di Enrico Baraldi e Alberto Romitti*
E’ un fatto recente che si rivolgano agli psichiatri o alle autorità della legge persone che hanno subito mobbing sul lavoro o stolking nella vita privata. Nessuno ha sfiorato loro un capello eppure la loro esistenza è sconvolta da una pressione psicologica indebita e la quotidianità diventa un inferno.
D’altra parte a chi subisce un incidente è ormai riconosciuto un congruo risarcimento anche per il “danno psicologico” e per il “danno morale”, che non solo si aggiungono, ma anzi meglio definiscono e completano l’invalidità fisica.
Il concetto di “salute mentale” è dunque entrato a pieno titolo nella vita di tutti e chi la sente minacciata rivendica il diritto e la protezione, chi ne ha subito un attacco pretende una riparazione.
Spesso colui che si rivolge all’operatore psichiatrico mette in evidenza fin da subito il bisogno che tutti abbiamo di “salute mentale”: “Non c’è un senso alla mia vita” – sussurra il depresso – , “La televisione parla di me e la mafia internazionale ha cambiato i miei genitori” – afferma perentoriamente la persona con sintomi deliranti – , “ …Sono tentato di fare del male a mio figlio che è ciò che amo di più al mondo” – conclude il genitore ossessivo – .
Altre volte sono i familiari stessi del paziente a rimandarci il vuoto e l’angoscia che compromettono la loro “salute mentale” nella vicinanza a un congiunto per il quale sembra persa la speranza.
Quasi mai si pensa alla “salute mentale” di quanti per professione operano nella psichiatria. Eppure queste persone, psichiatri, psicologi, infermieri, educatori e assistenti sociali, sono in continuo contatto con una sofferenza psicologica profondamente coinvolgente: quante volte capita che si “portino a casa“ le vicende cliniche e umane dei pazienti !
Talvolta vengono individuati come inadeguati o poco responsabili e divengono oggetto di critiche che, almeno in parte, hanno il senso di fornire una qualche spiegazione nei confronti di un dolore troppo difficile da accettare.
Più spesso di quanto si possa pensare, essi stessi sentono di essere poco “attrezzati” di fronte a sofferenze che hanno ancora, nonostante i progressi delle neuroscienze, della psicofarmacologia e delle diverse teorie psicologiche, qualcosa di indecifrabile, misterioso e talmente complesso da coinvolgere livelli personali, familiari e sociali degli operatori stessi oltre che dei loro pazienti.
Invece uno strumento fondamentale della cura, è la fiducia in se stessi e nella capacità di contenere quel “grande disordine sotto il cielo” che il contatto con la malattia mentale evoca in ognuno, perché va a sfiorare proprio la sofferenza che ciascuno si porta dentro. Paradossalmente si potrebbe affermare che la preparazione degli operatori della salute mentale si basa in qualche modo sulle loro debolezze: è attraverso la consapevolezza delle proprie difficoltà che ci si avvicina a quelle degli altri.
Gli operatori della psichiatria, come tutti coloro che lavorano nella sanità, devono avere i loro sistemi di “difesa”, anche perché lo strumento più importante che utilizzano è la loro stessa “salute mentale” . Per mantenere vivo ed efficiente questo strumento si formano e si informano e soprattutto condividono nel gruppo di cura le loro preoccupazioni per elaborarne opportunità per il paziente. Infatti alla capacità di comprensione deve conseguire un saper agire creativamente, cercando alleanze e risorse, non da ultimo nei loro pazienti che sono portatori di storie e vicende umane impensabili, ma anche di capacità rigeneranti.
Si sostiene che per lavorare bene sia indispensabile avere una duplice fede: l’una comporta la fiducia nelle proprie capacità, nel proprio intuito e nel processo di cura che si mette in atto; l’altra può essere intesa più in senso stretto, come fede religiosa, politica o sociale, purché non divenga a sua volta una “difesa” che comporta scelte preordinate e sempre uguali, o rimandi consolatori a un aldilà nel tempo e nello spazio.
Ma è altrettanto vero che da soli gli operatori psichiatrici non possono essere in grado di salvaguardare la loro “salute mentale” e rischiano perciò di perdere il loro valore terapeutico. Per questo cerchiamo azioni condivise con la società civile e forse, ancora di più, parole di collaborazione. Non c’è infatti ricerca di “salute mentale” che possa essere di alcuni e non di altri, di alcuni a discapito di altri o di alcuni contro altri.
E’ questo il senso che, dall’esperienza di lavoro quotidiano con quanti collaborano con noi, vorremmo trasmettere alla nostra comunità nella Giornata Mondiale della Salute Mentale.
* Psichiatri, Centro Psico Sociale di Mantova