Francesco in Canadà
di Luigi Benevelli (da Settimana news 29/7/22)
Papa Francesco ha incontrato in Canada i rappresentanti dei popoli nativi di quel grande Paese nel quale, fino a pochi decenni fa, sono state condotte politiche tese ad annullare le lingue e le culture di bambini strappati – a migliaia – dalle loro famiglie, internati in 118 istituti – molti dei quali gestiti da personale cattolico – nei quali forzosamente cristianizzati ed educati secondo la cultura dei bianchi.
Sono stati commessi abusi e perpetrate violenze: molte giovani vite sono state spezzate. Si stima che in Canada, nella seconda metà dell’800 e nel corso del XX secolo, più di 150.000 bambini nativi siano stati prelevati dalle loro famiglie, trasferiti a migliaia di chilometri di distanza, impediti di parlare la lingua materna.
Non è fuori luogo parlare di “genocidio culturale”. Nel maggio 2021 sono stati ritrovati 215 cadaveri di bambini sepolti in una fossa comune nel giardino della Kamloops Indian Residential School(British Columbia). La scuola, aperta dalla Chiesa cattolica nel 1890, arrivò a contare fino a 500 bambini.
Francesco ha chiesto perdono e ha riconosciuto le colpe delle violente politiche genocidarie di colonizzazione, condotte anche con l’avallo della Chiesa di Roma, fuori dall’Europa.
Native American
Quanto avvenuto in Canada è avvenuto, seppure in forme un poco diverse, anche negli Stati Uniti a carico degli Indiani d’America e dei Nativi dell’Alaska, i cui primi contatti con gli Europei hanno portato da subito a un drammatico crollo demografico a seguito delle malattie infettive trasmesse dai coloni. La successiva opera di discriminazione si basò su specifiche leggi: l’Indian Removal Act adottato dal Congresso USA nel 1820 dispose il trasferimento coatto all’Ovest del Mississippi delle popolazioni native.
Successivamente, quando i coloni europei si mossero oltre le Grandi Pianure, più a ovest, il Governo federale confinò molte tribù in Riserve collocate in territori marginali, con scarse possibilità di prosperare. Molti nativi caddero nella miseria materiale. I Trattati dapprima sottoscritti furono stracciati e seguiti da guerre di conquista territoriali.
Le guerre contro gli Indios delle Pianure flagellarono le popolazioni indigene sino alla fine del 19° secolo, con stragi di donne, uomini, bambini. I Collegi continuarono ad avere – anche nel XX secolo – un ruolo importante, perché ritenuti maggiormente in grado di civilizzare gli indiani americani: fra il 1930 e il 1940 quasi la metà della popolazione indigena fu scolarizzata in scuole governative e Collegi gestiti dalle Chiese, di solito a migliaia di miglia di distanza dalle loro Riserve, ritenute realtà non-educative.
Solo nel giugno 1924 il Governo riconobbe ai Nativi la cittadinanza USA e solo alla fine della Seconda Guerra Mondiale il Congresso cominciò a ritirare il sostegno federale all’Indian Bureau che per decenni aveva operato per cancellare le culture degli Indiani Americani e per estinguerne riti e pratiche spirituali, poi riconosciute nel 1975 con l’American Indian Religious freedom Act.
Le religioni tradizionali non solo sopravvissero, ma anche rimasero largamente partecipate. Anche là dove le pratiche cristiane si erano diffuse, era rimasto assai forte l’influsso delle culture dei popoli indigeni circa i modi di intendere la vita, la salute, la malattia, la guarigione.
Distruzione delle persone e delle culture
Negli anni ’70 Indiani Americani e Nativi dell’Alaska presero a richiedere più autonomia, più potere sulle vite proprie e delle comunità. Nel 1969 il Congresso USA pubblicò l’Indian Education: a National tragedy, a National challenge, e la politica Federale decise di sostenere l’autogoverno delle tribù riguardo a salute, scolarità, assistenza sociale, amministrazione della giustizia, programmi per la casa. Le comunità locali risposero in modi fra loro diversi, a conferma della varietà delle esperienze e delle prospettive. Nel 1990 il National Resource Center on Child Abuse riferiva del gran numero di bambini abusati nei Collegi.
Molti dei sopravvissuti al “genocidio culturale” hanno portato dentro di sé lacerazioni, ferite, disturbi mentali, dipendenze da alcool e droghe illegali, come ha evidenziato la relazione pubblicata nel 2001 da David Satcher, Surgeon General (Chirurgo Generale), autorità sanitaria del Governo Federale: Mental Health: Culture, Race and ethnicity. A supplement to Mental Health: a Report of the Surgeon General.
