di Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito
Questo martedì, un collettivo di cittadini e studenti ha riaperto, provocatoriamente, le porte dell’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Sant’Eframo, struttura monumentale quanto nascosta allo sguardo dei più, all’angolo tra via Imbriani e via Salvatore Rosa. “Restituiamo l’ex OPG al quartiere” è scritto ora su uno striscione che fa bella mostra non solo sulle mura del vecchio manicomio, ma anche sulla pagina facebook dedicata, che in poco tempo ha raggiunto migliaia di contatti.
Chi, assieme a Sergio Piro e a tanti altri, date le condizioni detentive insostenibili e inumane degli internati, si è battuto a lungo perché quel posto chiudesse, non può che sostenere l’importanza di questa “riapertura”, non solo per il suo valore simbolico, non solo per il richiamo a restituire uno spazio negato alla città, ma anche e soprattutto per il dovere di costruire memoria.
Le testimonianze sulle condizioni detentive inumane e sull’uso dei letti di contenzione a Sant’Eframo erano note sin dagli anni ’70. In parte emersero durante il processo che coinvolse nel 1977 l’allora direttore – che fu prosciolto poi da ogni accusa – procedura relativa ai presunti favori concessi all’illustre detenuto Raffaele Cutolo. Una struttura nata come monastero, con celle di reclusione al di fuori di ogni standard penitenziario, che per lunghi anni ha funzionato come luogo di esclusione e sofferenza. Chi scrive è stato testimone, in una visita parlamentare, dell’odore di urina e feci e di internati abbandonati nei propri escrementi in celle lisce e spoglie. Nel 2003, durante una visita ispettiva, il consigliere regionale Francesco Maranta incontrò Vito De Rosa, da cinquant’anni rinchiuso nell’Opg di Napoli. Il suo caso ebbe così risalto nell’opinione pubblica, che nel 2003 Vito De Rosa fu graziato dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Nel 2008 gli internati furono, frettolosamente, trasferiti nel complesso penitenziario di Napoli-Secondigliano, perché, nonostante inopportune azioni di risistemazione strutturale, restavano non garantite le condizioni minime di sicurezza. Da allora, l’intero complesso, rimasto nella disponibilità del Ministero della Giustizia, giace silenzioso e inutilizzato. Un monumento del dolore lasciato nell’abbandono. L’incuria del tempo sta incidendo su di una struttura che invece ha bisogno di costante manutenzione e cura.
La chiusura di tutti gli OPG, fissata al 31 marzo prossimo, seppure con tante zone d’ombra ancora tutte da chiarire, dovrebbe, finalmente, far archiviare questi luoghi, qualcosa di cui parlare in termini passati. Ma archiviare, appunto, non vuol dire dimenticare, tutt’altro. Significa custodire perché tutti possano ricordare, perché si sedimenti una memoria collettiva che faccia da monito e strumento per non ripetere ancora gli orrori del passato. I manicomi sono stati un luogo di violenza istituzionale, dove si sono definite pratiche e discipline di sopraffazione. Come in tante altre parti d’Italia ma non ancora a Napoli e in Campania, occorre, consapevolmente, trasformarli, lasciando, al contempo, traccia di ciò che sono stati, recuperando e restituendo diritto di narrazione e parola alle storie, alle vite che in quei luoghi sono state offese, ridotte al silenzio, cancellate. Bisogna trasformare ciò che è stato luogo di segregazione ed esclusione in spazi di libertà e opportunità.
Per questo, salutiamo con gioia questa “spontanea” riapertura del vecchio manicomio, perché ci sembra rappresenti la pratica di chi non si arrende alla banalità del “non può essere altrimenti”, di chi vuole rompere le catene dell’oblio. Per questo ci rivolgiamo, in primo luogo, al Sindaco di Napoli, perché compia tutti i passaggi necessari per restituire questo bene alla città nei modi e nelle forme più aperte e inclusive.
“Noi siamo la nostra memoria, noi siamo questo museo chimerico di forme incostanti, questo mucchio di specchi rotti” scriveva Jorge Luis Borges. Restituire questo spazio alla città significa, per l’appunto, fare memoria e rimettere assieme i frammenti di tante vite dimenticate e internate come un mucchio di specchi rotti.
(la Repubblica -Napoli, 6 marzo 2015)