Notte d’Africa, la mia notte nera, mistica e chiara, nera e brillante …
Frantz Fanon con Michel Foucault e Erving Goffman pubblicati in Italia all’inizio degli anni sessanta, tradotti e proposti da Franca Ongaro e Franco Basaglia hanno, per noi più giovani di allora, aperto uno spiraglio su un mondo sconosciuto e nuovo. Da allora l’impegno che anche il Forum ha fatto proprio. Ci riuscissimo sarebbe quanto mai utile riproporre di volta in volta un focus, un’attenzione sui loro radicali contributi.
La formazione e auto-formazione, umana e politica, di Frantz Fanon (1925-1961) si rivela completamente nell’esperienza algerina, quando, come medico psichiatra, è membro attivo nel Fronte di Liberazione Nazionale.
E proprio dagli anni di lotta per la de-colonizzazione dei popoli africani parte il suo lavoro più noto – un libro cult negli anni Sessanta: I dannati della terra, edito, con la Prefazione di Jean Paul Sartre, pochi giorni prima di una morte prematura; accolto in un ospedale di Washington, in un estremo tentativo di vincere la leucemia.
Molti hanno letto in questo libro un messaggio in favore di uno scontro aperto di colonizzati contro colonizzatori; addirittura un incitamento allo scatenamento della violenza. Forse i lettori sono stati soggiogati dal pathos espressivo e sofferto del primo capitolo intitolato: Della violenza nel contesto internazionale. E la stessa prefazione critica di Sartre sembra legata a schemi interpretativi marxisti e di lotta di classe, formulati con assunti (forse troppo?) distanti dal pensiero politico attuale.
Propongo di procedere con coraggio nella lettura completa dell’opera.
Ma soprattutto di leggere un testo precedente, scritto da Frantz Fanon a ventisette anni, mentre si sta specializzando a Lione: Pelle nera, maschere bianche edito a Parigi nel 1952. Assicuro una interessante scoperta, non convenzionale.
Fanon nasce nel capoluogo delle Antille Francesi, Fort de France, l’antica Port Royale fondata nel tardo Seicento dai francesi che occupano la Martinica, “L’ Isola dei Fiori”, perla dei Caraibi. Lui adolescente, cresce ribelle e insofferente; lucido osservatore delle criticità, delle contraddizioni, delle distanze che si frappongono tra la società autoctona afro-antillana e i nuovi residenti, i colonizzatori francesi.
I versi – qui citati in apertura – sono frammenti tratti dal poema di Leopold S. Senghor Chants d’ombre, e sono proposti fra molte altre pagine poetiche e/o riflessive da Frantz Fanon: scelte per la grande rilevanza, quali fonti di ispirazione ideale, di appropriazione e consolidamento identitario personale ed educativo.
Infatti esattamente nel Capitolo V. L’esperienza vissuta del Nero l’Autore rivela la fatica di un lungo percorso di crescita, oscillante tra la forte spinta all’affermazione del proprio valore intellettuale ed operativo, e gli ostacoli frapposti, molto spesso frenanti e umilianti, per la supponenza pregiudiziale negativa agita contro un “Negro”.
Le violente conseguenze di un razzismo fattuale e ideologico, esperito sulla propria pelle, sono tradotte da Fanon in passi accesi di autenticità, di verità: un coming out chiaro, illustrativo, provocatorio.
Lui, che dalle Antille era ritornato in Francia, allo scoppio della seconda guerra mondiale, per arruolarsi volontario nell’esercito – interrompendo il regolare curriculum scolastico – conseguendo una medaglia al valor militare – non è e non si sente riconosciuto, quando frequenta l’Università a Lione: resta comunque un “Negro”, di cui ci si stupisce per l’intelligenza, la bellezza, l’educazione … doti insospettate, dunque, in un ex colonizzato afro-antillano (pur di alta cultura)!
Ma incistato nella categoria “Negritudine”, che crea sotto categorie/gerarchie di apprezzamento sociale: e in una scala che va dall’alto al basso ecco apparire i quasi bianchi; i mulatti; i negri (sic!). E l’aspirazione ossessiva alla de-negrificazione, allo sbiancamento, alla purezza del “Bianco”.
Il dramma è quello di “sentire sottolineata la propria diversità”; di “vedersi cacciato in uno stato di inferiorità”; di “sentirsi costantemente perseguitato da uno sguardo osservante e giudicante non empatico”; di “non sentirsi mai nel posto giusto”; “mai accolti”. Da tutto ciò prende forma un vissuto di alienazione, più tardi diagnosticato con chiarezza come frutto malato, conseguenza diretta delle ingiustizie subite in una società coloniale, in un sistema coloniale. E in un sistema gerarchico di valori o disvalori razziali.
Frantz Fanon, riconosciuto psichiatra di vaglia, chiede di poter lavorare ad Algeri in un manicomio periferico che rinchiude centinaia di ragazzi, donne e uomini, sofferenti per gli abusi subiti, di cui parlano esplicitamente anche i loro sogni, proiezioni di un inconscio – registro allucinato di esperienze reali devastanti. Sogni simili a spiragli, incrinature, vie d’uscita, dell’indicibile.
Come medico, Fanon mette in atto protocolli di cure del tutto innovative, di stampo fenomenologico (ad esempio introduce per primo la presa in carico “leggera” del day hospital). Soprattutto rivela una totale adesione e compartecipazione umana verso/con i suoi pazienti: ne riconosce i tratti per ricondurre i loro problemi, i loro sintomi malati a una reificazione assoluta. Sono vissuti di sofferenza – paradigmi esemplari che proclamano a gran voce la condanna esplicita di tutte le forme di prevaricazione e di razzismo presenti in relazioni intersoggettive o intercomunitarie non lineari. Relazioni sbilanciate. Rivelazioni di abuso di potere.
Dai testi più famosi di Jean Paul Sartre, Fanon estrapola brani che propone criticamente in forme dialettiche. In altre pagine bellissime per chiarezza e lucidità di scrittura, propone un’analisi pragmatica della realtà, del “reale” lacaniano. Soprattutto affianca e mette sullo stesso piano il rifiuto stigmatizzante agito contro le minoranze additate e nemiche; fatte di volta in volta da ebrei, o negri, o arabi, o musulmani, o … ancora e ancora …
Da tutto ciò, dal non riconoscimento dell’ “Altro” come umano, per Frantz Fanon nasce l’evidenza di una strategia premeditata, di una volontà politica che gioca “con” e “sugli” istinti peggiori delle persone: l’invidia, l’odio, l’ignoranza.
E … consequenzialmente … e non solo nelle Colonie o nelle ex Colonie …
Porta alla sofferenza – per stadi progressivi di disgregazione, di disumanizzazione, di impoverimento – tutta la società nel suo complesso.
Porta alla lotta, allo scontro frontale, parti contrapposte totalitarie, manichee, escludenti fino all’annientamento.
Porta alla ribalta – come falsi valori – pregiudizi, violenza, oppressione, rifiuto, degradazione.
Porta alla minorità, alla sottomissione, alla umiliazione.
Porta – infine – alla negazione di ogni dignità, rispetto, diritti dell’Uomo.
da “il Ponte Rosso” Trieste