Ringrazio vivamente Luigi Benevelli che in modo chiaro ha posto il problema della formazione degli operatori della psichiatria e della salute mentale. E’ un tema centrale e viene da chiedersi come mai alla Conferenza non erano presenti universitari? Il mondo dell’accademia resta lontano dalle prassi, da questioni sociali? La “scienza” sta altrove rispetto alla politica? Quale psichiatria? Quale formazione?

A mio avviso la formazione si inscrive in una duplice questione: a) quella dell’oggetto del sapere e dei suoi interventi; b) quella delle relazioni, delle c.d. interfacce della psichiatria con tutte le articolazioni del potere politico, giudiziario, dell’ordine pubblico, economico, della comunicazione e anche della formazione e della ricerca.

Da queste relazioni, esplicite ma spesso implicite, non verbali, da prassi deriva una continua ridefinizione dei mandati reali. Questo per la psichiatria è cruciale specie se si vuole mantenere come centrale, il mandato di cura, l’unico che a certe condizioni può esercitare. Ne deriva che la definizione e la difesa delle condizioni per la cura rappresenta in sé un ulteriore questione cruciale. Su questo, sulla posizione di garanzia, vi è un lavoro da fare. Anche perché da essa non solo discendono il mandato, le attese sociali e giudiziarie ma anche il riconoscimento del malato come persona con pieni diritti e doveri. Ulteriore tema sul quale nonostante i miglioramenti della 180, molto resta da fare.

L’insieme di queste questioni rimanda a Basaglia, cioè a che cos’è la psichiatria, oggi? 

Abbiamo dimostrato che vi può essere una psichiatria no restraint (per altro ancora minoritaria), che cerca di agire su tutti i (micro)determinanti della salute mentale e quindi promuove diritti, responsabilità, libertà e recovery ma vi può essere anche una psichiatria “povera” (Saraceno, Borgna), trascurata, dalle prassi stentate e rese marginali dal disinteresse generale. 

Tra queste sembra farsi strada una psichiatria fondata su diagnosi categoriali dei manuali diagnostici e statistici e Linee guida per terapie prevalentemente biologiche. In questo modo diviene la psichiatria “tecnica”, “scientifica” apparentemente neutra rispetto alla politica sociale ma anche alle condizioni, alla storia delle persone. Dati di contesto quando va bene rilevati ma da accettare come elementi di contesto, privati e spesso immodificabili che stanno intorno ad un oggetto “reificato”.

Una “pseudopsichiatria” che lascia al di fuori sia le componenti psicopatologiche, psicologiche e relazionali, sia quelle sociali ma anche la storia e la vita delle persone reali. Che non affronta le contraddizioni e l’impotenza ma si pone, tramite l’oggettivazione (non conta quanto fondata) in una relazione sintonica con una società neoliberista per la quale la comunità non esiste, i diritti sono opportunità, ciascuno deve fare per sé, la povertà è una colpa. Una psichiatria che forse inconsapevolmente favorisce una “deumanizzazione”.

Attraverso una campagna in atto dagli anni 80 la privatizzazione della sofferenza, la perdita del suo valore pubblico e relazionale è un’operazione politica di ampia portata che investe ogni ambito. Proprio attraverso un’apparente depoliticizzazione si attua una grande manipolazione della politica e la lesione del patto sociale solidale basato sulla condivisione di rischi, benefici e responsabilità, a fondamento di un sistema di welfare pubblico universale. Una psichiatria fondata sulla domanda individuale e sulla tutela dell’ordine pubblico.  Mediante un’operazione riduzionista, la psichiatria, deprivata della parte sociale e spesso relazionale, fa della tecnica la questione centrale in relazione sia alla funzione sociale e alla sua pretesa scientificità volta a favorire il suo riconoscimento in ambito medico. In questo il confronto internazionale è un riferimento problematico per la psichiatria italiana, sia per la sua unicità sia per la persistenza di manicomi civili e giudiziari, elettroshock, di pratiche coercitive e contenitive (anche preventive) con tanto di procedure e linee guida. A questa psichiatria basata su una visione riduzionista, su una coercizione “ben fatta” guarda un pezzo di psichiatria, riproponendo modelli manicomiali, più accettabili e asettici dei vecchi ospedali psichiatrici. Non deve sfuggire che se cadono gli anticorpi, se non si alimentano la motivazione, le risorse dall’interno del sistema potrà svilupparsi la domanda di neoistituzionalizzazione come possibile punto di incontro tra difficoltà delle famiglie e richieste sociali. Tutto questo ben lontano a vite autodeterminate, indipendenti, basate sulla casa e deistituzionalizzazione. A questo proposito è significativo l’editoriale di The Lancet del 17 febbraio 2024 che ha rilevato il sostanziale fallimento del sistema britannico di salute mentale basato sul risk assessment e sui trattamenti coercitivi nella comunità. 

