Nella corsa sfrenata ad abbassare i limiti diagnostici per aumentare il numero di persone alle quali viene diagnosticata una malattia e sono quindi da curare con medicine, non poteva sottrarsi la psichiatria, soprattutto da quando sono stati prodotti farmaci ad azione psicoattiva. L’operazione è stata facilitata dal fatto che le diagnosi non dipendono dalla misurazione di una sostanza nel sangue, ma da una valutazione soggettiva da parte dello psichiatra. Come si distingue infatti la tristezza, quale emozione comune nella vita di ognuno di noi, dalla depressione a rischio suicidario? Come in altri campi, si è verificata la coniugazione di interessi tra il mondo della psichiatria clinica e quello delle industrie farmaceutiche: tutti allettati ad aumentare il bacino di clienti. È diventato un gioco da ragazzini trasformare normali emozioni e sentimenti in disordini mentali, termine più ambiguo, ma non meno connotato, di malattia mentale. Gli stessi che hanno allargato il mercato denunciano allarmati che siamo in presenza di una vera e propria epidemia: 1/3 dei cittadini europei soffrono di disturbi mentali! Il paradosso, commenta Tullio Giraldi, neurofarmacologo di Trieste e stretto collaboratore di Slow Medicine, è che l’aumento dei trattamenti antidepressivi avrebbe dovuto provocare una riduzione delle diagnosi di disturbi mentali, risolti dai trattamenti.
Per introdurre il lettore alla controversia sull’efficacia dei trattamenti antidepressivi, Giraldi ripercorre nel suo libro Farmaci e psicoterapia. Infelici, tristi o depressi (Il Mulino, 2016) la storia dapprima delle diagnosi e delle classificazioni dei disturbi mentali fino alla formulazione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), pubblicato per la prima volta nel 1952 e giunto alla quinta edizione del 2013; questo manuale è stato il principale strumento per trasformare i sintomi in malattie e per indurre il bisogno di cure psichiatriche, creando un esercito di pseudopazienti e trascurando colpevolmente coloro che sono veramente malati; dalla prima all’ultima edizione infatti il numero di diagnosi si è più che triplicato. In secondo luogo l’autore ripercorre lo sviluppo della psicofarmacologia da Ippocrate alla rivoluzionaria cloropromazina per il trattamento della schizofrenia, alle benzodiazepine, agli antipsicotici, agli antidepressivi, che per la loro tollerabilità vengono prescritti con troppa facilità. Ahimè, la controversia sull’efficacia dei trattamenti antidepressivi è talmente aspra che non consente neanche a Giraldi di sostenere una delle due tesi. Dalla metanalisi di Kirsch del 1998, secondo cui l’azione terapeutica era dovuta per il 75% all’effetto placebo e solo per il 25% all’azione dei farmaci antidepressivi, criticata dallo stesso direttore della rivista sui era stata pubblicata, si sono succedute ricerche, revisioni sistematiche e metanalisi che hanno creato un polverone da cui è ancora più difficile vedere uno spiraglio di luce. Il punto cruciale, ben spiegato da Giraldi, dipende dalla valutazione dell’efficacia basata su un punteggio (la scala di Hamilton) che classifica la severità della depressione, sommando il punteggio ottenuto da 21 item. Le stesse associazioni psichiatriche non sono d’accordo su quale sia il livello per definire un disturbo depressivo maggiore (grave con più di 24 punti per alcuni e oltre 19 per altri), né su quale sia la riduzione di punti che definisca un miglioramento clinicamente rilevante.
«La complessità dei meccanismi cerebrali – commenta l’autore – rende difficile immaginare e realizzare modalità di intervento che superino l’intrinseca resistenza dei sistemi complessi alla manipolazione. Questa stessa complessità…rende comprensibilmente problematico accertare se l’applicazione nella farmacologia clinica derivata dalle nuove acquisizioni delle neuroscienze di base, si manifesti con il meccanismo atteso». Bisogna pertanto muoversi verso una terapia integrata, in modo che la depressione lieve e moderata possa essere trattata con metodi alternativi ai farmaci antidepressivi, come la psicoterapia o la mindfulness meditation «creando una differenziazione tra i casi di sofferenza mentale seria, che richiedono interventi di adeguata intensità, e gli stati non morbosi di condizione di infelicità, tristezza e più in generale di comprensibile disagio derivante dal dover affrontare situazioni di vita impegnative».
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