Cominciava nel 1972 la straordinaria trasformazione, a Trieste, del grande Ospedale
Psichiatrico (1200 internati) da degradante e degradato manicomio a “scuola di
libertà”: Franco Basaglia raccoglie un gruppo sempre più ampio di giovani
collaboratori e avvia la destrutturazione di una istituzione totalitaria, violenta,
carceraria e ferocemente escludente. Molti vennero a dare una mano.
Il San Giovanni si popolò di giovani vite e di voci ed esistenze rinate. La critica
pratica dei manicomi, qui potentemente agita, trovò risonanza straordinaria tra
intellettuali, uomini di cultura, forze politiche e sindacali, movimenti sociali. Negli
anni precedenti la popolazione dei manicomi italiani aveva raggiunto la cifra di quasi
centomila internati.
Quel che cominciava ad accadere a Trieste non poteva non attrarre, anche per
familiari e amicali tramiti, Ugo Guarino.
In quei giorni non c’era un momento in cui non si stesse discutendo di qualcosa:
dell’orario del pranzo e della cena, degli oggetti che le persone volevano riavere,
della possibilità di uscire e circolare liberamente nel parco, organizzare diversamente
le visite dei parenti, vestire i propri vestiti.
Ogni pomeriggio, lasciati i reparti, ci ritrovavamo in direzione a discutere col
direttore delle cose che accadevano, delle cose da fare, dei rischi, dei problemi, degli
inevitabili conflitti, delle opposizioni, delle resistenze all’apertura delle porte, del
ruolo dei sindacati, dei rapporti con l’amministrazione provinciale, del senso
dell’assemblea generale che ogni giovedì si riuniva nel reparto “Accettazione
uomini”, delle assemblee di reparto, delle prime forme rudimentali di partecipazione,
dell’apertura di un piccolo bar centro sociale e subito dopo di un giornalino
ciclostilato, che nella sua infantile leggerezza segnalava l’urgenza della
comunicazione. Era la mitica “riunione delle 5”.
Ugo arriva nel bel mezzo di quella riunione e viene presentato al direttore; un po’ di
imbarazzo da parte di Basaglia, come sempre, poche parole di circostanza di Ugo e
poi silenzio. Da quel momento è stato chiaro che Ugo avrebbe parlato poco, ascoltava
e vedeva molto. Da subito la meraviglia dei suoi interventi. Il taschino della sua
camicia era traboccante di matite, penne, pennarelli di diversi colori e grandezza.
Portava sempre con sé una cartella con un pacco di fogli A4. Alla fine degli incontri,
delle assemblee, delle discussioni più aspre, il segno nero del suo pennarello
restituiva con chiarezza il senso di quanto andava accadendo. La rapidità dei
cambiamenti, degli accadimenti, delle parole che nascevano e si consumavano
rischiavano di essere imprendibili. I disegni di Ugo riportavano all’essenziale
situazioni, progetti, conflitti.
“Voglio un pettine” fu uno dei primi prodotti del laboratorio di serigrafia che era nato
in quei giorni. Il poster della donna spettinata che rivendica un suo elementare diritto,
chiariva meglio di tante parole il senso, l’urgenza, il peso dei bisogni sempre
occultati e appiattiti dall’istituzione che ora di giorno in giorno emergevano, ci
interrogavano e costringevano ad accelerazioni spesso incompatibili col fluire dei
tempi e delle regole dell’istituzione.
(Tratto da “La liberta’ è terapeutica”di Peppe Dell’Acqua, Franco Rotelli e Michele Zanetti in
“L’alfabeto essenziale di Ugo Guarino” per la mostra antologica del Museo Revoltella di Trieste,
Giugno/novembre 2015, a cura di Silvia Magistrali e Francesca Tramma)