[foto di Marisa Ulcigrai]
Di Peppe Dell’Acqua
Perché proprio oggi parlare di schizofrenia?
Intanto il testo così denso ed emozionante che ha inviato Elena quasi pretende che se ne parli.
Potrei dire per cominciare che la diagnosi di schizofrenia è soltanto un’astrazione e non corrisponde a qualcosa di concreto, di unico e di certo. Voglio dire che la mia e la vostra esperienza ci insegna che alla diagnosi di schizofrenia non corrisponde un quadro di sintomi uguali e riscontrabili sempre, alla stessa maniera in tutte le persone, in ogni tempo. E che le persone che vivono l’esperienza della schizofrenia sono una diversa dall’altra e in ognuna di esse i sintomi e i comportamenti si annodano e si snodano in maniera completamente differente. Non esiste un’unicità di cause, non esiste un unico percorso che conduce alla formazione dei sintomi e alla produzione dei comportamenti. In maniera diversa incidono gli eventi della vita, le relazioni, il contesto sociale.
Insomma, alla parola schizofrenia non corrisponde una malattia unica e definita. Come invece alle parole diabete, infarto, tubercolosi corrispondono quadri clinici meglio definibili e circoscritti. Sintomi che nascono e si formano con cadenze universalmente note e che possiamo riscontrare sempre uguali in diverse persone anche quando il contesto cambia.
Tutto questo discorso ci porterebbe troppo lontano. Qui ho voluto soltanto accennare agli interrogativi che ci accompagnano cercando di scoprirne la ricchezza e i limiti e dare valore alla nostra incertezza.
Naturalmente non significa che non sappiamo di che cosa stiamo parlando. Significa invece che stiamo cercando di articolare meglio le nostre domande di fronte a un problema che continua a interrogarci.
La parola schizofrenia meglio si presta a essere intesa come un contenitore, dove trovano posto parole e definizioni diverse, che rimandano a condizioni simili, come psicosi, disturbo psicotico, psicosi in personalità psicopatica, dissociazione, sindrome dissociativa, psicosi schizofrenica, sindrome schizofrenica. E altri termini che pure vengono comunemente utilizzati.
Ecco, quando diciamo schizofrenia, ci riferiamo a tutto questo.
Forse parole relativamente recenti, come ad esempio psicosi o disturbo psicotico, apparirebbero meno connotate in termini di inesorabilità, di destino, di stigma, come invece continua a essere la parola schizofrenia. Oggi il destino di inesorabilità non è più vero. Le persone con schizofrenia sempre più ci stupiscono per la loro capacità di farcela, di riprendersi. Perfino di guarire.
Alcuni dicono che sarebbe bene trovare un’altra parola per dire di questa condizione. Ma significherebbe solo censurare la parola schizofrenia, nasconderla e negarla confermando quanto a essa si attribuisce di mitico, di misterioso, di alieno, di destino.
Al contrario io penso che bisogna consumarla e corroderla, questa parola. Oggi possiamo farla esplodere, riempiendola delle esperienze nuove e positive di tante persone.
Vivere con la schizofrenia non ha impedito a John Nash di vincere il Nobel per l‘economia, non ha impedito a Gianni di diventare portiere d’albergo, non ha impedito a David Helfgott di girare il mondo con i suoi concerti, non ha impedito a Marina di laurearsi in chimica concludendo il suo dottorato in Svezia e di diventare una ricercatrice, non ha impedito a Philip Dick di scrivere i romanzi e i racconti che lo hanno reso un interprete unico dei nostri tempi, non ha impedito a Nicole di riprendere il suo lavoro e di diventare la splendida madre che è.
Vivere dolorosamente con la schizofrenia ha permesso malgrado tutto a Paolo di andare almeno il martedì pomeriggio all’allenamento della squadra di calcio della sua associazione, a Silvia di essere una brava banconiera al bar della cooperativa anche se solo per quattro ore al giorno, di più proprio non ce la fa, a Mauro di partecipare al gruppo di scrittura e di riprendere la penna lasciata da parte da molto tempo e finalmente tornare a scrivere le sue belle storie.
Vivere con la schizofrenia nel manicomio che ti ruba il tempo e le parole non ha impedito a tanti uomini e a tante donne di riaversi, di ritornare a vivere magari con timidezza e con una ritrovata curiosità. E infine non ha impedito a Giovanni Doz, chiuso per trent’anni nel manicomio di San Giovanni, di ritornare nel suo paese in Istria, di riprendere il suo posto nella barca del fratello e la domenica pomeriggio giocare a briscola con gli amici nell’osteria di Umago.
E anche quando sembra che vivere con la schizofrenia sia la condanna inesorabile all’isolamento, al delirio e all’ostilità più cupa, anche quando sembra di essere finiti in una trappola è sempre possibile, oggi, individuare uno spiraglio, una via d’uscita.
L’infermiere del centro di salute mentale che accompagna Roberto alla partita della Triestina: ogni volta è una scommessa perché già dal venerdì Roberto si arrabbia con la madre e telefona al centro per dire che no!, che questa volta non andrà, che basta! E invece sì.
La cooperativa agricola che organizza un corso per giardinieri e un operaio che con ruvida gentilezza riesce a convincere Marisa a restare in aula e poi nel giardino per quasi l’intera mattinata.
E quella volta che Giorgio si era chiuso nella stanza, sigillando col nastro adesivo porte e finestre, e la paura di essere avvelenato lo aveva costretto a un digiuno inesorabile, che lo aveva reso cattivo, perfino malvagio. E poi l’intervento degli operatori del centro, la durissima trattativa, il trattamento sanitario obbligatorio. E poi via da casa, le parole, il farmaco, le cure. E adesso sembra che Giorgio ricominci a parlare con meno rancore con sua madre. E a pensare che forse le vuole bene.
[da un paragrafo rivisto di Fuori come va? Famiglie e persone con schizofrenia. Manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi di Peppe Dell’Acqua, ed. Feltrinelli, III edizione 2014]