questo ospedale in particolare- è stata una roccaforte della psichiatria positivista affermatasi negli anni ‘30. Questa psichiatria aveva un approccio scientista, lombrosiano, fondato sull’anatomia, quindi la ricerca veniva fatta direttamente sui cervelli delle persone e servivano spazi dove praticarla. Il Pini dunque è stato il frutto del nascente potere medico psichiatrico in quegli anni a Milano, un potere fondato sulla presunta scientificità dei suoi assunti, detenuti da una casta di specialisti. L’altro motivo che giustifica la valenza di memoria storica del manicomio attribuita all’obitorio è che era la principale, se non unica, via d’uscita da questo posto. Il manicomio si apriva ai familiari che arrivavano, non di rado per la prima volta, a riprendersi il morto. Questo ruolo di rappresentanza della camera mortuaria aveva dei corollari per noi interessanti, ad esempio era uno degli edifici con la migliore manutenzione di tutto il manicomio, perché qui si allestiva la camera ardente e si ricevevano i familiari, per cui la stanza era piena di marmi, sempre pulita e riscaldata, quindi potevamo partire con degli spazi ben tenuti. Poi è nata l’idea della “piazza pubblica”, volevamo cioè costruire delle pratiche che portassero all’accesso ai diritti di cittadinanza: lavoro, soldi, una casa, la possibilità di incontrare amici. Naturalmente il progetto piazza pubblica aveva un senso non solo per chi partecipava in prima persona, ma anche per il contesto circostante.
Il Paolo Pini si trova alla periferia nord-ovest di Milano, accanto alla Comasina, un quartiere dove tutta una serie di problemi individuali vengono ulteriormente aggravati dalla mancanza di servizi, dalla scarsa socialità; i bar, ad esempio, chiudono alle sette di sera, si fa una vita abbastanza dura e chi non è in grado di muoversi per andare in centro resta tagliato fuori. La nostra presenza poteva quindi essere un contributo alla rigenerazione urbana, volevamo dimostrare che quello che facciamo non è utile solo nell’ambito psichiatrico, ma serve alla città. Oggi infatti ci occupiamo sia di questioni urbanistiche sia di quelle psichiatriche.
Del resto, nel momento in cui ci siamo misurati con la grande festa cittadina, abbiamo visto che si è creato un interesse rispetto a quello che facevamo, non solo in termini psichiatrici, ma anche di qualità della vita di questo quartiere; i giovani soprattutto hanno cominciato ad affacciarsi alle attività che promuovevamo, non perché fossero interessati ai problemi della sofferenza psichica, semmai lo erano a fare qualcosa per migliorare il loro quartiere. Così si è creato un gruppo che, per interessi propri, ha condiviso il nostro obiettivo: hanno cominciato a essere presenti, propositivi, cooperativi. Da lì è nato un gruppo molto più vasto, con interessi molto più variegati, e comunque in grado di affrontare storie un po’ più importanti, anche solo per la maggior forza numerica, dato che potevamo diventare fino a 200.
Da qui l’idea di costituirvi in un’associazione culturale che diventasse importante anche per la città…
Nel ’96 è nata l’associazione Olinda che si occupa di cultura, formazione e progettazione partecipata. Olinda attualmente organizza una rassegna culturale in estate, che dura due mesi, dal titolo Da vicino nessuno è normale. Durante l’anno gestisce un laboratorio teatrale per cittadini giovani che si chiama Manuale per fondare una città, organizza un torneo di calcio, promuove attività per bambine e bambini, fa formazione professionale e molte altre cose. Dal ’99 si è aggiunta una cooperativa sociale, La Fabbrica di Olinda, che sviluppa dei progetti per creare posti di lavoro: bar/ristorante, falegnameria, multimedia ed ostello. Naturalmente spesso gli interessi della cooperativa e quelli dell’associazione cozzano fra loro; succede, ad esempio, che i volontari organizzino delle feste, per cui ci si ferma fino alla sera tardi, e poi al mattino le persone che lavorano al ristorante trovino tutto sporco e in disordine.
