Il filosofo e psicanalista mette in guardia sul futuro e ricorda: «La pazzia è il costitutivo della nostra identità»

di SERGIO BUONADONNA

VENEZIA Umberto Galimberti aprirà a Venezia il Festival dei Matti con una durissima denuncia. «La condizione dei cosiddetti matti oggi è precaria. Temo che prima o poi si riapriranno i manicomi, che sono nati più per difesa del sociale dal matto che per la cura. Siccome oggi le istanze di sicurezza sono eminenti rispetto alla cura dell’altro, ho paura che prima o poi queste persone verranno di nuovo recluse come peraltro riteneva Basaglia un anno prima di morire nelle sue Conferenze brasiliane. Perciò la conquista della chiusura dei manicomi va difesa».

Per questo è importante portare le storie dei matti al centro di una riflessione culturale?

«Sì perché i matti non lo sono per sempre, ma solo quando hanno delle crisi. Non è che lo schizofrenico è sempre tale, la schizofrenia ha forme e manifestazioni differenti. Così è stato per Artaud, per Alda Merini, per tutti coloro che ne soffrono. Quindi come è pensabile di reinserire queste persone che episodicamente sono fuori dal mondo recludendole dal mondo come appunto prevede la struttura manicomiale?»

La scienza tende a totalizzare le vite e le esperienze?

«Dopo l’Ottocento quando con Griesinger si diceva che le malattie mentali sono malattie del cervello, c’è stata una riconsiderazione della condizione della follia. Freud ha cercato una interpretazione, Bleuler ha inventato il concetto di schizofrenia, Jaspers, Binwanger e altri hanno guardato fenomenologicamente alla follia a livello individuale e con i suoi risvolti biografici. Adesso siamo arrivati di nuovo a Griesinger in una modalità aberrante dove i quadri diagnostici non sono costruiti in base all’osservazione e al sapere, ma decisi sull’efficacia farmacologica. Per esempio il panico risponde bene agli antidepressivi e allora cosa si fa? Lo si chiude nel quadro diagnostico della depressione quando con essa non c’entra nulla. Se è la farmacologia a decidere le diagnosi vuol dire che siamo ridotti male. Io non sono contro i farmaci, ma non possono essere l’ultimo dettato della comprensione dell’uomo».

Ci si può sottrarre a questa presa rimettendo in campo la soggettività delle biografie?

«Temo di no, perché siamo passati da una società della disciplina come lo era fino al 1968 ad una dell’efficienza e della performance spinta che ha due matrici: una è il ’68, l’altra è il modello americano. “Vietato vietare” era uno slogan che si è perfettamente incastrato con il modello che ti dice di non guardare i tuoi limiti, di competere, di raggiungere il massimo delle tue possibilità, di superare gli obiettivi la cui asticella si alza sempre di più. Vivendo in una condizione simile, anche la depressione non è più organizzata attorno al senso di colpa, ma al senso di inadeguatezza: cioè ce la faccio o no ad essere all’altezza degli obiettivi che mi si propongono? E siccome dai risultati deriva il riconoscimento e dal riconoscimento il rafforzamento o il misconoscimento della propria identità ecco il ricorso agli psicofarmaci o, in alternativa, alla cocaina».

Quali parole e invenzioni occorrono per modificare questo stato di cose?

«Non vedo tante strade perché il problema è che ormai gli uomini non sono più i soggetti della storia, ma dei funzionari di apparato e devono funzionare esattamente come le macchine che hanno davanti tutto il giorno a partire dal computer. Quindi sono guardati solamente per la loro efficienza e funzionalità. E una volta che l’uomo è ridotto a questo ed è omologato alla macchina che non ha umori, non si ammala, non resta gravida, non si assenta, resta solo l’attenzione alle sue prestazioni».

Filosofia e letteratura possono svolgere un ruolo alternativo?

«Letteratura e filosofia sono la volontà di potenza debole rispetto all’economia e alla volontà di potenza forte per cui la filosofia soprattutto può descrivere la situazione attuale, può avvertire che l’umanesimo è finito, che si è ridotto l’uomo a strumento per cui le merci godono di una libertà di circolazione molto più significativa. Queste cose già le avvertiva Marx nei Manoscritti economico-filosofici. La filosofia può dire: non pensiamo più che la verità stia in cielo, nell’iperuranio o nella mente di Dio perché la verità è efficace se è vero ciò che dà buoni effetti. La libertà non è più una libertà personale ma una libertà di ruoli: più ruoli occupo perché ne conosco il linguaggio e sono in grado di interpretarne le mosse, più sono libero. Quando ci si trova in una riunione e uno dice il suo nome non ha detto niente, Quando dà il suo biglietto da visita, in quel momento si capisce che geografia è quell’individuo».

Le storie dei matti sono storie di tutti o di ciascuno?

«Sono convinto che la follia è il costitutivo della nostra identità. Tanto per intenderci: due innamorati che tirano fuori la loro soggettività parlano come i deliranti. “Se perdo te mi casca il mondo” è una frase da delirio. Freud infatti parlava dell’amore come di una malattia grave che ha l’unico pregio di essere breve».

Quanto siamo stranieri l’uno all’altro?

«E soprattutto ciascuno con se stesso, perché oggi sembra che ognuno fugga da sé come dal peggior nemico. Momenti di riflessione se ne hanno pochissimi, se c’è uno spazio vuoto siamo presi dall’ansia. Io l’altro posso capirlo per quel tanto che capisco i connotati della mia follia. Tutti quanti abbiamo degli accessi alla irrazionalità quando sogniamo, quando siamo innamorati, quando parliamo con noi stessi. La differenza tra noi e il matto è solo quantitativo, non qualitativa».

E l’ospite inquietante quanto s’è insinuato nella vita dei giovani?

«L’ospite inquietante si chiama nichilismo che Nietsche definisce con questa frase: manca lo scopo, tutti i valori perdono valore. Ora questo in sé non è un problema perché la storia è sempre andata avanti grazie alla trasmutazione dei valori, ma il nichilismo subentra quando alla svalutazione dei valori organizzati non se ne sostituiscono altri e non ne nascono perché il futuro non si presenta più come una promessa ma come qualcosa di indecifrabile. Questo succede quando il futuro retroagisce come motivazione e il soggetto non vede lo scopo da raggiungere. Gli studenti sanno benissimo che si laureano e poi c’è lo spettro della disoccupazione e del precariaro. E allora perché devono studiare e impegnarsi? Ma in questo modo vivono l’assoluto presente. Tempo fa uno studente mi ha chiesto di fare un dottorato di ricerca di filosofia. Gli ho risposto: non ti conviene perché perdi tre anni. Mi ha risposto: lo so ma per tre anni sto bene. Una risposta tragica, che vuol dire mi colloco in un presente che mi dà identità perché del futuro ho il terrore. Questo è il nichilismo».

Quanto è valida ancora l’utopia della realtà di Basaglia?

«Le utopie vanno assolutamente difese perché se si ferma l’ipotesi che il mondo possa anche essere altro da quello che è allora abbiamo ancora un briciolo di speranza. Se invece ci appiattiamo su quello che siamo soliti chiamare sano realismo, allora stiamo fermi come i minerali perché non abbiamo più futuro»

Tratto da: Il Piccolo 26/09/2009

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