di Maria Grazia Giannichedda
da Il Manifesto 17 marzo 2023
Muore all’età di 81 anni lo psichiatra che ha lavorato con Franco Basaglia e, dopo di lui, all’ospedale di Trieste. Ha sempre cercato di vedere oltre, di mantenere saldo pensiero e sguardo critico, e di creare realtà che li facessero vivere. Sua ultima creatura, avamposto della «città sociale», le «microaree»
Se n’è andato ieri mattina a 81 anni Franco Rotelli, che con Franco Basaglia e dopo di lui, e all’interno di un movimento di inusuale ampiezza e durata, ha smontato il manicomio e inventato un nuovo tipo di istituzione, che ha dimostrato di saper funzionare ma che ha vita sempre più difficile, specie da quando in tanti hanno scelto di scardinare la sua base, il servizio sanitario nazionale.
Questo nuovo tipo di istituzione, insieme sanitaria e sociale – concetti consumati dall’abuso quanto poco praticati -, Rotelli ha cercato di costruirla da ruoli diversi: operatore sul campo e dirigente di servizio nell’ospedale psichiatrico di Trieste, direttore del Dipartimento di salute mentale da quando nel 1979 Basaglia era andato a Roma, direttore generale dell’azienda sanitaria di Trieste e poi di Caserta, infine nel 2013 consigliere regionale e presidente della commissione sanità del Friuli Venezia Giulia.
Il primo lavoro di Rotelli era stato nel manicomio giudiziario di Castiglione delle Stiviere, ed era stato il suo primo tentativo di disobbedire e fare altro. Così era arrivato a Parma nel 1970, durante la breve, faticosa, complicata esperienza di Basaglia con l’amministrazione di sinistra dell’ospedale psichiatrico di Colorno.
A Trieste, invece, Basaglia aveva trovato nell’amministrazione democristiana, o meglio nel presidente Michele Zanetti, una complicità sostanziale ed erano iniziati anni ricchissimi e litigiosi, sui quali si è depositata una memoria generica incentrata sui simboli (Marco Cavallo, il volo, le feste e i concerti) che sottovaluta un dato essenziale: tra il 1972 e il 1978, anno di approvazione della «legge 180», a Trieste erano già nati, con tanto di dispositivi amministrativi, quelli che saranno poi i pilastri del servizio di salute mentale comunitario.
Penso alla prima cooperativa che mise al lavoro persone con sofferenza mentale; alla figura di «ospite», cioè persona che aveva perso tutto con l’internamento e a cui la Provincia forniva «asilo non pagato al prezzo dei diritti», per usare parole dell’epoca, attraverso il servizio di salute mentale che organizzava piccole convivenze, l’«abitare assistito» per usare parole di oggi; il centro di salute mentale aperto ventiquattro ore su ventiquattro, con posti letto, infrazione grave all’imperante medicina del binomio ambulatorio e posto letto ospedaliero.
Franco Rotelli ha avuto il grande merito di dare un corpo solido a tutto lo sperimentare degli anni Settanta, di portarlo a compimento, di metterlo a sistema e di proteggere la sua vitalità tra i marosi del dopo riforma, che accumulavano in Parlamento disegni di legge per cancellarla.
Quegli anni furono particolarmente pesanti a Trieste, con l’arrivo sulla scena politica già nel 1978 di una prima forma di leghismo, il partito della «Lista per Trieste». Rotelli fu tenace e paziente con i nuovi arrivati, e poi con le diverse amministrazioni che si susseguivano, spiegando, convincendo, cercando e mostrando il consenso della città, facendo accettare agli operatori dei servizi le visite delle associazioni di familiari che volevano vedere cosa fosse possibile, dei gruppi di operatori e amministratori di tutto il mondo, curiosi e scettici in gran parte ma non poche volte conquistati da ciò che vedevano a Trieste.
Ma Rotelli non è stato solo un buon amministratore del patrimonio. Ha sempre cercato di vedere oltre, di mantenere saldo il pensiero e lo sguardo critico, e di creare realtà che li facessero vivere. La sua ultima creatura, la sua ultima critica pratica della medicina, è l’esperienza delle «microaree», luoghi di approdo e operatori in movimento che quartiere per quartiere cercano di conoscere gli abitanti e i loro bisogni di salute e di vita, con l’obiettivo di realizzare una medicina territoriale che non sia solo filtro per l’ospedale ma avamposto di quella «città sociale» che Rotelli prefigurava in un testo di qualche anno fa, una «città che cura» e che a maggior ragione «nella crisi che stiamo attraversando può essere una prospettiva concreta».
A condizione che «si impari a superare i confini tribali fra discipline e ambiti di intervento, a far leva sul capitale sociale delle comunità locali, a connettere le risorse delle persone con quelle delle istituzioni».