Per noi però il conflitto non è negativo; ci teniamo a mantenerlo vivace, miriamo a costruire una vera e propria cultura del conflitto intorno ai modi diversi di agire di associazione e cooperativa, perché il prodotto finale che esce da questa dialettica delle forze in campo è sempre migliore di quello che emergerebbe dalla loro semplice somma. Per fare un esempio, un barista che sta nel progetto fin dall’inizio, passato dal contratto di formazione a quello a tempo indeterminato, quindi un socio lavoratore della cooperativa, ha fatto un’esperienza importante che nessuno aveva programmato e di cui io stesso sono venuto a conoscenza solo dopo. A un certo punto è andato in vacanza, 15 giorni in Sardegna a pescare, invitato da due persone del quartiere che frequentano il bar e fanno parte del gruppo di volontari; la proposta non aveva nessun intento paternalistico o solidaristico, era solo che a loro faceva piacere, e così il barista, per la prima volta in vita sua, si è fatto una vacanza. Credo che queste siano esperienze che nessun progetto può prevedere in un programma; per noi sono dei sottoprodotti inaspettati e hanno una ricaduta terapeutica molto, molto forte: sono frutto di un contesto che chiamerei “autopoietico”, cioè un contesto autoprodotto che esiste nella misura nella quale si produce in continuazione e dove ci sono gli elementi che permettono alle persone di starci, come il fatto di poter prendere delle decisioni o di trovare delle soddisfazioni; ad esempio ci vuole un bar che funzioni e tutta una vita sociale e culturale intorno a questo bar che sia vera.
Questo fatto di andare in vacanza è stato possibile perché convivono impresa e vita partecipata e su questo piano gli interessi degli abitanti del quartiere ad avere qui un momento di socialità si incontrano con gli interessi dell’impresa -bar e ristorante- a funzionare. Tendenzialmente sono cose che non si incontrano fra loro automaticamente, ma di nuovo la cosa fondamentale è che una persona impari a stare insieme a un’ altra diversa da lei.
Quali sono stati i problemi più grossi che avete incontrato nel far decollare l’impresa?
Fondamentalmente abbiamo fatto quello che nessun imprenditore farebbe. Chi aprirebbe qualsiasi attività commerciale in un manicomio nella profonda periferia nord-ovest di Milano? Va contro qualsiasi logica imprenditoriale. Non è un caso che molti progetti di impresa sociale falliscano, perché il fatto di non reggere dal punto di vista economico si accompagna a una situazione analoga anche sotto il profilo sociale.
Il nostro tentativo con l’associazione è appunto quello di creare un contesto culturale, e quindi sociale, favorevole perché l’impresa si regga. All’inizio abbiamo avuto un periodo faticoso nel dover promuovere tutto questo, però ci siamo anche accorti che quando lavoriamo bene non dobbiamo promuovere proprio niente: si sviluppa una forza di attrazione. Troppi progetti in campo sociale sono eccessivamente basati sulla promozione e in questo disperdono le loro energie, rivelandosi, alla fine, fallimentari.
Certo non esistono delle ricette, credo però che i progetti di un’impresa sociale debbano avere degli obiettivi ambiziosi, come quello di creare “sfera pubblica”. Faccio un esempio: uno dei primi artisti che è venuto da noi è stato Marco Paolini, nel novembre del ’95, e nella famigerata camera mortuaria ha portato “Vajont”; c’era un sacco di gente, poi è stato nostro ospite anche nei festival estivi. Il rapporto con gli artisti per noi è molto importante, specie con quelli che fanno teatro, perché loro intuiscono con una certa facilità luoghi inconsueti che si aprono ad un uso pubblico. Abbiamo cercato di proporre il Paolo Pini come luogo di cultura e di socialità per la città, per far capire che la cultura si può fare anche qui; e questo ha fatto sì che negli ultimi anni sia passata moltissima gente, gente di tutta la regione, ma anche molti artisti. Grazie a questo si è creata una situazione per cui al Paolo Pini sono possibili tutta una serie di cose impossibili in altri posti.
Nell’inverno 2001 Paolini ci ha proposto una sua idea sul 25 aprile, per vivere questa ricorrenza in modo non retorico, una forma di autoconvocazione di artisti, una festa pensante chiamata Appunti Partigiani; l’evento ci ha coinvolti tutti e durante quel 25 aprile tra le 6 del pomeriggio e le 3 di notte sono passate di qui più di 20.000 persone, sotto la pioggia, ad ascoltare un centinaio di artisti, che reinterpretavano a modo loro l’idea di fondare la democrazia. Anche questo rientra tra gli avvenimenti che nessuno di noi aveva previsto.
Attualmente discutiamo molto su come stabilire un rapporto sostenibile tra la nostra capacità di accoglienza e il richiamo dell’evento. Più grande è l’evento, o più cospicui sono i finanziamenti o semplicemente più crescono i progetti, più siamo costretti a mediare tra i vincoli delle procedure che tendono ad aumentare e le esigenze partecipative dal basso che tendono anch’esse ad aumentare. Non c’è una semplice via d’uscita. Ma forse i migliori momenti sono quando perdiamo il controllo, quando i risultati non previsti superano di gran lunga quelli programmati.
Adesso com’è la situazione degli ex degenti?