A questo possono concorrere le neuroscienze e le nuove conoscenze derivanti da genetica/epigenetica, connettoma, microbioma e plasticità del SNC. Infatti, è proprio da queste vengono molte evidenze per un approccio olistico e la complessità che rilancia la questione dei determinanti sociali, ambientali, economici. Una psichiatria che non si nutre attraverso l’apporto di sociologia, psicologia e psicopatologia, letteratura, arte e cultura. 

Non furono questi gli apporti molto significativi dell’esperienza di Basaglia, Rotelli e Tommasini? Ed oggi, l’approccio transdisciplinare, interdisciplinare, la connettanza tra discipline ne crea di nuove (l’oncocardiologia, l’ingegneria medica) è la base metodologica per la ricerca, restare arroccati significa restare dentro impianti superati, incapaci di cogliere le opportunità e i limiti delle nuove tecnologie (home care, a distanza, ecc.) e della multiculturalità. Vi sono ritardi nello studio delle implicazioni di questi cambiamenti sul funzionamento mentale, sulla salute mentale e sulla comunità.

Su questi vi sono linee di ricerca molto importanti ma ancora prive evidenze dell’impatto sulle pratiche e su gli esiti. Al centro permane il modello medico di malattia, una concettualizzazione dei disturbi in parte superata e la terapia psicofarmacologica purtroppo da molti anni senza scoperte. Una situazione della psichiatria nella quale rischia di restare arretrata rispetto a quanto sta accadendo nel resto della medicina (in oncologia, cardiologia, riabilitazione ecc.) sempre più attenta alla complessità, dell’empowerment del paziente, al suo funzionamento, alla sua condizione e qualità di vita.

A questo, pur in un quadro positivo e di speranza, si dovrebbe accompagnare la consapevolezza del limite, l’umiltà della ricerca e di prassi fondate sui diritti (in primis di autodeterminazione) in grado di essere sapere critico. 

Invece in molti ambienti prevale un astratto neopositivismo onnipotente o più spesso una lamentazione acritica che affronta le inefficienze con la rassegnazione o con un uso del potere di coercizione. In un quotidiano in cui tutte le psichiatrie possibili possono prendere vita, ne può derivare la psichiatria “dell’obbedienza giudiziaria” che agisce la componente restraint assai funzionale al potere e all’ordine pubblico. Prassi comune è che in caso di reati, prima di un arresto le forze dell’ordine portino la persona in PS per una visita psichiatrica. Questo evidenzia la questione del rapporto con il potere ed implica sempre uno schieramento se dalla parte del paziente o dell’ordine costituito. Non si può servire due padroni e per questo ritengo che la psichiatria possa essere al servizio (munus) e responsabili (res pondus, portare i peso) solo rispetto al paziente. Quindi superamento di ogni posizione di garanzia di controllo a carico dello psichiatra, condizione perché la persona sia sempre libera, responsabile e non carica di pregiudizi di pericolosità, irresponsabilità.

Questa posizione si confronta con una linea che teorizza sottilmente e implicitamente che una dose di coercizione (con amministratori di sostegno, patti di rifioritura e simili) sia necessaria e intrinseca alla cura. A distanza di oltre 46 anni è un tema ancora aperto e apparentemente non affrontabile esplicitamente nonostante le tragedie (Mastrogiovanni, Elena Casetto, Barbara Capovani ed al) ma rischia di rilanciarsi una visione securitaria e del paziente pericoloso a sé e agli altri. 

Occorre quindi esplicitare e decostruire le contraddizioni: restraint/no restraint, consenso/obbligatorietà-coercizione, libertà, diritti e responsabilità/ coercizione.

A parole, anche in ambito universitario la 180 è condivisa.  Soprattutto per quanto attiene ai requisiti per i TSO, tra l’altro in costante riduzione (meno di 5 mila nel 2023), come garanzia del rispetto dei diritti individuali mentre è meno comune vedere le contraddizioni, la portata della legge per i diritti e per l’applicazione del patto sociale. Si è sviluppata una sostanziale sfiducia nella possibilità di rivendicare diritti inesigibili, di operare un’inclusione sociale in ambienti indifferenti o sostanzialmente ostili e/o razzisti. L’idea che la psichiatria possa cambiare la società sembra accantonata. E con questo al di là delle presa d’atto dei limiti, ci si priva di un importante fattore terapeutico ben evidente nella disabilità nella quale oltre a migliorare il funzionamento si opera per abbattere le barriere architettoniche e culturali. A questo la psichiatria non può rinunciare e non basta ma può essere anche fuorviante, combattere lo stigma e il pregiudizio dicendo che i disturbi mentali sono malattie come le altre, quindi attraverso una mera medicalizzazione. Questo in una fase dove la medicina riscopre le valenze psicologiche, sociali, ambientali, culturali e politiche.

