di Daniele Piccione
Franco Rotelli e le lotte di due generazioni
Per me che sono nato nel 1975, scrivere di Franco Rotelli implica accettare un compromesso delicato.
Un’immagine ormai remota di Franco, incontrato con mio padre, è rimasta nella mia memoria di bambino, nel mio ultimo inverno triestino, quello fatidico del 1980. La sua figura, impressa in una fotografia, si è andata via via componendo attraverso i racconti e gli aneddoti di chi gli era stato al fianco nel corso delle epiche battaglie di decostruzione delle istituzioni della violenza; lotte consumatesi nel decennio dei settanta. Mio padre era una di queste persone e mi ha sempre restituito l’immagine di un personaggio ieratico, magnetico, capace – come dicono gli Americani – di farsi bigger than life.
Autentico eroe del corpo a corpo contro il manicomio, i suoi contorni avevano preso forma in me attraverso le ammirate descrizioni di interminabili viaggi in treno in cui mio padre e lui si giocavano a dadi i rispettivi stipendi. Stipendi che, comunque, sarebbero stati poi fatti oggetto di spartizioni comunitarie, come sabato scorso veniva ricordato nella toccante cerimonia di addio collettivo nel suo parco di San Giovanni.
Non di rado, mio padre mi andava narrando di alcuni tratti che legavano Basaglia e Rotelli, ben oltre il comune nome di battesimo. La vocazione alla guida, il senso delle responsabilità rispetto alle generazioni più giovani, il continuo richiamo all’intransigente impegno del collettivo, a imboccare sentieri su cui altri avrebbero dovuto seguire, a pena di catastrofiche battute di arresto. E ancora: la consapevole fusione tra le pratiche di restituzione della soggettività e l’elaborazione teorica, l’innato senso del rischio come componente vitalistica e volano della trasformazione, la comprensione tattica e strategica del contesto politico e dei punti di debolezza su cui aprire le contraddizioni nel fronte avverso delle istituzioni repressive.
In questi racconti di un’epoca che, mentre crescevo, andava allontanandosi nella memoria del suo tempo dell’oro, il mito non accennava a scolorire. Basaglia non c’era più, proprio dall’estate del 1980, ma Franco Rotelli era lì, a portata di mano, in sella a Marco Cavallo, direttore del dipartimento triestino, poi direttore generale della Azienda Sanitaria, non prima di essersi lanciato, in Campania e nel mondo largo, a inventare pratiche e soluzioni, a dimostrare che Trieste non era un’isola e neanche un modello autoreferenziale; sarebbe stata poi questa la stantia critica ricevuta dal capolavoro di una vita.
Alla fine di stagioni di crescita e prese di consapevolezza in cui l’ingenuità non mi mancava di certo, lo (ri)conobbi di persona in una circostanza che non potrò dimenticare. Fui invitato a parlare a Trieste della Costituzione e del legato di Basaglia nella cultura dei diritti fondamentali. Lo vidi, seduto su un banco nelle retrovie, con le mani giunte davanti a sé. Quando andai a salutarlo, rifiutò le presentazioni chiarendo di conoscermi già, da quando ero bambino. Ne sentii tutto il carisma che sembrava diffondersi nei luoghi e negli spazi di una comunità politica che gli si riconosceva debitrice. Parlammo un poco, ma a fondo. Ne trassi una sensazione mai percepita prima. Mi parve che quello che diceva arrivasse in modo assertivo ma problematico insieme.
L’avrei rivisto due anni dopo, in un’altra insolita occasione. Mi era venuto a trovare a Roma al Consiglio Superiore della Magistratura, per scrivere, insieme a Peppe Dell’Acqua e a Roberto Mezzina, il disegno di legge di rilancio dei valori compositivi della legge 180.
Facevo questo strano lavoro di scrittore di norme già da vent’anni, eppure non mi era mai capitato di vedermi spiegate le idee in quel modo: a braccio, come faceva Sergio Leone con i suoi film, con quegli occhi che dardeggiavano intensità, doppiando la voce profonda con la caratteristica “r” che suonava eufonica. Franco Rotelli svolgeva il contenuto di quella proposta di legge come se fosse una sceneggiatura che gli risuonava dentro da altre ere.
