Se sono nato a Trieste è anche per colpa di Franco Basaglia.
L’esperienza che prendeva corpo agli inizi degli anni settanta in quella città aveva attratto mio padre. In quel periodo molti giovani psichiatri, o comunque operatori della salute mentale, avevano visto nella pratica di Basaglia la possibilità di stravolgere un sistema, quello asilare – manicomiale, che cominciava ad apparire oppressivo, illiberale, vergognoso nel confermare e legittimare i meccanismi di esclusione dei soggetti, anche se malati di mente, dal vivere comune. Molto spesso, in particolare ora, mi chiedo anche a cosa sia dovuta la mia scelta di diventare psichiatra. La “colpa” è ancora una volta, probabilmente, di Basaglia.
Quando è morto io avevo appena otto anni. Ho vissuto i primi anni della mia vita in continuo contatto con la realtà dell’ospedale psichiatrico di Trieste, dove in quel periodo si lavorava intensamente pensando alla sua chiusura, e con i luoghi dell’assistenza alle persone affette da malattia mentale. La mia infanzia era già stata “contagiata” dal contatto con loro. Mio malgrado non potevo che riconoscere in loro persone, compagni di gioco, talvolta anche rivali nel contendermi l’affetto di mio padre. Sempre e comunque si trattava di persone ed imparavo a viverle come tali. Ripensando ora quegli anni non è possibile non rivedere attraverso il filtro e gli occhi di me bambino quegli eventi e le problematiche che portavano con loro e che ora diversamente riesco a comprendere.
Più volte Franco Basaglia ha dovuto accettare un confronto difficile e ostinato con la città di Trieste mettendo in atto la deistituzionalizzazione. Il concetto, il pregiudizio della pericolosità che da sempre accompagna le persone affette da malattie mentali è stato uno degli ostacoli più ardui da superare. Partendo dall’emozione finale, la paura per la presenza di “folli” in giro, emerge automaticamente il significato di contenzione, di sequestro dell’ospedale che fino a quel momento li aveva tenuti, quantomeno, lontani dalla vista. È inevitabile per me il riaffiorare di ricordi, purtroppo spesso sfumati, che testimoniano l’impegno preso a dimostrare quanto non fosse necessario uno spazio separato, esclusivo per i “folli”. Inevitabile ricordare le feste estive nell’enorme e stupendo parco dell’ospedale psichiatrico di San Giovanni. I falò di San Giovanni, appunto, restituivano alla città un’area con tutta la sua problematicità, alludendo alla necessità di farsi carico del parco con i suoi abitanti entrambi segnati dal pregiudizio della “follia”.
Il parco, costruito su una collina baciata dal sole secondo i dettami e le utopie positiviste della fine del secolo scorso, accoglieva finalmente la città dimostrando la sua bellezza, mostrando i suoi inquilini, invitando alla partecipazione. Non uno spazio impenetrabile a causa dei cancelli, che non c’erano più, non un luogo da evitare perché abitato da “pericolosi matti” che invece finalmente potevano abbandonare la divisa e svestirsi di quell’etichetta e mostrarsi accoglienti ed incuriositi invece che violenti ed incapaci di comprendere. Il parco dell’ex OPP diventava uno spazio della città permettendo così che fosse riconosciuto il diritto di cittadinanza a chi, abitando nel manicomio, non ne veniva ritenuto degno.
Ancora adesso il problema della pericolosità attribuita alle persone affette da malattie mentali non è superato. L’essere “pericoloso per sé e per gli altri” è ancora un attributo immediato per chi manifesta una sofferenza psichica di qualunque tipo. Familiari, amici, colleghi sono abitualmente preoccupati prima di tutto dalle possibili conseguenze sociali del disagio e, se pure non si può dare loro la colpa di questo modo di pensare, appare necessario mettere a disposizione di tutti i mezzi, le conoscenze, le informazioni per comprendere quanto diversa sia la situazione. Vanno purtroppo considerati i limiti che una società basata sull’informazione dimostra nel raccontare dei sofferenti psichici. Basaglia, consapevole della forza della comunicazione, ha speso con intelligenza le sue energie anche per smascherare le mostruosità costruite dall’intenzionale inerzia dei media.
