di Anita Eusebi
[uscito su L’Unità il 1 giugno 2014]
Nello scorso mese di maggio la legge 180 ha compiuto 36 anni, il decreto legge 52/2014 per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, approvato lo scorso aprile in Senato, è divenuto legge con il voto finale della Camera e il Santa Maria della Pietà di Roma, il più grande manicomio d’Europa d’un tempo, festeggia il suo centenario. Ne parliamo con Ascanio Celestini.
Il 31 maggio ricorreva il centenario dell’ex manicomio Santa Maria della Pietà di Roma che, inaugurato nel 1914 da Vittorio Emanuele III, ha visto l’inizio del suo smantellamento negli anni della rivoluzione basagliana, ma la sua chiusura definitiva è arrivata soltanto nel 1999. Che significato può avere festeggiare i cento anni dall’inaugurazione di un manicomio?
Un infermiere di Perugia in un’intervista di qualche anno fa mi disse che per i perugini il manicomio era un numero civico. Dietro quel numero non era importante che ci fossero poche o molte persone, che soffrissero o che venissero curate. Quel numero difendeva i cittadini sani dalla pazzia come certi amuleti apotropaici dagli spiriti maligni. La chiusura di queste istituzioni alle volte è coincisa con l’apertura dei suoi cancelli e la restituzione di un luogo per la cittadinanza, ma spesso le storie vissute all’interno hanno lasciato tracce flebili e poco comprensibili. In fondo chi non le ha conosciute prima della chiusura fa difficoltà ad avvicinarvisi dopo. E forse dovremmo anche chiederci perché dovrebbe farlo. Queste celebrazioni rischiano di diventare una nuova istituzionalizzazione, stavolta anti-manicomiale, ma altrettanto istituzionale e retorica. Basta guardare cosa sono spesso le varie giornate della memoria. La battaglia che è stata combattuta contro il manicomio non era semplicemente una lotta per liberare i reclusi, ma contro tutte le istituzioni repressive. Le istituzioni che Basaglia considerava sorelle del manicomio («famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale» e a queste potremmo aggiungerne altre: chiesa, caserma, tribunale, carcere…) sono uscite rafforzate dalla fine del ‘900. Più che celebrare la fine del manicomio dovremmo constatare quanto ce ne sia ancora attorno a noi.
Scrive Franco Basaglia in Conferenze brasiliane, “giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente, trovammo la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro”. E “entrare fuori, uscire dentro” è il motto con cui nasce nel 2000 il Museo Laboratorio della Mente. Secondo te le persone che sono uscite in seguito alla chiusura del Santa Maria della Pietà, dopo anni e anni di internamento, sono riuscite poi a “entrare fuori”? E il mondo fuori, analogamente, è davvero riuscito a “uscire dentro”?
Gli individui che sono usciti dal manicomio sono tanti e le loro storie non sono catalogabili. Qualcuno ce l’ha fatta, qualcun altro no. Qualcuno non ce l’avrebbe fatta comunque, qualcun altro ha avuto fortuna ed è stato accolto. Ma non c’era alternativa: i manicomi erano lager e dovevano essere chiusi. Davanti ai sopravvissuti di Aushwitz non ci si è chiesti se non fosse opportuno umanizzare i campi di sterminio mettendo le docce al posto delle camere a gas. Quando ci poniamo la questione in merito all’entrare fuori automaticamente ci troviamo a ragionare su “quale fuori” sia quello intorno alle mura abbattute del manicomio. Fuori dal manicomio c’è ancora il manicomio. C’è nel disagio psichico e sociale, nei rapporti di potere. Un’infermiera di Padova mi racconta della chiusura dell’ospedale psichiatrico nel quale lavorava e mi parla del suo lavoro sul territorio. Mi parla di quegli operatori che si comportano come gli infermieri peggiori nei manicomi più chiusi trattando i pazienti come bambini buffi e un po’ stupidi. Li chiamano “matterelli” e “pazzerelli” e quando diventano meno governabili li gestiscono con i farmaci. Mi dice «una volta c’era il manicomio, oggi c’è il terricomio».
La pecora nera è stato girato nel padiglione 18 del Santa Maria della Pietà. È un film che racconta una storia tipica di abbandono, violenza e pregiudizio, per cui un bambino viene internato in manicomio, e lì rimane per 35 anni. Una presenza emblematica in tal senso è Alberto Paolini, con il suo pesante bagaglio di vita reale di 42 anni di manicomio al Santa Maria della Pietà, con le sue peggiori brutture, andando dall’elettroshock alle camere di contenzione. Quanto resta delle sofferenze del manicomio negli occhi di una persona la cui casa è stata il manicomio quasi per tutta la vita?
La storia di Alberto Paolini è un esempio straordinario per raccontare l’insensatezza dell’istituzione psichiatrica. Nonostante l’internamento, gli psicofarmaci e l’elettroshock è riuscito a difendersi e a non perdere la propria lucidità. Mi raccontava Adriano Pallotta, storico infermiere del Santa Maria della Pietà e animatore del Museo Laboratorio della Mente, che tra infermieri non ci si stupiva davanti al peggioramento di un internato e che, anzi, era motivo di stupore vedere che dopo un po’ che stava dentro rimaneva più o meno nelle stesse condizioni. Il peggioramento era la norma e la cura era inesistente.
