Che il manicomio criminale sia luogo orrendo tanto nella sua accezione letterale che simbolica è opinione ormai ampiamente condivisa.
La concezione del disturbo mentale e le modalità di cura e di riabilitazione derivanti dalla legge 180 hanno giustificato il dubbio di costituzionalità, non solo in ordine all’esistenza dell’ospedale psichiatrico giudiziario, ma soprattutto intorno agli automatismi giuridico-psichiatrici che definiscono l’infermità di mente e con essa l’incapacità di intendere e di volere come giudizio assoluto riferito alla totalità della persona e, logica conseguenza, la negazione della persona stessa, oggi, non più accettabile.
La “soppressione” del manicomio criminale, non solo perchè luogo di addizione e sedimentazione del “peggio” dell’istituzione carceraria e manicomiale, ma soprattutto perchè gli strumenti della psichiatria legale, i saperi e le teorie cui essa fa riferimento, risultano oggi assolutamente inadeguati. A più di un secolo dalla sua fondazione essi sono inutilmente (e disperatamente) classificatori; disfunzionali in ordine alla concretezza del destino istituzionale che riservano alle persone; fallimentari rispetto alle finalità di cura, rieducazione, inserimento sociale e riabilitazione che in ogni caso e per qualsiasi cittadino devono essere garantite. Peraltro la pesantezza del sistema, incompatibile ormai con le esigenze democratiche, di eguaglianza delle nostre organizzazioni sociali, finisce per tradire anche il fantasioso immaginario di protezione sociale: le deroghe e la sospensione anticipata delle misure di sicurezza non garantiscono più i cittadini “dal pericolo della follia” (ma quando mai sistemi coercitivi e di brutale esclusione hanno garantito qualcuno!). La disuguaglianza dei cittadini che commettono un reato di fonte alla legge diventa una frattura lacerante e irrecuperabile.