Fino al ‘98 qui c’erano ancora 200 ospiti; la maggior parte di loro ha trovato ospitalità in appartamenti fuori; questo è stato l’esito di un grande lavoro fatto da operatori, medici, infermieri, assistenti sociali, che con loro poi sono usciti. Era un progetto un po’ paradossale, perché la chiusura dei manicomi qui in Lombardia non è stato un fatto tecnico/politico, nello spirito dell’azione di Basaglia che, negli anni ‘70, cercava alleanze con le amministrazioni locali per chiudere i manicomi. In Lombardia c’è sempre stata indifferenza rispetto a questa battaglia di civiltà; lo dimostra il fatto che i servizi territoriali venivano tirati su accanto agli ospedali psichiatrici senza la minima relazione fra le due strutture; erano due tipi di utenze diverse, anche gli operatori che lavoravano all’interno dei manicomi venivano considerati di serie B. La Regione quindi ha chiuso i manicomi esclusivamente per una questione burocratica: costavano troppo; la molla che ha fatto scattare la chiusura è stata una legge finanziaria, non la legge Basaglia. Le Regioni che non avessero provveduto nei termini previsti avrebbero subìto dei tagli al loro bilancio. Ma nonostante questo paradosso, l’esperienza degli operatori che hanno lavorato per la chiusura del Paolo Pini è stata molto forte; i pazienti sono stati accompagnati sul territorio, dove si continua a lavorare con loro in un contesto di quasi normalità e il fatto di dover esplorare nuove situazioni operative, di inventarsi nuove soluzioni -perché nessuno aveva molta esperienza su queste cose- è stato molto importante e ha fatto sì che probabilmente oggi sono proprio loro gli operatori più motivati. Certo la chiusura ha prodotto anche molte turbolenze, primi fra tutti i familiari che si opponevano perché temevano che gli ex ospiti sarebbero stati abbandonati, poi i sindacati locali, preoccupati del peggioramento della situazione lavorativa dei loro iscritti. Noi non ci siamo lasciati condizionare e abbiamo cercato soluzioni concrete e praticabili. Per fare un esempio vorrei tornare un attimo al nostro progetto della piazza pubblica. Di fronte al bar/ristorante c’è un edificio molto carino, con un cortile interno e un colonnato, che era il vecchio convitto delle suore, e che nella fase di chiusura è stato utilizzato per sperimentare come si vive in comunità: ci stavano dodici ospiti con gli operatori; di questi poi sette si sono trasferiti in appartamento, cinque sono rimasti, quelli considerati un po’ lo zoccolo duro del manicomio. L’idea dell’amministrazione sanitaria era quella di affidarne la gestione a una cooperativa di tipo A, quelle che fanno assistenza, dichiarando gli ex-ospiti residenti nel convitto dimessi dal manicomio. Così ci saremmo trovati ad avere nella nostra piazza pubblica un probabile futuro cronicario. Abbiamo allora avanzato la proposta di occuparcene noi, cioè la nostra impresa (una cooperativa di tipo B, quelle per l’inserimento lavorativo) avrebbe preso in carico e assistito queste cinque persone, che sarebbero rimaste nell’ex convitto, a patto però che ci permettessero di trasformarlo in albergo.
La proposta è passata con qualche perplessità; la sua credibilità si fondava soprattutto sull’esperienza precedente, infatti già nel periodo di sperimentazione della vita comunitaria avevamo cominciato a ospitare nell’edificio dei volontari di varia provenienza, che partecipavano alle nostre attività produttive o studiavano i nostri progetti. Loro hanno cominciato a costruirsi una loro vita dentro all’ex-convitto, ma non perché dovessero occuparsi degli ospiti, semplicemente perché volevano rapportarsi a loro. Hanno iniziato a invitare degli amici, a cucinare i piatti dei loro paesi, a fare feste, insomma, a scombussolare la routine di quel posto, soprattutto hanno scombussolato i rapporti istituzionalizzati: facevano delle domande curiose agli ospiti, dimostrando un interesse che spesso gli operatori non avevano più, erano comunque disposti a spendere del tempo in quel contesto, in fondo anche loro avevano bisogno di compagnia.
Grazie a questo, dopo un po’, gli psichiatri hanno valutato che non c’era più bisogno del turno di notte, la comunità sperimentale si stava consolidando. La presenza di persone esterne dentro la comunità ci ha aiutato a portare avanti la nostra proposta, dimostrando che l’abitare non è solo qualcosa che ha bisogno di assistenza, ma anche di crescita, quindi essenzialmente di nuovi rapporti. Proprio sulla base delle valutazioni positive degli psichiatri sulla valenza terapeutica di questa commistione anche per i pazienti più difficili, la proposta è stata accettata. Si articola su due livelli, da un lato è tesa a sviluppare un progetto per l’abitare che sia evolutivo, cioè che porti gli abitanti a concepire il loro spazio abitativo sempre più come una casa; parallelamente portiamo avanti l’idea dell’albergo, che già è in funzione e ospita persone esterne, quindi c’è già una situazione di grande movimento e vivacità.
