Quando Marco Cavallo, a Secondigliano nel novembre 2013, incontrò 75 internati.
Alle dieci del mattino siamo nell’area del penitenziario di Secondigliano, ci ritroviamo da soli davanti ai cancelli blindati le lungaggini di Aversa hanno di fatto cancellato l’appuntamento di ieri. C’è solo una studentessa ad aspettarci. La freddezza e le geometrie del cemento armato incutono paura. Anche qui lista, documenti, cellulari. Anche qui cemento, muri, doppi portoni blindati, guardiole. Come in tutti i luoghi che vedremo, gli spazi, le prospettive, gli angoli segnano più degli uomini e delle parole la finalità propria dell’istituto. La pericolosità abita ogni angolo, impregna con la tensione della sua presenza ogni cosa. Chi è costretto a vivere nell’Opg deve confrontarsi quotidianamente con queste immagini. L’immutabilità dell’esperienza dello spazio costringe gli internati a difficili esercizi di riduzione di sé, di sottomissione all’istituzione in un tentativo di sopravvivenza per salvaguardare al proprio interno almeno un brandello della propria dimensione umana. Costretti in questi luoghi, gli internati ridimensionano il loro sentire, introiettano le regole dell’istituto, interrompono il loro dialogo col tempo. Diventano, loro malgrado, ciò che noi conteniamo nella categoria del “malato pericoloso”. La continuità dell’esistenza, l’estensione lineare della storia personale subisce minacce, attentati e fratture crudeli. Le persone, per difesa, per sopravvivere, devono accettare quella unica e piatta identità.
Ci accoglie il Direttore sanitario Michele Pennino, assistenti sociali, alcuni educatori e operatori penitenziari che desiderano mettersi a nostra disposizione. Il Cavallo si ferma nel cortile e nel cortile vengono a trovarlo una trentina d’internati. In quel momento a Secondigliano sono circa 70. Intorno al Cavallo cominciano le domande e le testimonianze. Le storie che questa volta possiamo ascoltare in un’atmosfera più raccolta rimandano ossessivamente agli stessi insensati percorsi e tuttavia le parole di Giuseppe, di Renato, di Sergio e degli altri restituiscono ogni storia al suo singolare dolore. Michele Pennino ci racconta tutta la sua fatica per superare l’insensatezza della quotidianità, per cercare una possibilità, un piccolo concreto progetto per ognuno degli internati, per resistere. Tutti insieme alla fine di questa chiacchierata beviamo un caffè. Giuseppe con una cicatrice sul volto che testimonia chissà quale tragica esperienza accarezza il cavallo e dice: “Un cavallo deve andare per i prati e deve essere libero, allora sì che è un cavallo. I cavalli legati alle carrette finiscono di essere cavalli”. Nelle storie le stesse sequenze. Solitudine, abbandono, incuria e poi un reato, magari piccolo e poi i servizi che non ci sono e poi un reato ancora, e poi ancora uno e il giudice che chiede la perizia e il perito che dichiara l’infermità di mente e l’incapacità d’intendere e di volere e la pericolosità sociale e il giudice che sospende il processo e ordina l’internamento, la misura di sicurezza, per due, cinque o dieci anni. Ma se l’insensato e incomprensibile giudizio di pericolosità sociale persiste come per tanti di quegli uomini che abbiamo incontrato in ogni istituto la misura di sicurezza, di conseguenza, si proroga e poi si prorogherà ancora e ancora.
estratto da "IL VIAGGIO DI MARCO CAVALLO" from ERIKA ROSSI on Vimeo.