Il quarto capitolo del Rapporto[1] si occupava della salute mentale degli Indiani Americani e dei Nativi dell’Alaska, ossia dei popoli che vivevano nei territori degli Stati Uniti, prima della scoperta dell’America. Nel 2000 l’Ufficio del Censimento ne stimava il numero in 4 milioni, meno dell’1,5% dell’intera popolazione.
Il Rapporto confermava come i bisogni di salute mentale degli Indiani Americani e dei Nativi dell’Alaska fossero stati a lungo ignorati a seguito delle politiche di sradicamento, deportazione, emarginazione, discriminazione che devastarono le vite di una percentuale dei bambini allontanati dalle famiglie che andava dal 25 al 30%.
Indiani Americani e Nativi dell’Alaska risultavano fra i più poveri tra i gruppi etnici USA, con alle spalle storie di oppressione, discriminazione, bassa scolarità, esposizione ai traumi e alta incidenza di PTSD (disturbo mentale post-traumatico) che ne colpiva il 22% (a fronte di un dato nazionale dell’8%); erano sovra rappresentati fra i “senza dimora” (8% contro il dato nazionale dell’1%) e fra i carcerati (4% della popolazione dei detenuti); drammatici risultavano i numeri dei consumi di droghe e di alcool soprattutto fra i giovani.
Gli Indiani Americani arruolati nell’Esercito e inviati alle armi erano esposti a traumi maggiori, come dimostra il fatto che i PTSD – “spirito ferito” – affligga oggi il 31% dei Veterani Indiani (a fronte del 14% dei bianchi e del 21 % dei neri).
Gli studi sulla popolazione anziana segnalavano un numero maggiore di disturbi depressivi rispetto ai coetanei bianchi; i suicidi erano molto alti nei maschi fra i 15 e i 24 anni: due o tre volte più rispetto alla popolazione generale; le morti violente costituivano il 75% di tutte le cause di mortalità nella seconda decade di vita; quanto alle sindromi cultura correlate erano segnalate ghost sickness (la “malattia del fantasma”) e heart break syndrome (“sindrome del cuore spezzato”).
Solo 1 Indiano su 5 – ossia chi vive oggi nelle Riserve – fruiva dei servizi sanitari e di salute mentale del Governo Federale; solo una metà aveva un’occupazione coperta da assicurazione di malattia (contro il 72% dei bianchi).
Dati nazionali riferiti agli anni 1980/81 riferivano un maggior numero di ammissioni di Indiani Americani e Nativi dell’Alaska negli ospedali psichiatrici di Contea o Statali, mentre molto, molto meno erano presenti nei manicomi gestiti da privati.
Le terapie complementari erano usate in numero maggiore rispetto ai bianchi: il 62% dei Navajo del New Mexico – indagine condotta nel 1998 – si avvaleva dei guaritori tradizionali. Nell’area urbana di Seattle i 2/3 di 871 pazienti si affidava ai guaritori tradizionali in aggiunta a quelli “ufficiali”. Guaritori tradizionali e Pastori cristiani avrebbero fornito più di 1/4 dei servizi di cura ai giovani Indiani americani detenuti.
Povertà, demoralizzazione, discriminazioni compromettevano una buona genitorialità con conseguenti instabilità, rotture familiari, violenze, allontanamenti dei figli: uno studio che ha riguardato 109 adolescenti Indiani delle Pianure del Nord dai 13 ai 17 anni ha rilevato che il 29% ha avuto una diagnosi di almeno un disturbo mentale, il 13% di più di uno e disturbi dell’alimentazione nell’1% dei casi, abuso di sostanze nel 18%. I disturbi più comuni sono risultati: alcool dipendenza e deficit di attenzione/iperattività nell’11%; consumo di marijuana nel 9%. Forti le comorbilità.
Questi i dati e le dimensioni di una vicenda di secoli di violenze e soprusi.
L’importanza del viaggio di Francesco
Il viaggio di papa Francesco in Canada, per le intenzioni che lo hanno ispirato, costituisce un evento di straordinaria, assoluta, importanza nella storia delle relazioni fra autorità religiose cristiane e popoli nativi che abitavano le Americhe prima dell’arrivo delle Caravelle di Colombo.
Ma nei resoconti e nei commenti che se ne sono fatti in Italia si leggono ancora imbarazzi, reticenze, difficoltà a riconoscere la natura violenta, razzista delle relazioni imposte ai nativi negli Stati del Nuovo Mondo, eretti da bianchi cristiani, invasori.
Francesco ha espresso con grande forza ed efficacia l’ispirazione anticolonialista del suo Papato, mentre mi sembra che – dalle nostre parti – si continui a fare fatica persino a pronunciare e a denunciare la parola “colonial