La nostra idea di fondo è ritrovarci, alla fine, con un albergo funzionante, che possa offrire un servizio a due/tre stelle, ma abbia anche stanze per i giovani di passaggio e per persone con difficoltà abitative. Pensiamo infatti che questa mescolanza alla fine trasformi positivamente entrambe le esperienze. L’idea di un’impresa sociale che sia capace anche di includere degli aspetti della vita di una persona che di solito hanno a che fare col sistema dell’assistenza -come l’abitare- perdipiù nell’ambito di un progetto qualitativo, dà a tutti uno slancio maggiore e contiene un enorme potenziale provocatorio rispetto alla neo-istituzionalizzazione dell’assistenza psichiatrica. Le cooperative di tipo A, le grandi comunità terapeutiche accreditate che ora si sono prese in carico chi prima stava nei manicomi, si limitano di solito all’assistenza intesa come fare quel poco che serve, senza prestare attenzione allo sviluppo delle capacità delle persone; tutto si riduce fondamentalmente a un lavoro di manutenzione. Quindi c’è più interesse a perfezionare lo stato di cose esistente che a cambiarlo e credo che questo oggi in Italia sia uno dei nodi cruciali: la gestione un po’ troppo affaristica di questo tipo di servizi, prescindendo dalla possibilità di dar credito ai soggetti coinvolti per uscire dal circolo chiuso dell’assistenza. Il lavoro che stiamo facendo in particolare con le amministrazioni pubbliche è di ritrattare un uso “produttivo”e individualizzato dei finanziamenti assistenziali. Attualmente gran parte dei fondi assistenziali servono per finanziare delle strutture; noi invece cerchiamo di riqualificare la spesa assistenziale trasformandola in un finanziamento/investimento per un percorso individualizzato. Stiamo ancora parlando di numeri molto piccoli e di quantità quasi omeopatiche. Ma fortunatamente ci sono altri esempi che vanno in questa direzione e si fanno strada; penso alle esperienze in Friuli o in Campania. Anche dopo Basaglia, in Friuli, per esempio, è continuato il tentativo di mettere in discussione i limiti e i principi delle nuove istituzioni nel tentativo di renderle intelligenti, di non farle accontentare del poco che c’è; molte persone hanno continuato a sperimentare per provare a vedere cosa succede spostando un po’ i confini dell’istituzione.
Per te spostare questi confini ha significato anche assumere delle responsabilità personali nel progetto di impresa sociale…
Attualmente sono presidente dell’associazione e della cooperativa. Non abbiamo una struttura molto gerarchica, molti progetti sono misti, fatti con partner esterni; è un laboratorio continuo di incontri, le decisioni prese dal consiglio di amministrazione non sono molte, spesso le cose vengono decise in termini operativi.
A volte, invece, il consiglio d’amministrazione è costretto ad affrontare le contraddizioni del proprio lavoro. Per fare un esempio, un socio lavoratore svantaggiato, dopo un lungo percorso che ha previsto le diverse tappe dell’inserimento lavorativo, ha spiazzato tutti dicendo di non voler più essere socio svantaggiato perché non si sente più tale, quindi vuole essere un socio lavoratore come tutti gli altri e con uno stipendio più alto.
Questo naturalmente mi ha fatto un piacere immenso, è stata una conquista molto importante; d’altro canto, per la cooperativa rappresenta un problema, perché come socio svantaggiato costa meno in termini di contributi.
Inoltre, da un punto di vista formale, ha tutti i requisiti per rimanere svantaggiato. Ora bisogna mettere allo stesso tavolo i due interessi, personali e della cooperativa, per cominciare a discutere. Sicuramente non c’è una facile soluzione e sono molto curioso di vedere come ne usciremo.
Un altro confine dell’istituzione sul quale c’è una certa omertà e di cui invece bisogna cominciare a discutere in maniera non pregiudiziale è quello del farmaco. Da noi molti soci lavoratori svantaggiati prendono farmaci, alcuni assumono anche una terapia importante; non credo sia facile eliminarli, credo però che bisognerebbe arrivare al punto che le persone stesse acquisiscano più elementi per capire quando, come e quanti farmaci prendere. Ma il discorso sulla consapevolezza, sia del medico che del paziente, e sul conseguente scambio di informazioni che dovrebbe consentire a entrambi di imparare di più, è ancora difficile da affrontare in sede psichiatrica.
Eppure, soprattutto nel caso della sofferenza psichica, è chi assume il farmaco colui che più di tutti può conoscerne l’effetto su di sé e quindi valutarne l’efficacia. Così torniamo di nuovo a doverci misurare con quel patrimonio di informazioni nascoste dentro la persona che non sempre è facile portare alla luce e che diventano palpabili solo nella pratica.