Intervista a Peppe Dell’Acqua sull’aumento dei Tso a Bolzano, il disturbo mentale e l’incontro con Basaglia, padre della legge 180 che sancì la chiusura dei manicomi.
Dottor Dell’Acqua, a quanto pare a Bolzano si è verificato un drastico aumento dei trattamenti sanitari obbligatori (Tso), è un caso isolato quello del capoluogo altoatesino oppure il fenomeno è in aumento su tutto il territorio italiano?
Il territorio italiano, in questo campo, è una sorta di “pelle di leopardo”. Bisognerebbe iniziare con il dire che cos’è il Tso: uno strumento di garanzia e di grande civiltà che lo Stato mette a disposizione del cittadino per garantire il suo diritto alla cura anche nelle situazioni più difficili e controverse.Viene istituito nel maggio 1978, quando una legge, la legge 180, restituisce i diritti costituzionali ai malati di mente, cittadini di serie B fino a quel momento, senza diritti e senza voce. Tina Anselmi e la commissione che presiedeva, votò la legge che restituendo i diritti costituzionali al cittadino, anche se matto, avviava la chiusura dei manicomi. Una circostanza molto particolare quel 13 maggio. Aldo Moro era prigioniero delle Brigate Rosse. Ed era stato proprio il giovane Moro a scrivere l’articolo 32 della Costituzione il quale sanciva che ogni cittadino ha diritto alla cura e alla salute nel massimo rispetto della sua libertà e dignità. Adottando il Tso si mette in pratica un’operazione molto semplice. Si stabilisce che alle persone, anche quando rifiutano le cure – circostanza che accade di frequente nel caso del disturbo mentale – va garantito il diritto alla cura con tutte le tutele a difesa della libertà e della dignità.
È uno strumento tuttavia notoriamente controverso quello del Tso.
Si ha la tendenza a dire che il Tso sia un’imposizione, una vergogna assoluta, ma non è così, ovviamente a patto che lo si applichi nei termini di una negoziazione che il medico, lo psicologo, l’infermiere, l’educatore e il servizio pubblico deve fare con il cittadino. Il trattamento sanitario obbligatorio è un punto di estrema delicatezza e di fragile equilibrio. Dovrebbe essere messo in atto quando gli stessi servizi pubblici, una volta espletate tutte quelle forme di attenzione, di negoziazione, di avvicinamento e accoglienza nei confronti della persona e riscontrando un disturbo mentale e verificando il rifiuto della persona stessa alla cura, non possono fare altro che chiedere al sindaco di emettere un’ordinanza perché questa persona possa essere curata. È quando esplode il disturbo mentale e non si sa come gestirlo in assenza di servizi territoriali, di presenze adeguate intorno alle persone, di dispositivi attenti e rispettosi, che si utilizza il Tso fuori dalla sua vocazione alla negoziazione e all’accoglienza. E’ così che rischia sempre di diventare uno strumento repressivo o, ancora peggio, va a coprire una quantità di contraddizioni che si trovano all’interno del tessuto sociale dove quella persona vive.
Soluzioni?
Occorre un modello del fare salute mentale che si sviluppi nella comunità e nel territorio, che ci siano centri di salute mentale aperti più a lungo possibile, possibilmente 24 ore su 24 per 7 giorni, che ci sia una visione del disturbo mentale molto più centrata sulla persona, un’attenzione alle relazioni e una risposta ai bisogni che la persona esprime nel momento del suo malessere. Quando questo accade i Tso si riducono. In Friuli-Venezia Giulia, come ho appena detto, si arriva a 5-7 Tso all’anno per 100mila abitanti, a fronte di una media nazionale di 16-17 per 100mila, con dei picchi che si aggirano intorno a 30-35 in regioni come Sicilia, Valle d’Aosta, Emilia e Romagna. Anche tre al giorno una tantum a Bolzano mi sembrano troppi per un città di quasi 107mila abitanti, sono dati che andrebbero verificati.
Un elevato numero di Tso non implica anche un sovraccarico di lavoro per il personale medico e infermieristico che può incidere sull’effettivo processo di cura della persona?
Sì e no, è un sovraccarico soprattutto per le forze dell’ordine e il Comune se i servizi territoriali sono carenti o riluttanti. La persona con disturbo mentale una volta fatto il Tso arriva nel servizio psichiatrico di Bolzano già etichettato, per così dire, predisposto per il trattamento che in quel luogo metteranno in atto. I sanitari lo prendono e lo mettono a letto, gli somministrano dei farmaci, se protesta lo legano. È evidente che il rapporto con una persona in crisi deve risolversi in modi ben diversi.
Lei dice: il ricorso frequente al Tso è direttamente proporzionale alla carenza di servizi, l’Alto Adige a suo avviso è una provincia poco virtuosa in questo senso?