Si srotolava davanti a me una summa di quarant’anni di esperienze, di pratiche geniali, di intuizioni che avevano consentito a un mondo di risalire la corrente come i salmoni, di migrare contro stagione, di farsi paradigma di resistenza a tempi crudeli che sembravano chiudere ogni spazio all’immaginazione di libertà.
Durante quell’ora, vidi ridispiegarsi i centri di salute mentale aperti ventiquattro ore, i distretti e le micro-aree delle città che curano, i livelli essenziali di protezione della salute mentale, l’impresa sociale come nucleo primigenio delle più innovative forme di integrazione del terzo settore, il mutuo aiuto che progetta l’abitare e de-istituzionalizza, la prevenzione, le lotte, senza confini di campo, al grande internamento: gli tornava alla memoria l’assedio mosso al gigantesco ospedale concentrazionario a Leros, in un’isola europea ferita, ma che continuava ad annientare persone.
Alla fine di tutto questo, disse con il suo tono sentenzioso: “la penna la metti tu, adesso. Tanto so che hai capito”.
Occorre interrogarsi sull’adesso e subito, così come su quale sarà il prossimo futuro, senza Franco Rotelli. Un duplice interrogativo che chiama a raccolta le generazioni di cui è stato Maestro e compagno. Questo discorso risuonava sabato, presso il suo roseto, invaso da un senso elegiaco e crepuscolare di fine.
Il dolore acuto, la percezione di una cesura nel tempo, sono attutite dalla speranza che un passaggio di saperi e un legato di pratiche sia avvenuto e sia ancora in corso. Certo, si deve allargare lo sguardo e pensare di radunare anche chi non era potuto essere lì fisicamente, perché sparso per l’Italia o mobilitato in Argentina.
Quando, la mattina di giovedì, era giunta la terribile notizia da Trieste, non so perché ho dovuto pensare agli esordi di Franco di cui sapevo; ai suoi primi (ma già fermi) passi nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere: la più violenta delle istituzioni totali. In quel luogo sinistro, da antesignano, si era messo a decostruire e a liberare, instaurando un’alleanza solidale con una generazione di giovani magistrati. Al termine di quegli intensi anni sessanta, una costellazione di istituzioni della violenza e di rapporti di oppressione dominava lo scenario. E lui a farsi alfiere di liberazioni, di aperture, di decostruzioni e pratiche inventive di libertà.
In chiesa, sabato, nel salutarlo – lui proiettato verso l’infinito – mi è parso di cogliere che Franco Rotelli non si sia mai riconciliato con le diseguaglianze. Ha invece affrontato con intransigenza ostinata e fantasia fertile i segni della dissoluzione di una cultura, di un movimento, che tante volte apparivano inarrestabili. Eppure, a fargli giocare un ruolo così determinante nella vita di tanti, è stato qualcosa di più del sentimento di indignazione, perché l’essere non pacificato nella lotta, si è combinato con l’inventiva dell’istituzionalista intransigente, con l’umanesimo del medico, con la ferocia critica di chi ha contestato per una vita i meccanismi di potere della psichiatria che soffocano i bisogni.
Senza filtri, appare di colpo chiaro quello che c’è da fare: rileggere tutto Franco Rotelli, riscoprirne la dote più rara: quella di chi contrattacca in minoranza e rilancia su costrutti più ampi, sapendo che certe lotte non circondano, ma integrano la vita stessa. L’immenso Archivio dell’avventura sarà alimentato, curato, reso fruibile. La ricerca delle faglie vulnerabili delle istituzioni che opprimono continua inesausta. In questo finale di inverno, tanto simile a quello in cui lo conobbi inconsapevole e bambino, resta invece dentro di me quell’insegnamento che una volta gli chiesi di ripetermi:
“Per i matti, ma non solo per loro, il problema non è chiedersi dove li metto; è consentirgli di spiegare quali siano i loro bisogni. Se parti da questo, tutto diventa possibile”.