Se è vero che questi sono aspetti complessi e difficili, ciò non giustifica un ripiegamento sulle tecniche (biologiche o psicologiche) che diviene funzionale a privatizzare la sofferenza, a creare un ambito terapeutico nel quale, se non funziona, può portare alla colpevolizzazione, all’abbandono e/o alla richiesta di coercizione. Non è infrequente che impasse nelle psicoterapie, vedano richieste di interventi psichiatrici intesi come prescrizione di farmaci, ricoveri e addirittura TSO. 

Pur con tutte le difficoltà, rappresentate da tutte componenti (utenti, familiari, operatori) per ridare speranza e motivazione i servizi non vanno attaccati ma sostenuti, tramite il dialogo aperto, il confronto e la partecipazione, l’apporto di risorse. Questo vale anche per l’università. Se è diventata più funzionale alla tecnica e al mercato che non al sapere critico, alla sperimentazione e alla ricerca indipendente, il confronto con la complessità del reale, con l’umanità e le prassi è la via per la costruzione di una nuova psicopatologia e di interventi innovativi.

Per quanto attiene la psichiatria tutti i cambiamenti sono avvenuti al di fuori dell’università. E’ stato così per la chiusura degli ospedali psichiatrici civili e giudiziari. Lo stesso anche per quanto attiene la creazione dei servizi del welfare di comunità.  Quello che viene insegnato è funzionale alla creazione di un tecnico che ha conoscenze di base di psicopatologia e terapia farmacologica, ma spesso poco sa delle relazioni e della complessità del sistema nel quale andrà ad operare. La formazione è in ritardo nel dare conoscenze e prassi rispetto ai problemi emergenti del neurosviluppo, dca, percorsi giudiziari ma anche di approcci (dialogo aperto, psicoterapie, psicoanalisi multifamiliari, rimedio cognitivo, IPS, ma anche cura della salute e stili di vita, prevenzione ed al). 

La frequenza dei DSM dovrebbe essere obbligatoria nel corso della specializzazione e della formazione di tutti i nuovi professionisti. Specifici insegnamenti andrebbero inseriti o implementati e qualificati quelli esistenti. Forse può essere migliorata l’interlocuzione con il ministero dell’università.  

Come rilevava Luigi Benevelli vi è stata anche un grave carenza nella programmazione sia in deficit si pensi a medici e infermieri sia in grave eccesso come nel caso degli psicologi.

Su quest’ultima figura, riconosciuta con la legge 56/1989, per quanto attiene la psicoterapia si è arrivati ad avere una formazione solo privata, molto onerosa per acquisire un titolo richiesto come requisito per l’accesso al servizio pubblico. Sono attive oltre 320 scuole tutte con orientamenti diversi e finalizzate a formare professionisti con la mentalità del lavoro “privato” e non del servizio pubblico di comunità.

Credo sia stato un grosso errore. Questo è alla base del ritardo nell’avere una psicologia clinica e di comunità adeguata ai compiti non solo nell’ambito della salute mentale ma anche dell’attuazione del DM 77/2022 sulle case di comunità. Nei dipartimenti vi sono 2.223 psicologi (rispetto a 5002 medici) e potrebbe essere un figura chiave per promuovere modelli diversi ma spesso l’attività tecnica viene utilizzata in parte nel pubblico ma spesso per la libera professione.

Questo è l’altro elemento molto critico del sistema di welfare pubblico: l’intramoenia e l’extramoenia sono totalmente da abolire. 

Manca la specializzazione degli infermieri (introdotta quest’anno per pronto soccorso, pediatria ma non per la salute mentale) nonostante un interessante documento del FNOPI e Società Scienze Infermieristiche in Salute Mentale. Anche per le assistenti sociali figura molto importante per la salute mentale manca una formazione specifica. Più articolati i percorsi di TRP ed educatori mentre sono residuali sociologi, epidemiologi e ancora da definire il possibile apporto di utenti e familiari esperti. 

Vi sono poi le condizioni di lavoro, sicurezza, stipendi, conciliazione dei tempi, indennità, riposi, formazione che meriterebbero approfondimenti e misure specifiche anche perché la psichiatria in alcuni ambiti (carcere, REMS, residenze ed al.) ha uno scarso appeal quando non viene attivamente rifiutata.

Credo che ordini professionali e società scientifiche possano/debbano essere chiamate a collaborare.

La materia meriterebbe un approfondimento tematico, un gruppo di lavoro. Anche perché nonostante varie iniziative molto importanti (Istituto Superiore di Sanità, e di Centri come Minguzzi, Basaglia, Conferenza, No restraint ed al.) che la Conferenza ha riunito non si è arrivati a costruire un Centro nazionale di formazione permanente in salute mentale, dedicato a Franco Basaglia che ogni anno promuova master, corsi, specializzazione, ricerche per dimostrare come si fa, insieme. Un grande recovery college nel quale far convergere tutti i saperi professionali, per esperienza, della comunità.

Potrebbe essere la proposta per la chiusura dell’anno del centenario della nascita, per ridare spinta alla motivazione, all’etica e alla politica. La 180 così può essere davvero un bene comune.