Ancora oggi, purtroppo, i “matti” appaiono abitualmente solo nel momento in cui compiono reati, meglio se gravi, per poi scomparire nuovamente nell’oblio. Ancora oggi si continua a ricercare “caratteri” e “segni” particolari del reo che, ancorché non sia un “paziente”, è forse semplicemente sfuggito alla catalogazione ed ha agito, quindi, da “folle”. Il lavoro di allora intorno al tema della pericolosità e al rapporto della psichiatria con la giustizia, non solo ha portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici nel nostro paese ma rende oggi evidente l’anacronismo degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, che continuano ad alimentare l’immaginario del malato mentale pericoloso, incomprensibile ed inguaribile, impedendo di fatto l’accesso, anche per i “folli rei” a percorsi di giustizia nella normalità.
Prima ancora di accogliere la città nel parco dell’ospedale psichiatrico, ma il ricordo qui è più vago e si confonde con racconti e fotografie, era stato necessario dimostrare la cittadinanza degli ospiti di San Giovanni. Se non era accettabile pensare che gli abitanti di Trieste non riconoscessero dignità di cittadini agli ospiti del manicomio, il mezzo per stravolgere tale convinzione era dimostrare la contraddizione che le mura dell’ospedale malcelavano, ormai. Diceva Franco Basaglia “È davvero un dramma dimettere una persona che stava in manicomio. Questa persona ha passato anni e anni di internamento e ora dovrà affrontare quella realtà che l’ha rifiutata e spinta in manicomio” e ancora “è come nella divisione dell’atomo, si scatenano reazioni, contraddizioni a catena”. Nella pratica di Basaglia non sono ammesse incoerenze, se contraddizione c’è va smascherata, spiegata, superata. I vaghi ricordi che ho la fortuna di portare con me in questo caso si riferiscono ad eventi che avevano luogo, volutamente, al di fuori dell’ospedale. Prima di invitare i triestini nel parco, in più di un’occasione li si era andati a trovare in città, per le strade.
Giuliano Scabia, regista teatrale e scrittore, aveva preparato “il cantastorie”. Come nella tradizione popolare in questo modo si raccontavano gli avvenimenti. Con un enorme telo disegnato, si cantava di quello che accadeva dentro e fuori il manicomio. Si cantava di una città impaurita, ma lo si faceva sotto le finestre di incuriositi cittadini, costretti dall’evidenza ad ammettere la cittadinanza delle persone che da San Giovanni li avevano raggiunti nel loro rione. Un clima festoso, perché festa era la fine dell’oppressione manicomiale, perché festa era il ritorno alla realtà della vita comune. In anni precedenti era stato il momento di “Marco Cavallo”, il cavallo azzurro. Questa fu, a Trieste, la prima, storica esperienza di contatto con la città. Marco Cavallo era di cartapesta, la sua pancia veniva riempita con i desideri degli ospiti di San Giovanni ed in corteo girava le strade. Uscendo dal manicomio, novello “cavallo di Troia”, superava i muri, le difese e trasportava nella città tutti i matti e i loro concreti ed inesaudibili desideri.