In Alto Adige esiste una psichiatria ospedaliera, medica, oggettivante. Si utilizzano protocolli di terapie farmacologiche che sono al di fuori di ogni razionalità, è uno dei pochi territori in Italia dove si fa l’elettroshock e si usano pratiche restrittive come le porte chiuse e la contenzione, con la virtuosa eccezione del servizio psichiatrico di Merano. La visione è quella di un malato oggetto. Il punto chiave è che c’è una mancanza di servizi di salute mentale adeguati, orientati alla persona, all’integrazione, all’abitazione, alla rimonta, alla recovery, come oggi si dice; servizi che siano in grado di intervenire e negoziare prima ancora che si ricorra al Tso. Tutto ciò diventa un indicatore di presenza di una psichiatria poco gentile che non riesce a vedere il soggetto. Penso anche ad alcuni istituti per persone con handicap dove sono stati fatti programmi meravigliosi, eppure restano delle sacche che sono omologabili alle psichiatrie tedesche degli anni ’30.
Pensa anche all’episodio relativo alla presentazione del libro “E tu slegalo subito…”di Giovanna Del Giudice a Salorno quando critica il sistema altoatesino?
Un fatto che è un altro indice dell’assenza di una cultura di salute mentale comunitaria e che rivela una presenza prepotente e devastante di una psichiatria arcaica, che vuole accreditarsi come moderna, scientifica. È emblematico il fatto che si facciano campagne in Italia e in Europa per l’abolizione della contenzione e di contro ci siano ancora luoghi in cui non se ne può nemmeno parlare.
C’è una connessione fra indigenza e sofferenza psichica?
Può esserci, certamente, ma spesso più che solo un dato di povertà è una condizione di miseria delle relazioni. Parlando di Alto Adige, poi, fa specie parlare di povertà. Credo che il sindaco Caramaschi non parlasse solo in termini economici, descrivendo la situazione, ma di condizione di disagio che emargina dai contesti sociali un numero di persone sempre più elevato. Di una città che fa fatica ad aver cura dei suoi cittadini come vorrebbe.
La maggiore possibilità economica, tuttavia, può essere un elemento che “salva” il soggetto dal subire un Tso?
Dall’abuso e dalle storture ti può difendere. Ma credo salva soprattutto dall’abbandono.
Ma così non si creano pazienti di “serie A” e di “serie B”?
Ebbene sì. Il disturbo mentale comporta una deriva sociale. E più si va in basso più si indeboliscono i diritti delle persone, diventa più rischioso il loro vivere in mezzo agli altri e più concreta la possibilità che venga riconosciuta una malattia da curare o che si applichi il Tso.
L’Alto Adige è anche una delle zone con il più alto tasso di morti per suicidio in Italia.
Quella dei suicidi è anche una tragica eredità dell’impero austro-ungarico che Trieste si sta lentamente scrollando di dosso. Si dice che la bassa Austria e anche i luoghi di confine come il Sudtirolo erano una spina nel cuore dell’imperatore Francesco Giuseppe perché anche allora, alla fine dell’800, si registravano alti tassi di suicidio. Dunque sì, c’è una situazione storica ma questo non giustifica nulla. Il suicidio è solo in certe circostanze una conseguenza o un esito di un disturbo mentale. Solo al 20-25% delle persone che si tolgono la vita era stato diagnosticato nel mese o nell’anno precedente un disturbo mentale, il restante 70-75% non rientra in queste specifiche, sono dati su cui riflettere e rimandano a una miriadi di condizioni che convergono verso un denominatore comune che è la solitudine, l’isolamento, la fragilità inascoltata.
Qual è la sua opinione riguardo ciò che avrebbe dichiarato il sindaco Caramaschi e cioè che “la società odierna, e la nostra città non fa eccezione, non dà spazio a tentennamenti. Se si perde il ritmo, si resta indietro ed è difficile recuperare”? Sembra la descrizione di uno scenario in cui chi inciampa perde la corsa alla dignità umana, alla possibilità di una vita “normale”.
È vero che c’è un allargamento della forbice tra garanzia e non garanzia, tra ricchezza e povertà dove la povertà si esprime anche con un disagio, con una fatica del vivere, che diventa incontenibile. C’è una formidabile fuga verso l’individualismo estremo, ognuno di noi è chiuso nel suo spazio e non vede più l’altro fuori da sé, si perde l’immagine della collettività, di una società accogliente. Pensiamo solo a ciò che accade con gli immigrati. Dobbiamo promuovere di più la cultura dell’incontro, aggregare, mettere insieme. Abbiamo bisogno di vivere gli uni con gli altri.
Stiamo entrando in una nuova era in cui le istituzioni cominciano a cambiare le proprie strutture per quel che riguarda la malattia mentale. Mi riferisco ad esempio agli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) – per la cui chiusura lei si è battuto molto anche con il viaggio di Marco Cavallo e la campagna stopOPG – che oggi sono rimpiazzati dalle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems). Come sta avvenendo questo rito di passaggio?