L’altro volto del manicomio, gli infermieri. Internati loro stessi in un certo senso, ma con in mano il potere, e il mazzo delle chiavi. E in La pecora nera ritroviamo Adriano Pallotta, infermiere al Santa Maria della Pietà per oltre 40 anni, che nel film interpreta un paziente, “il professore”. Quanto è stato importante il confronto con il vissuto di Adriano, come di altri infermieri, nel ricostruire la memoria storica del Santa Maria della Pietà?
Ho intervistato Adriano una decina di anni fa durante un laboratorio con gli studenti di Roma Tre. Mi ha stupito per la chiarezza della narrazione oltre che per la lunghezza del suo intervento: ha incominciato a raccontare appena arrivato, prima che iniziasse l’intervista e ha continuato quando era già finita e stavamo andando via. Nei suoi racconti è fondamentale l’esperienza che ha vissuto, ma tante persone hanno avuto una vita altrettanto interessante e forse anche più avvincente. La differenza tra lui e molti altri è che sa raccontare. Dice il professor Gerardo Guccini che ci sono attori che raccontano storie, ma non sono narratori. Ci sono attori che sono arrivati al teatro perché erano narratori. E poi ci sono quelli che non fanno teatro, ma narrano magnificamente. Questi ultimi, dice Guccini, hanno delle storie da raccontare, sanno come farlo e vanno in cerca di un pubblico. Pallotta è così. Tant’è vero che in quella prima intervista non ha iniziato la sua storia parlando di manicomio, bensì della sua esperienza personale inquadrata in una condizione sociale. Lui era il secondo di sei fratelli e la sua era una famiglia che faticava ad andare avanti. Un giorno rientrando in casa ha sentito i genitori che parlavano di lui. Erano andati a colloquio con l’insegnante che gli aveva detto di spingere Adriano a studiare perché era portato. Ha sentito i genitori che dicevano «Bisogna cerca’ a tutti i modi di farlo studiare. Faremo i sacrifici, faremo i sacrifici, dobbiamo fare i sacrifici… ». Adriano ha pensato che «già ce n’erano tanti di sacrifici. Ma quali sacrifici! Io, zitto zitto so’ andato a Piazza Risorgimento, c’era ’na libreria, andetti lì e me so’ venduto i libri. Ai genitori ho detto: Non voglio anna’ più a scuola!» e così ha incominciato a lavorare. Tutti gli infermieri che ho incontrato hanno portato degli elementi interessanti, ma lui è stato il più prezioso perché è anche un narratore. A me servono dati concreti, ma anche narrazioni perché non sono un giornalista, uno storico o un sociologo. Io racconto storie.
Manicomi sono gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dove la maggior parte degli internati ha commesso reati di poco conto, o peggio ha solo la colpa della povertà, della solitudine, della mancata assistenza e dell’abbandono. Lo scorso 28 maggio è stata approvata la legge per il superamento degli OPG, ma parte dell’opinione pubblica ha paura dei ‘pazzi criminali’ e i servizi territoriali hanno bisogno di risorse per farsi carico dei ‘fratelli scomodi’. Pensi si riuscirà davvero a buttare definitivamente giù le mura dell’istituto dell’OPG?
Indubbiamente gli OPG sono un’istituzione vergognosa che va superata. Ma la sua chiusura pone un problema che è difficilmente risolvibile se ci si limita a guardare solo questi istituti. La maggior parte degli internati sono stati schiacciati e probabilmente la loro pericolosità (se mai c’è stata) si è azzerata insieme a una parte consistente della loro identità. Ma mettiamo il caso dell’ipotetico internato pericoloso. Lui tornerà in prigione in “repartini” fatti a posta? E chi lo seguirà in carcere? Parlando con uno psicologo in un istituto di pena marchigiano m’ha detto “riusciamo a seguire i detenuti per una media di 25 minuti al mese”. Ma anche un carcere migliore di quello italiano, meno affollato, con più spazi alternativi alla cella, eccetera il problema si pone alla stessa maniera anche se in modo meno evidente. L’istituzione carceraria è più vecchia e datata del manicomio. Si è sviluppata in un’epoca nella quale lo stato paternalista considerava i cittadini come tanti bambini da educare e, quando la situazione diventava complessa, li infilava tutti insieme in un casermone per nasconderli agli occhi della società. Oggi dovremmo pensarla in modo diverso. La complessità non va isolata e ghettizzata (col risultato di complicarla ulteriormente), ma tenuta all’interno della comunità. In più il caso italiano è disastroso, spesso parificabile alla tortura e nella maggior parte dei casi va a coprire un buco che spetterebbe allo stato sociale. Il superamento del manicomio criminale deve andare di pari passo col superamento del carcere.