Frenare la deriva della non imputabilità per infermità di mente. Ecco perché è diventato urgente

Mentre la proposta di legge Magi di riforma della non imputabilità è ancora ferma in Parlamento, insieme a quella di riforma parziale presentata dal deputato Antoniozzi, alcuni psichiatri italiani – su iniziativa del Coordinamento Psichiatri Toscani – si stanno mobilitando dal basso e nella stessa direzione: chiedere la limitazione dei proscioglimenti per infermità di mente.  Questo passo – di cui si parla inutilmente da decenni – è ormai diventato urgente, per salvare il sistema della salute mentale dal rischio del baratro.

Una crisi profonda sta logorando il Servizio sanitario nazionale, e i Servizi di salute mentale in modo ancor più drammatico. Tra le cause e, al contempo, gli indicatori del declino vi è il ritorno del mandato custodialista. Sappiamo bene che l’equazione psichiatrico=pericoloso resta un pregiudizio ben piantato nel sentire comune, anche dopo la chiusura dei manicomi, civili e giudiziari. Con gli anni, e il progressivo impoverimento della sensibilità culturale ai temi della riforma, la giurisprudenza ha esplicitamente riassegnato allo psichiatra compiti di igiene sociale. 

Nel 2005 la Cassazione ha esteso la non imputabilità ai gravi disturbi di personalità, categoria quanto mai vasta, ambigua e difficile da delimitare: non poteva che conseguirne un “diluvio” di proscioglimenti per vizio di mente.  Anche la legge 81 che nel 2014 ha chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari, viene spesso usata in modo distorto per giustificare provvedimenti che ne tradiscono completamente lo spirito; il fatto che  le Rems siano strutture a esclusiva competenza sanitaria, diventa uno dei pretesti per sanitarizzare la devianza: quasi il Parlamento avesse inteso passare alla “gestione psichiatrica” fenomeni a vario titolo di violenza e comportamento antisociale, assai diversi dalla malattia mentale tradizionalmente intesa. 

Oggi migliaia di persone che hanno commesso reati, gran parte delle quali mai sarebbero transitate dagli OPG, sono sottoposte a misura di sicurezza non detentiva: vengono cioè giudicate non imputabili e affidate ai servizi psichiatrici per controllarne la pericolosità sociale Vent’anni fa questi provvedimenti erano eccezionali, ora sono quasi la regola.                            

Parallelamente è dilagata la posizione di garanzia: il dovere, giuridicamente definito, del medico di impedire che un paziente sia “pericoloso per sè o per gli altri”. In impressionante continuità con l’era manicomiale, si riconsegna agli psichiatri l’obbligo di rispondere dei reati dei pazienti, come, in passato, il direttore di manicomio rispondeva dei comportamenti dei suoi internati.

Così, ricacciati nel ruolo di “sentinelle”, gli psichiatri ridiventano i custodi della distruttività umana, anche laddove una malattia mentale sia dubbia, e ancor più dubbia sia la sua effettiva incidenza sui comportamenti

La non imputabilità – nata a giusta tutela di chi compie reati in stato di severa alterazione psichica – applicata in questo modo distorce i processi di cura. In primo luogo essa deresponsabilizza gli individui, declassandoli a non-personepersona, in senso giuridico e morale, chi può rispondere delle sue azioni).  Un soggetto che compie atti illeciti ma viene prosciolto per infermità di mente e giudicato socialmente pericoloso, per legge è “sollevato” dall’onere di risponderne. A garantire per lui sarà lo psichiatra. Gli psichiatri sembrano oggi il braccio armato della Giustizia, per risolvere questioni di scarso significato sul piano clinico e di alta rilevanza, invece, su quello dell’ordine pubblico.                                          

Ci rendiamo conto che attendersi l’abolizione piena del manato di controllo implicherebbe, forse, la scomparsa della psichiatria in toto (con grave danno per quei nostri utenti che ne hanno bisogno per star meglio, e che, con essa, la libertà non la perdono, ma riescono anzi a riacquistarla). Tuttavia la situazione attuale è insostenibile, sul piano etico quanto su quello pratico.

Psichiatria e magistratura hanno visioni antitetiche. Il loro dialogo deve “cucire” posizioni opposte, ma ambedue vitali per la comunità. Il magistrato per sua natura dispone, assolve e condanna. Semplificherà, anche, se necessario. Perché il suo compito è fornire risposte. Lo psichiatra fa l’opposto: comprende senza giudicare, costruisce alleanze, osserva la complessità delle cose, tollera l’incertezza. Aiuta la persona a comprendere tutto questo e a farlo suo, per star meglio. Se – come oggi spesso avviene – un clinico accetta di appiattirsi ad esecutore del volere del giudice, cade il bisogno di questo confronto. Un’ottica svilente e inammissibile: lo psichiatra risponde a un problema clinico. Su esso un giudice non può, né deve imporre nulla.

Centrale è allora l’atteggiamento degli psichiatri. Il modo in cui affrontiamo questa vicenda diventa lo snodo:

– tra la possibilità di limitare la richiesta di controllo (per rendere la cura possibile, e il nostro lavoro più sopportabile)

– e la resa a una posizione che è letale per il processo di cura e un cappio al collo dei curanti. 

Non sorprende che lo psichiatra del servizio pubblico sia un mestiere sempre meno attrattivo, e che tanti Centri di salute mentale stiano evaporando, in una drammatica emorragia di personale medico. L’idea di Salute mentale è nata dal rifiuto di pratiche di negazione dell’essere umano. Per praticarne in modo autentico i principi non basta l’ottimismo ecumenico. Serve schierarsi: a favore di pratiche di liberazione, e contro quelle di oppressione. Senza la volontà di opporsi a richieste irricevibili e anti-terapeutiche, essa smette di esistere, per come la conosciamo.

Bisogna ora affrontare il problema alla radice. La proposta del Coordinamento Psichiatri Toscani è di restringere la non imputabilità per vizio di mente, tramite revisione degli art. 88 e 89 del Codice Penale su infermità e semi-infermità mentale. Essa ribadisce che la responsabilità è terapeutica, che non si può curare senza responsabilizzare; che le cure obbligatorie sono sempre pseudo-cure (a eccezione del TSO, solo nei casi di estrema acuzie, e anch’esso oggi spesso usato per ragioni di pericolosità).

Di fronte ai reati, il disagio mentale rimane una doverosa attenuante. Ma parliamo del disturbo che scardina la mente, altera l’esame di realtà, riduce (quasi mai cancella) le capacità di controllo della persona. E in ogni caso, la cura non sostituisce la pena: non è (né vuole essere) la risposta ai problemi di ordine pubblico!

Sempre più utenti faticano ad accedere ai Centri di salute mentale. Sempre di più si lamentano per l’assistenza offerta: sporadica, frenetica, spesso incapace di ascolto, ridotta a prescrizioni a “pioggia” di farmaci. Molti operatori non reggono. Stremati, sottopagati, disamorati vanno via. Altri, spaventati dai rischi di conseguenze penali, scappano anch’essi. I CSM riducono gli orari, o chiudono. Questo alla gente interessa?

L’attuale situazione è insostenibile. Occorre coraggio. Che la società apra gli occhi. Prima che sia troppo  tardi.