L’arrivo di Agostino Pirella, nel 1971, segnò la chiusura dell’ospedale psichiatrico aretino e l’inizio della stagione che portò alla legge Basaglia
20 luglio 1971. Agostino Pirella ha 41 anni quando arriva ad Arezzo. Nei primi anni Cinquanta aveva conosciuto Franco Basaglia e nel 1965 era entrato a fare parte dell’équipe dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Qui erano stati piantati i primi semi di quella che nel
1978 sarebbe diventata la legge 180. Non arriva ad Arezzo per caso. L’amministrazione
provinciale era l’ente che aveva la competenza sul manicomio. Al governo locale Pci e Psi. Una decisione netta: rinunciare a costruire la nuova struttura pur disponendo già dei finanziamenti statali e provare a chiudere quella vecchia creando servizi sul territorio. Sotto la presidenza di Mario Bellucci, una strana coppia di assessori, gemelli diversi della politica:
il comunista Bruno Benigni e il socialista Italo Galastri, entrambi giovani, insegnanti e decisi a mettere il lucchetto al manicomio, diventeranno i responsabili nazionali della psichiatria nei loro partiti. Anni più tardi, Benigni sarà anche il consulente per la sanità dello Spi Cgil nazionale dal 1998 al 2010. Hanno un solo nome in agenda: Franco Basaglia. Ci parlano e ottengono un secondo nome: Agostino Pirella. Vanno a Venezia con una Fiat 128. Appuntamento al Lido con qualche preoccupazione sul conto del ristorante: ci penserà lui. Tornano a casa con la sua disponibilità.
Ed ecco che il 20 luglio 1971, Pirella varca i cancelli di via dei Cittadini. Ricorderà così quel giorno: «L’ospedale aveva molte connotazioni carcerarie. Alte mura circondavano i reparti; erano chiusi e con clima decisamente repressivo. La separazione non era solo tra i sessi, ma riguardava anche le assurde categorie in cui erano suddivisi i ricoverati e i reparti, che derivavano ancora dalla psichiatria dell’Ottocento: inquieti, cronici lavoratori (terapia occupazionale, colonia), reparto agricolo, infermeria cronici, accettazione-osservazione». Questo era lo sguardo di chi stava fuori. Ed ecco quello di chi stava dentro, un paziente di vent’anni: «Sto scrivendo in piedi, con il foglio appoggiato al muro, poiché non mi è concessa alcuna altra posizione più comoda, a meno che non voglia sdraiarmi in terra fra il sudiciume e gli sputacchi; siamo infatti una quarantacinquina di persone chiuse in venticinque metri quadrati di spazio, con sei panche di tre posti ciascuna e otto sgabelli di ferro smaltato inchiodati al pavimento. Gli altri si aggirano come mosche cieche per la stanza con indosso vesti sbrendolate, alcuni addirittura scalzi, in condizioni morali e fisiche orripilanti. In un lato della stanza, senza alcuna porta o riparo di alcun genere, si trova un gabinetto che espande dappertutto durante la giornata il suo odore nauseabondo che, del resto, non è poi troppo peggiore di quello emanato da una masnada di persone che non ha altra occupazione durante la giornata che flatulenza e scatarrare molte volte l’uno addosso all’altro».
In quella calda estate, Pirella inizia il lavoro con un gruppo nel quale aveva innestato anche alcuni suoi collaboratori. Un’équipe con psichiatri e psicologi di ogni parte d’Italia. Per quel gruppo l’occasione di stare ad Arezzo non era un lavoro ma una formidabile esperienza professionale, umana e, perché no, politica. Arezzo sarà per una volta, e per un breve periodo, l’ombelico del mondo. Una cosa è immediatamente chiara: i protagonisti della trasformazione saranno i pazienti. Ecco le riunioni e le assemblee interne. La fine progressiva dei nuovi ricoveri, il lento processo delle dimissioni. E a questo punto il manicomio diventa una questione culturale e politica. I matti sono fuori: visibili e identificabili nei loro abiti fuori moda, un po’ dimessi, con il passo talvolta incerto, con la consapevolezza di avere gli occhi addosso. Vanno e vengono, al massimo entrano in un
bar. Non restano.
Ma a un certo punto dovranno restare, perché la loro vita non può essere un manicomio part-time. Provincia e Comune iniziano a cercare gli alloggi destinati ai pazienti nelle condizioni di vivere “fuori”, in una casa famiglia con il sostegno di assistenti sociali, medici e infermieri. La sonnacchiosa Arezzo aveva aperto un occhio per dare una sbirciatina ai matti al bar o al cinema, ma ora li spalanca entrambi quando capisce che potranno diventare i loro vicini di casa. Qualcuno è accogliente, molti no. Ci sono condomini che scrivono alle autorità per spiegare il loro rifiuto. Una delle tante argomentazioni: «Tutti indistintamente i sottoscritti hanno fatto sacrifici per creare un ambiente sano e tranquillo nel quale vivere e allevare i propri figli. La presenza dei degenti dell’ospedale neuropschiatrico distorce l’ambiente e impedisce ai nostri figli di beneficiare delle comodità per loro dovute». La questione diventa politica: la destra è contraria all’apertura del manicomio, la Dc cambia progressivamente posizione rispetto all’iniziale resistenza. I pazienti non sono una lobby, non hanno strumenti per difendersi e i media di allora, con l’eccezione di quelli di sinistra, non sono certo benevoli. Una lettera evidenzia lo sconcerto
dei ricoverati di fronte alle reazioni ostili: «Io penso che si tratti di conoscere gli ospiti dell’ospedale psichiatrico, conoscerli sempre più a fondo, solo così possono più agevolmente essere presi in buona considerazione dagli altri, perché l’ospedale psichiatrico è un’isola troppo isolata. L’ignoranza che hanno dei malati psichiatrici, è che siamo dei deboli, che abbiamo bisogno di aiuto ed essenzialmente di comprensione». Nel 1978 arriva la legge180, nota come legge Basaglia. Arezzo si è portata avanti con i compiti. La rete territoriale dei servizi è già attiva e in via di perfezionamento. Nel 1979 Pirella si trasferisce a Torino. Gli anni successivi saranno quelli della resistenza alla 180 e di una controriforma strisciante. La psichiatria avrà sempre meno peso nelle strategie dei governi. La stagione delle riforme è finita: a pagarne il prezzo saranno i pazienti e le loro famiglie.