La realtà del diritto di cittadinanza è diversa, ora, nella pratica di chi affronta da operatore i problemi delle persone affette da disturbo mentale. Per la maggior parte dei colleghi più giovani il manicomio non è neppure un ricordo. Pochissimi hanno visto le strutture che detenevano le persone cui oggi possono offrire assistenza, qualcuno ha letto del manicomio, qualcuno ha visto foto o filmati, io stesso ho il ricordo di un manicomio dalle porte aperte. Probabilmente è una fortuna. Il racconto di chi ha visto e vissuto la realtà vergognosamente coerente dell’ospedale psichiatrico è sempre angosciato ed angosciante. Ricorda spesso, nei toni e nei contenuti, le descrizioni dei lager nazisti, non troppo differenti nella pratica basandosi sullo stesso principio di sottrazione di diritti e di dignità. Il mio ricordo dell’ospedale è sfumato, frammentato. Mi appare difficile, ora, ridisegnare cosa era San Giovanni avendone chiara la sua struttura e funzioni attuali. I padiglioni, pur rimanendo sostanzialmente uguali all’esterno, sono ora profondamente mutati ed ospitano divisioni dell’Università, scuole, servizi dell’azienda sanitaria. Pochissimi sono gli ex degenti dell’ospedale psichiatrico, ospitati in case famiglia create in alcuni edifici. Nel mio ricordo erano tanti di più. Durante le interminabili riunioni cui partecipava mio padre io giravo per il parco dell’ospedale, splendido nell’offerta di spazi e di natura. Da solo o con amici e vedevo e conoscevo. Ho, peraltro, frequentato l’asilo che fu subito creato all’interno del parco per i figli di operatori ed assistiti (si poteva allora cominciare a chiamarli così), i miei ricordi sono popolati dalle persone che frequentavano il parco. Credo che uno dei ricordi più vivi sia legato a Brunetta, una giovane ragazza, non era l’unica dell’ospedale ad aver subito una lobotomia, ma veniva spesso al cancello dell’asilo per offrirci caramelle. Per anni l’ho incontrata nel parco dell’ospedale, incapace ormai di far comprendere le sue parole camminava sempre sulle punte e, più di tutto, ricordo il dondolio del suo busto non appena si sedeva. Erano tutti effetti dell’intervento chirurgico che aveva subito. Anche la sua morte è stata conseguenza di quell’operazione.
Se pure la “dimissione” è un momento difficile della mia pratica clinica, e non mancano “reazioni a catena”, essa riguarda ora una persona ricoverata per un periodo assolutamente circoscritto di tempo. “Quando una persona vive in ospedale, si creano cambiamenti incredibili in famiglia. La famiglia si organizza in altro modo, indipendentemente dalla persona internata”. Per la generazione di operatori cui io appartengo, nella quasi totalità dei casi, questo problema non si manifesta più con quelle caratteristiche, pur presentandosi ancora drammaticamente l’esclusione, la deriva sociale, l’abbandono. È oggi naturale, ed è infatti nostro compito spiegare e dimostrare quanto la persona sofferente abbia necessità di confrontarsi e di trovare spazio nella sua famiglia, sul suo posto di lavoro, nel suo quartiere. Quanto rivoluzionario è oggi pensare che non esista un luogo della cura se non il luogo ove la persona vive. La presa in carico è, ora, un gesto direttamente conseguente alla pratica di quegli anni, confermato da una legge che da quel periodo è scaturita. Il lavoro critico svolto da Basaglia nei confronti della psichiatria permette oggi di affrontare problemi e di guardare alle persone in una luce ed in una dimensione sconosciuta alla psichiatria stessa soltanto trent’anni fa. Rifiutando il ricorso alla contenzione, alla separazione ed alla cancellazione dei soggetti è possibile oggi intravedere percorsi concreti di cura, di riabilitazione e di emancipazione nel “mondo reale”. L’attuale pratica psichiatrica, anche se questa definizione credo piacerebbe poco a Basaglia, agisce nel solco che in quegli anni ha segnato lui stesso. La presa in carico, il rispetto che dobbiamo ai malati, la difesa che talvolta dobbiamo agire nei confronti di una società che esclude o di una famiglia che stenta a comprendere hanno avuto inizio allora, a partire dalla ricerca ossessiva di Franco Basaglia di confronto con “il mondo reale”. La legge 180, che delle pratiche sperimentate in quegli anni è il diretto risultato, obbliga a seguire altre strade, altri percorsi che, pure se impervi, dobbiamo perlustrare. Molte volte mi sono trovato a parlare con colleghi, perlopiù giovani, che poco sanno dell’origine delle loro attuali pratiche, di quello che, sperimentato da Basaglia e dalla sua equipe a Trieste negli anni settanta, permette ora di agire, di curare al di fuori dell’ospedale psichiatrico e delle separazioni.