C’è da meravigliarsi per quanto è strano questo nostro Paese. Quando l’ultimo internato ha lasciato, alla fine di gennaio di quest’anno l’Opg abbiamo potuto finalmente dire che i 6 manicomi giudiziari sarebbero diventati un ricordo. Ed è straordinario perché ci abbiamo messo meno di due anni e mezzo per realizzare quanto la nuova legge prescriveva. Si sono strutturate circa 30 Rems in tutte le regioni italiane e anche questo è un dato parzialmente positivo. Va riconosciuto senz’altro il fatto che siano stati chiusi gli Opg e che rapida è stata la costruzione di questa alternativa che deve essere considerata transitoria. L’obiettivo non è quello di trasferire le persone dal grande istituto a un mini Opg. Erano 1.500 le persone internate in questi ospedali quando è partita la campagna per chiuderli, oggi sono meno di 600 nelle Rems di tutto il paese. Si sono moltiplicate le misure di sicurezza alternative, vengono realizzati progetti terapeutici individuali, c’è il coinvolgimento dei dipartimenti di salute mentale. Ed è un lavoro che deve andare avanti. Molti psichiatri e magistrati continuano a credere che le Rems siano il sostituto dell’Opg, ma non è così. Lo sono le reti sociali e terapeutiche di cura per la persona. E questa è la scommessa più grande che stiamo cercando di vincere.
Lei ha creato la collana “180. Archivio critico della salute mentale” (Edizioni Alpha Beta) nel 2010. Che ruolo ha per lei la comunicazione anche nell’ottica di un cambiamento dello status quo?
È fondamentale. Un esempio eccezionale è il servizio che Sergio Zavoli fece per tv7 nel manicomio di Gorizia nel 1968, “I giardini di Abele”. Aprì l’armadio e fece uscire gli scheletri. Zavoli ebbe il merito di non mostrarci chissà quale orrore, cosa che invece la comunicazione dell’epoca usava fare. Ci ha fatto vedere delle persone che riflettono su loro stesse, che desiderano una vita diversa, fuori dal manicomio: persone, soggetti che sperano di diventare cittadini. Beh, io credo moltissimo nella necessità di comunicare, l’abbiamo fatto con Marco Cavallo già dal 1973 e poi girando l’Italia nel 2013 entrando col cavallo in tutti i manicomi giudiziari, e ancora attraverso il teatro e il cinema. E a proposito di cinema, penso ai tentativi fatti per raccontare, in chiave narrativa, la cultura della malattia mentale, come La Pazza Gioia di Paolo Virzì o A Beautiful Mind di Ron Howard, per esempio. Noto, tuttavia, che i giornali ancora parlano di disturbo mentale esclusivamente attraverso fatti di cronaca e così il pazzo diventa per definizione pericoloso. Un’immagine falsa che non trova nessun riscontro nei dati. Pensi che quando si era in procinto di fare la legge 180 si fecero profezie terribili, che sarebbero aumentati i suicidi, gli omicidi, gli stupri, e non solo non è accaduto nulla di tutto ciò ma l’Italia, a differenza di altri paesi europei che hanno fior di manicomi, registra un tasso di suicidi che è il più basso in tutta l’Europa occidentale.
Di Basaglia conosciamo tutti l’ardore, la determinazione e le sue rivoluzioni, ma com’era lo psichiatra veneziano nella vita quotidiana, lei che ci ha lavorato fianco a fianco?
Era molto bello stare con lui. Io l’ho conosciuto che avevo 24 anni, è stata la svolta della mia vita. Chiedeva molto a noi ragazzi, si cominciava la mattina alle 8 con una riunione e si finiva alle 5-6 del pomeriggio con un’altra riunione di fine giornata che poteva continuare fino alle 9 di sera, e poi si andava a mangiare la pizza insieme perché bisognava continuare a parlare. Era sempre capace di ribaltare le questioni, di riproporle da un altro punto di vista, facendo attenzione alle sfaccettature. È stato in grado, a differenza di tanti all’epoca che forse pure si rendevano conto dell’orrore del manicomio, di assumersi delle responsabilità molto gravose, perché Basaglia si è mosso, aprendo porte, attivandosi anche in mancanza di una legislazione. Era appassionato, ironico e autoironico. Con noi scherzava spesso, ma se sgarravamo non ce le mandava a dire. Se esageravamo con le nostre esuberanze giovanili ci ricordava che avevamo di fronte una marcia lunghissima e incerta, ti diceva “ma tu hai capito che lavoro stiamo facendo qui?”. Se si arrabbiava il giorno dopo ti chiamava e ti spiegava il perché in una dialettica costante che era la sua forza. Aveva la passione delle vecchie cose, quando finiva di lavorare, se faceva in tempo, andava dai rigattieri in città vecchia a comprare una borsa da medico o un vecchio telefono. Mi ricordo che quando andai a Parma a conoscerlo mi trovai in una sala dove si stava tenendo una riunione e per me fu una novità, nessuno aveva il camice bianco e io venivo dall’università dove ci mettevamo tutti in fila davanti al professore. Basaglia mi venne incontro salutandomi e mi disse di dargli del tu mettendomi in un imbarazzo pazzesco, tant’è che io per anni non l’ho chiamato per nome e usavo espressioni come “cosa si fa?”, oppure “adesso sarebbe bene…” [ride], per evitare di trovarmi nella situazione di dargli del tu. Ma chiudo qui, sennò divento nostalgico.
(da: https://www.salto.bz/it/article/25062017/i-matti-e-linamovibile-sudtirolo)